Stefano Bartezzaghi: bisogna saper vincere

9 Giugno 2024

Per litigare occorre prima essere d’accordo. Affermazione tanto paradossale (in principio) quanto evidente (nei fatti). Io non litigo con un estraneo assoluto, con uno che non ha i miei sentimenti e i miei valori, il mio orizzonte ideologico e morale. Provate ad attaccare briga con il vostro marziano personale: impossibile, neanche capisce quel che dite. Non tanto perché non parla la vostra lingua quanto semmai perché non possiede la medesima cultura, lo stesso piano di immanenza: non capendo le vostre ragioni, non ha che cosa controbattere. E viceversa. Un minimo di sapere condiviso deve pur esserci: altrimenti è impossibile bisticciare. Con chi polemizzo allora? È ovvio: con chi la pensa come me ma non esattamente; dunque grazie a quel necessario scarto esistenziale ed etico per cui, nel comune calderone valoriale, finiamo per sostenere idee opposte.

Ecco, assai in sintesi, la tesi del nuovo libro di Stefano Bartezzaghi, dove l’idea stessa di competizione e di agone, ripensata alle radici, si rivela assai più problematica del previsto. Il gioco, lo sport, la guerra sono forme diverse di polemica. Hanno tuttavia una qualche forma comune? Se sì, in che cosa consiste? E come si gestisce questo paradosso realizzato secondo cui ogni agonismo è fortemente ambivalente, essendo al tempo stesso significativo e annichilente, produzione e cancellazione di qualsiasi senso umano e sociale, individuale e collettivo? “L’agonismo è sia il quadro in cui i contendenti si contrappongono, sia la cornice che li comprende. […] l’agonismo può sopportare le differenze più radicali fra i contendenti ma li deve comunque riunire in un campo comune. Ci deve essere accordo fra loro sui termini della loro contesa, anche se l’accordo è fittizio (come nel caso del baro) o è limitato al puro fatto di scontrarsi, senza presupporre un’altra forma di intesa”.

A queste domande, appunto, risponde in modo articolato Chi vince non sa cosa si perde (Bompiani, pp. 267, € 19), dove Bartezzaghi ragiona sul fatto che l’agonismo, nelle sue prevedibili incurvature, non soltanto si fa modello dei nostri comportamenti quotidiani ma, via la cosiddetta società dello spettacolo, diviene una chiave per spiegare e comprendere alcune delle attuali trasformazioni planetarie. Da una parte, assistiamo sempre più spesso all’espandersi della competizione ludica, sportiva o meno, in ambiti decisamente meno ludici come i conflitti bellici – evergreen delle cronache mediatiche. D’altra parte può accadere che nel passaggio dal gioco-sistema al gioco-processo, come dire dal game al play, dalle regole alla loro applicazione, ci sia sempre uno scarto creativo, una zona interstiziale dove il meccanismo competitivo, per funzionare, deve avere un margine di aleatorietà, di movimento interno. Come quando si dice che deve essere un po’ di gioco fra i pezzi di una macchina, là dove va posto – con estrema cura – del lubrificante che la renda efficace, che la mantenga in opera. Bartezzaghi ricorda al proposito quel passo della Recherche proustiana dove la giovane Gilberte propone al narratore: “ se volete possiamo lottare ancora un po’… con bontà”, facendo cioè in modo, come si ricorderà, che la lotta si mutasse in pulsione erotica, in infervorata tenerezza. Giocare contro qualcuno è sempre, inevitabilmente, giocare con qualcuno, di modo che il compagno e l’avversario sono ognuno il presupposto dell’altro. Al riparo dei cespugli degli Champs-Elysées Marcel e Gilberte, ogni domenica pomeriggio, lo scoprivano con passione e prossima nostalgia per l’accaduto. 

