Il tempo dei morti
Il tempo dei morti di Alessandro Carrera, libro uscito per Moretti e Vitali, con acuta prefazione di Franco Nasi e arricchito anche da una conversazione finale dell’autore con Andrea Bajani, è un dramma in versi che per struttura e stile potrebbe sicuramente essere rappresentato teatralmente, con le sue quinte nitide e insieme misteriose di angoli sacri, nature primitive ma anche industrie lontane, a far da sfondo alle microstorie che davanti vi fluttuano, innervate di serrati dialoghi ma anche abissali soliloqui. Libro scritto in un lasso di anni molto lungo, dal 1990 al 2022, che però, dettaglio rilevante, rievoca un tempo ancor più lontano, potremmo quasi definirlo protostorico, che corre dagli anni ‘20 del secolo scorso alla fine della guerra per risalire poi dagli anni ‘50 sino alla fine del secolo. Ecco, dicevo poc’anzi, serrati dialoghi, abissali soliloqui, cori di voci anche, si susseguono nelle XIV scene in cui il libro è suddiviso, certo, ma tra chi? di chi?
Nell’incipit identificativo delle voci stesse, si legge: il padre morto, l’angelo, la madre, il figlio, il bambino morto, il droghiere, il coro dei morti, il padre ragazzo ma anche, a rincorrersi nelle pagine, vi sono le “canzoni”, perturbanti madrigali, del figlio, del bambino morto, della madre. E ancora questi quadri-quinte che si avvicendano come accennavo, dietro la texture, cosa rappresentano? Fissiamone uno magari, il primo, dove tutto ha inizio. Campi perimetrati da stradine della bassa lodigiana, una cappella, con i suoi simboli, il padre morto che si aggira in questo spazio e che pare dirsi: “…Nascere, morire, tutte cose//chiuse a chiave, avessi avuto tempo di fermarmi,/pensar su che senso aveva. A me non m’è toccato,/…/…Ho finito di scrivere il discorso,//di solito non scrivo, mi metto e non mi vien in mente/niente,…/Il discorso al funerale del droghiere, forse è lui//che me l’ha scritto,…”.
Ecco allora correre le storie, nella filigrana delle relazioni esistite tra i personaggi sopra menzionati; ma delle loro voci, che risuonano in scena, cosa sappiamo? il padre morto era o forse è? Vista la sincronia dei tempi strofici del libro, un operaio nelle industrie della lodigiana, del figlio sappiamo della sua cultura ma anche della fatica a dialogare col padre stesso; il bambino morto è il fratellino del padre e morirà appunto in tenera età, in quello stesso orfanotrofio dove entrambi erano, per aver perduto i genitori. Ma c’è qualcosa di sotteso e inquietante in questi versi; è come se ci trovassimo in uno spazio letterario che ha doppi, tripli fondi e ad ogni lettura precipitassimo in un luogo senza più coordinate, dove non c’è un sopra, un sotto. E quando crediamo di aver intuito il senso di una trama, ecco che l’ombra di una parola, di una frase, ci ritrascina in un punto oscuro, come quando il padre morto dice dei suoi genitori: “…/Li ho visti prender polvere, invecchiare/come cose, e se loro mi hanno visto/che crescevo, il beneficio non lo so./ Che abbraccio gli darei se li incontrassi?/Che ne sanno di me, ed io di loro?/Come posso tornare da mio figlio/ se da dove vengo io non c’è più strada?”.
