In trincea

24 Maggio 2015

Sono trascorsi cento anni dal primo conflitto mondiale. Ci saranno celebrazioni, pubblicazioni, conferenze, riflessioni, e altro ancora. Io vorrei provare col mio teatro a toccare un piccolo punto di quell’immensa catastrofe, un solo corpo, quello di un qualsiasi soldato, anonimo, non appartenente a una precisa nazionalità, e toccare quel corpo nel luogo più emblematico di quella guerra, la trincea.

 

Vorrei tentare di essere laggiù, in quel punto di una trincea di molti anni fa, ed esserci prima di tutto fisicamente, come corpo, in una forma di mimesi totale, attraverso una sincronia di gesti immagini parole minacciate da un tempo apocalittico, senza possibilità di redenzione, come fosse il mio corpo in procinto di morire in ogni attimo scenico, in modo da essere così assorto nella dimensione dell’orrore e della sua gratuità da percepire per un istante il “tipo di esistenza” di quel soldato.

 

Per il soldato in trincea il tempo si assolutizza in un puro denso presente, un tempo inceppato, inzeppato nella minuta quotidianità della sopravvivenza, fatto di gesti folli divenuti normali, di azioni compiute per inerzia, senza speranza di cambiamenti. La percezione del tempo, ghiacciato nell’ora presente, impedisce alla parola di farsi discorso, o dialogo, o narrazione, essa gira a vuoto, si intorcina in sé stessa, si avviluppa in spirali, in un flusso vegetativo o semidormiente, si etilizza, ubriaca di terrore o di fame o comunque di mancanze di cui alla fine si perde memoria. La narrazione, così come intesa fino allora, non può più espletarsi in un flusso temporale continuo lineare e accertato da un inizio e una fine, ma viene spezzata, impossibilitata a compiersi, gli improvvisi vuoti dell’anima non sono più ricomponibili né colmabili in parole, il vivere diviene un inarrestabile fluire di frammenti, come frammentato appare il Tempo per chi in ogni istante è sottoposto alla casualità di un morire inutile  e atroce.

 

La vita diviene uno stillicidio quotidiano, un gocciolare inesausto e sfinito di piccoli terrori, di ridotte paure, di circostanziate catastrofi . Gli occhi  spalancati ad accogliere  l’orrore, restano increduli, incapaci di accettare lo sfacelo dei corpi massacrati. Le visioni dunque sono senza parola, indicibili, non commensurabili al resto del mondo che, lontano, continua a vivere un’altra realtà, non più confrontabile, non più dialogante. Anche per questo la parola cessa di essere foriera di rapporti, le lettere, faticosamente scritte, piegati in due nelle fosse, mentono, usando una parola che suona già come reperto fossile, ad uso e consumo di quell’altra realtà del mondo di prima, che non vuole né può sapere che cos’è questo nuovo spavento dell’essere. Per questo, dopo, le parole dei sopravvissuti saranno inefficaci, parole reduci, non ascoltabili, non riconducibili ad una narrazione di esperienza trasmettibile. Le orecchie sono assordate dal rimbombante frastuono o dal glaciale silenzio, si attivano solo su lunghezze d’onda capaci di cogliere la differenza tra un obice e una granata, orecchie che regrediscono a una fase primordiale, e che non riescono più ad ascoltare il suono delle parole, oppure pur ascoltandolo non riescono più a trasformarlo in discorso, un ascolto sempre interrotto di parole sempre interrotte.

 

L’individuo perde così la coscienza della propria individualità, il singolo soldato diviene ingranaggio di una immensa fabbrica produttrice di morte, è un pezzo di ricambio, un pezzo di artiglieria fatto di carne umana. La prima guerra mondiale sperimenta su larga scala una forma di totale assoggettamento dell’uomo, la sua riduzione ad automa, fantoccio, cosa. È da qui, da quel momento storico che si inaugura in occidente la possibilità di un controllo biopolitico del corpo umano, in forma industriale, di massa. Aprendo la strada ai tanti totalitarismi del terrore del nostro Novecento.

 

Il pittore è un macellaio, ma egli sta nella sua macelleria come in una chiesa, con la carne macellata come Crocifisso, che altro siamo se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria mi meraviglio sempre di non esserci io lì appeso al posto dell’animale.

Francis Bacon

 

La macelleria è qui lo sfondo opaco della Storia e il bancone del macellaio è la sua Trincea.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO