I versi di Alessandra Carnaroli / 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti

21 Febbraio 2022

In 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti (Einaudi, 2021), Alessandra Carnaroli, già prefata in precedenti raccolte tra gli altri da Andrea Cortellessa ed Helena Janaczek, costeggia la feroce complessità delle relazioni che caratterizzano le nostre società contemporanee e lo fa partendo proprio dal momento finale e scurissimo delle tante anime sensibili, toccate più di altre dalla variegata violenza sempre più presente ed opprimente dei nostri giorni: da essa vogliono liberarsi dandosi e talvolta provocando morte: “scoperta nella mia camera d’albergo/ la famiglia con cordoglio/ ammette la morte in circostanze depresse/ come procurarsi barbiturici senza ricetta/ ultimo accesso”. Ma l’autoannientamento, tentato nel libro in varie ed originalissime forme, se certo può derivare alcune volte da un patologico abisso relazionale, tal altre invece è lì a voler sottendere qualcosa di ulteriore. E difatti i tanti corpi inerti, quasi penzolanti dal verso, ci riportano alla pagina dell’uomo filosofo di ogni tempo che davvero ragiona sulla vita e intuisce che essa è pura illusione, come già colse acutamente Leopardi nei Pensieri ma è anche, all’opposto, espressione della più pervicace e inesausta volontà di potenza di memoria nicciana, che ci spinge a piacerci, amare, aver cura di noi, proprio per radicarci nel qui.

 

Ecco allora talvolta innescarsi il processo suicidario, di chi acutamente sa vedere oltre questa illusione: l’essere è dentro il nulla e solo provvisoriamente, per pochi attimi, da esso vi sporge. E difatti i tentati suicidi, talvolta riusciti, rinvenibili nel libro, di là dalle modalità di attuazione, parlano della psiche dell’uomo, che vede chiaramente oggi, come nel tempo antico, la propria misera condizione e semplicemente non sa resisterle un attimo di più: “mentre leggo un libro in vasca/ l’acqua bagna fino all’orecchio/ rumori del piano di sotto un piatto/ la forchetta a destra il phon acceso/ si tuffa”.

 

 

E però ecco nella seconda parte della raccolta, una pletora di oggetti contundenti, nominati all’inizio di ogni poesia, far bella mostra di sé e aprirci, messaggeri infausti, un ennesimo teatro di battaglia: quello delle tante straniate psicologie di uomini e donne che non sanno più davvero rammendare l’orlo delle relazioni fallite. Cittadini un attimo prima, esiliati da se stessi e dalla comunità, subito dopo aver realizzato il gesto tragico. E in questi micro racconti omicidiari, è sempre nascosta come in un doppio fondo, l’essenza fatale e nera degli oggetti: in superficie portatori di semplici memorie famigliari, routine casalinghe, poi eccoli divenire strumenti d’uso letale: “un cavatappi/ di quelli che tolgono i denti/ uno a uno/ mentre schiumi/ come Schumi negli anni d’oro/ a fine gran premio”.

 

La poetessa marchigiana quindi, molto acutamente, scrive di tentati annientamenti propri e altrui, ma in verità dietro mette in scena con una certa dose di ironia, il niente della nostra società consumistica costellata e costruita da oggetti; eccoli spaginarsi a decine nel libro, costruttori e per paradosso distruttori delle nostre esistenze a tal punto, che da essi possiamo dedurre un caleidoscopio di sociologia famigliare applicata ai nostri giorni: i rancori trattenuti per anni e poi detonati, le insopportabili consuetudini di coppia strascinate e poi arrivate a un punto di non ritorno, il fine libertà dell’uomo nella coppia, che pone sull’altare sacrificale il nuovo nato: “…/ è ora di fargli la cameretta/ con l’armadio grande il ponte/ che collega la scrivania ai cassetti/ componibile per quando cresce// ricompongo/ il suo corpo/ per ora ai piedi di/ tv centro marche/ mentre passano una replica/ di qualche sagra del pesce/”.

 

Ecco tornare e ritornare il momento finale, il tempo irredimibile e irreversibile dell’atto crudele che non può più esser fermato. Ma dietro le quinte del macabro, il libro mette in scena il grande sogno infranto della società consumistica, che pensava di costruire benessere, non accorgendosi però che per attuarlo aveva strumenti spuntati: gli oggetti seriali ed effimeri di consumo. E così s’incrina tra i versi l’idea dell’uomo progressivo che si era illuso, nella smisurata creazione degli stessi, di  cancellare dal suo dna tutti i suoi sé, i suoi ma, a lui sempre ontologicamente appartenuti che rimangono invece splendidi e inscalfibili ancora oggi, dietro l’apologia dell’annientamento, che corre nella pagina di Alessandra Carnaroli: “una sega/ di quelle col manico in legno/ la tenevamo nella tavernetta per abbellimento/…/ quando gli amici venivano/ a fare il barbecue/ nessuno dovrebbe tenere una sega a portata di mano/ ho provato a portarti una mano/ come tuo nonno faceva con l’olmo//…”.

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