Il senso del ridicolo

24 Settembre 2015

Venerdì 25 settembre 2015 inaugura a Livorno Il senso del ridicolo il primo festival italiano sull'umorismo, sulla comicità e sulla satira. Tre giorni di incontri, letture ed eventi sul tema dell’umorismo; interverranno: Francesco Tullio Altan, Sergio Staino, Maryse Wolinski, Maurizio Bettini, Francesco Piccolo, Alessandro Bergonzoni, Francesco Cataluccio, Gioele Dix, Enrico Mentana, Maccio Capatonda, Gianni Canova e molti altri ancora.

 

Promosso da Fondazione Livorno, con la collaborazione del Comune di Livorno, il patrocinio della Regione Toscana e la media partner di RaiRadio2, il festival è diretto da Stefano Bartezzaghi, cui abbiamo rivolto alcune domande.

 

 

Perché si è scelto il senso del ridicolo come titolo del festival e non il riso? Che differenza c’è fra le due parole?

Beh, da un lato sarebbe stato difficile trovare un titolo sul riso che non facesse pensare all’alimento. Dall’altro lato a me interessa proprio il senso del ridicolo, come ciò che ci consente di ridere e ci suggerisce come non far ridere. Abbiamo ancora il senso del ridicolo? Sulla scena mediale, per farci notare, possiamo coprirci di ridicolo; di altre cose invece non ridiamo o non possiamo ridere: le cerimonie solenni dell’Immagine (penso ad esempio alle convention aziendali o ai brand che ritirano i loro investimenti pubblicitari ai giornali che ospitano satira contro di loro).

 

Sorridere e ridere sono due cose diverse ? Cosa scatena il riso e il sorriso a tuo parere?

A me sembrano due cose diverse, tanto diverse che addirittura mi rammarico che i loro nomi le ravvicinino, come se il sorriso fosse un “sotto-riso”, un riso sommesso. Ridere è facile, sorridere è molto più difficile. Ridere è una reazione esplosiva a un evento esterno, si può ridere senza volerlo. Sorridere richiede una disposizione interiore. Ci si può sforzare di sorridere, non c’è bisogno di sforzarsi di non farlo quando non lo si vuole. Ridere ha a che fare con l’umorismo, sorridere ha a che fare con l’umore.

 

Umorismo è un termine che ha vari significati: quali secondo te sono oggi i significati correnti?

Quando ho incominciato a progettare il festival ero spaventato da tutte quelle categorie e sottocategorie che da Bergson, Freud, Pirandello, Croce, Propp, Bachtin e via dicendo hanno ricevuto le più diverse definizioni. Si tratta di un campo concettuale molto molto confuso. Per questo ho scelto di fare un passo indietro e concentrarmi su qualcosa di più fondamentale: il riso. Cosa sia oggi l’umorismo non lo so più: la sua funzione metalinguistica, e di critica dell’esistente, temo sia perlopiù smarrita. Mi piacerebbe che il festival ci aiuti a capire se ci sono le condizioni perché la nostra voglia di ridere funzioni di nuovo come strumento di critica.

 

Si parla di umorismo ebraico nel festival. Esiste un umorismo legato ai vari gruppi umani e alle diverse culture?

Gioele Dix, che presenterà parte del suo lavoro sulla Bibbia, mi ha preannunciato che criticherà la nozione di “umorismo ebraico”, su cui invece si soffermerà Francesco Cataluccio. Sono curioso di sentire entrambi. È probabile che si tratti di categorie grossolane ma, appunto grosso modo, qualcosa da dirci mi sembrano averla. Se una lingua e una cultura sono innanzitutto modi di guardare al mondo, l’umorismo è l’istanza che turba quello sguardo, ne contesta i risultati, sovverte le categorie che ne derivano. L’umorismo è insomma – secondo me – il modo che una cultura ha per dire: “Non credo ai miei occhi”.

 

Esiste un umorismo italiano?

Un po’ come conseguenza di quello che dicevo prima, sospetto che ci siano diversi umorismi italiani, legati ai dialetti o meglio alle parlate regionali. Di fatto sono pochissimi i comici italiani che non diano alla loro intonazione una marca locale. L’italianità consiste nel fatto che i comici siciliani sono perlopiù apprezzati anche in Lombardia, e viceversa: ci riconosciamo come italiani traguardando le nostre differenze, tanto per raccogliere un suggerimento del linguista Nunzio La Fauci.

 

I giochi di stile hanno una grande importanza nell’umorismo, sono una delle fonti del riso. Come vedi tu questo aspetto linguistico?

Cosa intendiamo qui per “giochi di stile”? Se lo stile, come si è pensato a lungo, è una deviazione dalla norma, l’umorismo è una risorsa stilistica universale – ma il problema è casomai capire cosa la norma sia. Peraltro io penso che gli Esercizi di stile di Raymond Queneau siano un libro capitale del Novecento e che averli ricevuti come opera più che altro umoristica, o addirittura comica, abbia contribuito a pervertirne la vera identità. Che per me è quella di porre la questione della banalità e del luogo comune, assieme a tutti i suoi paradossi. Ridiamone, ma pensiamoci.

 

Sappiamo ancora ridere o siamo solo un popolo che piange?

Sappiamo ridere fin troppo bene. Il riso e il pianto sono due culmini, il massimo dell’effetto che molti comunicatori oggi si propongono di conseguire. Da anni ormai la gerarchia comunicativa si impernia sul tema dell’emozione, di cui non dovrebbe sfuggire la parentela, fatale, con la rimozione. Il riso spensierato è bellissimo ma non dovrebbe essere l’unica forma di riso: il pensiero ridente, per esempio, è altrettanto augurabile.

 

Il senso del ridicolo. Programma

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