Siamo dentro a una sorta di teatro dell’assurdo beckettiano; specchi-versi che riflettono storie remote. Da dove vengono e dove vanno? Non solo, tutti i personaggi, sì, appartengono al tempo dei morti, eppure essi rievocando le loro esistenze sgualcite, piene di privazioni ma anche talvolta di qualche bagliore, sembrano possedere negli occhi una sola rappresentazione: la vita. Costoro, non ci parlano di alcun al di là e davvero potrebbero averne contezza? Sostano invece, in un limbo purgatoriale, che è così sapido di vita; paiono sporgersi di qua, per raccontarci dell’esistenza che fu, delle speranze infrante, dei sogni che mai si realizzarono. Addirittura il bimbo morto dal suo orfanotrofio, continua a cantare la sua eterna fanciullezza, che mai crescerà, e richiamare quasi allo sfinimento il fratello (padre morto) che invece è cresciuto e non ha voluto condividere con lui, colpevolmente, lo stato della precoce eterna morte: “…/Mio fratello, lì che dorme,/lui sì che mi potrebbe dire/dove sta la mia tomba,/se non gli fosse venuta/ quella strana idea di fare il vivo,/crescere, farsi portar via/da un vento, da un treno,/da una rima sentita alla radio./…”.
Sì, certo, queste ombre, ci parlano di storie, con accenti però così reconditi che talvolta quasi sanno e non sanno più di questa vita; quel loro modo di essere, restituire esperienze, con un tono amarissimo, ci fa intuire che provengono da una dimensione altra, per certi versi imperscrutabile. E così nella riesumazione dei tanti attimi di vita che si allungano, distorcono, si avvicinano e accavallano in un lembo d’ora che tutti li raggruma, ecco ticchettare gli ultimi tempi: quelli della madre, nel letto d’ospedale col figlio che le è accanto: “Dio si china a guardarmi, lo sai,/ogni notte un po' più da vicino,/finché io lo saluto: “Sei tu?/ È da tanto che non ci vediamo”//…” o del figlio con la madre, seduti su una panchina, subito dopo il funerale del padre e poi quelli del droghiere, amico caro del padre e scomparso in età matura che ha però in mano ancora una lettera, quasi una cronistoria esistenziale, intento continuamente a scorrerla, scritta però, paradosso, dal padre morto che doveva leggerla al funerale di lui e che mai lesse.
Infine rintoccano anche i tempi del padre giovane, che rigioca col fratellino tra le stele delle tombe, al gioco della lippa. È un sovrapporsi di spazi, dove in un baleno si salta da una sofferenza all’altra, da una spenta speranza all’altra e dove l’angelo poco può fare, se non svolazzare portando col suo volo la verità dei cieli che però sembra essere così lontana, inessenziale per questi morti, che fanno smorfie derisorie ai suoi pensieri, poco importa se celesti o infernali, appartenendo, tutti loro, a un coro più alto, quello della signora morte. E allora così l’angelo si rivolge ai morti: “Oh, basta! La visita, l’esame, poi lo specialista,/il giorno che avete avvertito quei primi malori,/non erano niente, non ancora, bastava un’aspirina”,/…” e costoro rispondono: “Non scalciare, dare di cozzo,/non sarai mai così niente come noi”.
In questo libro spesso il prima si veste del dopo, e il dopo del prima; tutto appare capovolto, poiché la scena può esser vista da tante angolazioni, quante sono le reviviscenze dei morti, oserei dire, le loro diverse ricordanze. Alessandro Carrera, rievocando memorie, evoca i fantasmi delle sue morte stagioni: sono qui, tra le pagine, continuano a parlarci di storie, ma parlandone talvolta deragliano, col loro ardore così umano, da quegli eventi che erano creduti certi, dandoci di essi invece nuove interpretazioni, nuovi minimi dettagli. E allora Il tempo dei morti, cosa vuol dirci? Che forse le storie degli uomini, che crediamo di possedere e indirizzare pienamente, sono invece così imprendibili, sfuggenti nel tempo della vita quanto in quello della morte, poiché dentro di esse si muovono e mossero non una ma tante possibili verità-realtà per lo più inintelligibili; eccole per esempio muoversi dentro le parole del padre morto all’amico di sempre, il droghiere: “…/scura la tua radio, accesa sul bancone del droghiere,/che dicevi alle sorelle di star zitte o andar via,/ ascoltavi l’orchestra suonare l’Eroica da sola,/ma lenta, ma piano,…//Droghiere! Doveva finire, dovevo sposarmi, far figli,/invecchiare, basta passare le serate a parlare!/…”.