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È per questo che chi vince non sa cosa si perde. Bisogna saper perdere, proclamava il titolo di una canzone che allo Stefano bambino (è lui che qui lo racconta) veniva regolarmente inflitta quando non riusciva a risolvere un cruciverba o segnare un gol durante la solita partita improvvisata nel cortiletto sotto casa. Imparando a perdere si impara poco a poco, non tanto a vincere, quanto a giocare, come dire a vivere: accettare un certo ruolo, aspettare il proprio turno, tener conto dell’altro, gestire i passaggi continui – le entrate e le uscite – fra livelli di realtà che sono altrettanti mondi di finzione, quinte teatrali (già ben prima che Pirandello o Goffman ce lo spiegassero). Il motto del titolo funziona pertanto da invito a riflettere sul fatto che vincere e perdere non sono del tutto reciproci: vincendo, si disimparano tante cose; perdendo, non si finisce mai di apprendere dell’altro. Scoprendo per esempio che, come sa il maestro di tennis di Infinite Jest, alla fin fine si gioca sempre con (e contro) se stessi. Di modo che il bravo tennista (ma vale anche per il rugbista, omone forzuto e gentile) non è uno che strazia l’avversario meno forte di lui ma, molto diversamente, un maestro che fa della partita “una ricorrenza di stati di tensione che punteggia lo scambio”.

Il libro di Stefano Bartezzaghi è diviso in due parti. Nella prima si esaminano, in scala crescente ma costante, le varie forme dell’agonismo: gioco, sport, guerra raccontata (soprattutto nell’Iliade) e vissuta (capitolo finale sull’Ucraina), in un gioco (è il caso) di intrecci tra riferimenti teorici essenziali (Huizinga, Callois, Eco…) e casi esemplari presi dalle cronache contemporanee. Nella seconda parte (“che cerca i conforti di una ironica distensione”) ci si immerge nel mondo ariostesco, dedicando quattro interi capitoli ai quattro termini che compongono il chiasma iniziale dell’Orlando furioso: le donne, i cavallier, l’arme, gli amori. 

Al di là della varietà dei riferimenti e della profondità concettuale del volume, tutto da leggere, vale la pena di soffermarsi sulla ipotesi di fondo relativa a un’originale interpretazione della contemporaneità. Tornando al titolo, Bartezzaghi osserva che colui che vince, grosso modo dagli anni Ottanta in poi, non è sempre e necessariamente un vittorioso, uno che ha giocato e, alla fine, ha vinto. Si tratta piuttosto di un vincente (un winner), ossia di qualcuno che ha la competenza per vincere senza averlo pur tuttavia ancora fatto, e senza forse farlo mai (si riveda tutta la comunicazione Nike). Una specie di destino, un’inclinazione, una mentalità (non posseduta invece dal loser) che, appunto da quel periodo in avanti, viene messa in opera non solo nel gioco e nello sport ma, più gravemente, nella società. La quale, per questo, non è più il luogo del dialogo costruttivo ma, appunto, “agone sociale”: là dove il gioco si trasforma, annacquandosi e al tempo stesso rafforzandosi, in una dimensione ludica generalizzata che fa della competizione la base d’ogni azione e relazione. Un vincente non può sapere cosa si perde, ma sarebbe bene che lo imparasse. 

Si eviterebbe in questo modo di accentuare il paradosso per cui la competizione generalizzata alla quale assistiamo nel sociale (che sfocia, si sa, nelle guerre-guerre), smentendo l’assunto principale dell’agonismo che vuole le parti scontrarsi ad armi pari, aumenta a dismisura le disuguaglianze, dal mondo dell’economia a quello della formazione, dalla comunicazione allo spettacolo, dall’editoria a, manco a dirlo, la politica. “Come per un malinteso para-darwiniano, la struggle for life (o una sua parodia) ha occupato ogni ambito. La competizione è diventata la risposta all’egualitarismo e la quantificazione dei meriti ha assunto la funzione di stabilire graduatorie in ogni settore”. Ogni play è certo applicazione di un game, ma dovrebbe altresì basarsi su un fair play. Che, appunto, sembra oggi tragicamente mancare.

Il libro, Chi vince non sa cosa si perde (Bompiani, pp. 267, € 19), sarà presentato dall'autore Stefano Bartezzaghi in dialogo con Silvia Romani Bompiani lunedì 10/06/24 alle ore 18.30 presso la Biblioteca Ostinata - via Osti 6 - 20122 Milano (info@bibliotecaostinata.com)

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