Incontro con Romeo Castellucci
La regia di Romeo Castellucci dell’Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck (Vienna, 1762) colpisce e commuove il pubblico del Wiener Festwochen 2014. Il mito di Orfeo, l’amore per la ninfa Euridice perduta per il morso di un serpente e la catabasi nel regno delle ombre per riportarla in vita diventano il terreno per una riflessione sulla condizione esistenziale del coma. Una doppia scrittura corre parallela, legata ad anello, tra il teatro e la camera dell’ospedale in cui è ricoverata Karin Anna Giselbrecht, la ragazza in stato di coma che ascolta in cuffia la musica proveniente dal teatro.
Sul palco de La Monnaie di Bruxelles, a partire dal 17 giugno, andrà in scena la versione francese, Orphée et Eurydice riveduta da Hector Berlioz (Parigi, 1859), di questo stesso progetto pensato in forma di dittico.
Nella sua visione Orfeo ed Euridice di Gluck incontra il tema del coma…
La natura anfibia di questo Orfeo ed Euridice costringe a uno sguardo doppio. Una parte si svolge sul palco della Halle E del MuseumsQuartier di Vienna, l’altra nel percorso – in tempo reale – di una videocamera che compie nelle strade della città fino al reparto Neurologico dell’Ospedale Krankenhaus Hietzing di Vienna, e alla camera di Karin Anna Giselbrecht, una ragazza in coma da tre anni. Sono due ambiti dotati di linguaggi completamente diversi. L’ospedale apre a una considerazione sul corpo umano diversa da quella che di solito si opera su un palcoscenico. Ho chiesto a Karin Anna di essere uditrice: attraverso delle cuffie lei ascolta in diretta la musica e il canto che proviene dal teatro. Non si tratta di presentare una condizione patologica in quanto tale. Certamente, è un corpo attraversato da una profonda cicatrice, ma lo spirito di questo lavoro è stato quello di chiedere a Karin di essere Euridice, di interpretare Euridice.
Tutto nasce dalla potenza del mito e dalla musica di Gluck. Una mitologia che è in grado di interpretare la condizione esistenziale più estrema: quella del coma. Attraverso l’arte, si potrebbe dire, c’è una via di accesso verso questa esistenza abissale: un altro linguaggio, un altro vocabolario, un’altra sensazione, un’etica differente che non è quella della scienza, della politica o della religione. L’arte ha il dovere di pensare alle condizioni umane, anche le più estreme. D’altra parte lo ha sempre fatto nella sua millenaria tradizione.
Il mito come un via d’accesso profonda alla condizione umana…
Bisogna intendere il mito come la radice stessa del pensiero, e non come qualcosa di irrazionale e oscuro. Penso a Hans Blumenberg, che considera il mito come uno strumento di conoscenza, come la sorgente stessa del filosofare, come origine della ragione. Il mito aiuta a penetrare anche le regioni inaccessibili al pensiero, proprio perché vi è qualcosa di indeterminato, di non completamente espresso. Questa lacuna permette allo spettatore di essere convocato, di riempire per analogia ciò che manca.
Si potrebbe dire che, con il mezzo dell’Opera, il mito è in grado di dare visibilità a cose che normalmente non sono visibili?
Si potrebbe dire questo. Ed è successo in questo modo. Quando ho ascoltato per la prima volta la musica di Orfeo ed Euridice di Gluck su un cd, in macchina, mi è apparsa un’immagine: quella di una ragazza in coma stesa nel suo letto. Non è stato il processo inverso… Mi ha parlato la dolcezza della musica e certamente anche la fabula, il contenuto narrativo di un uomo che vuole raggiungere, vuole risvegliare e vuole riportare a sé la propria amata. Questa è una condizione che alcune persone vivono sulla propria pelle. È una cosa che successivamente ho ritrovato nelle corsie degli ospedali, nella cura, nell’amore dei parenti, dei genitori, delle spose e degli sposi nei confronti dei loro cari che sono caduti in questa condizione esistenziale misteriosa. Sono corpi significanti che non comunicano con le parole. Sono corpi interroganti. Ma tutto questo nasce da Gluck e dalla mitologia greca, che è immortale.
Al cuore della storia di Orfeo ed Euridice c’è il tema della perdita e la forza dell’amore. Che ruolo gioca l’amore nella sua interpretazione dell’opera di Gluck?
L’amore è la grande forza di Orfeo perché attraverso l’amore prende coraggio per affrontare l’impossibile. Secondo il pensiero greco è impossibile varcare l’aldilà, ma attraverso l’amore viscerale e la sua capacità di cantare e suonare (potenze evocate in continuazione) Orfeo è in grado di sospendere le leggi ultramondane, quella della vita e della morte: non solo incanta gli animali, secondo la mitologia che gli è propria, ma riesce anche a ammaliare i demoni, a sedurre la Morte. Riesce a oltrepassare la soglia di Ade, ma l’amore, oltre che essere la sua forza, diventa anche l’ostacolo assoluto, perché Orfeo non resiste e cede al divieto: guarda Euridice prima del tempo perché non riesce a trattenere il suo amore per lei. Si può romanticamente dire che l’amore è una forza-debolezza: una forza che, come ha cantato qualcuno, ci farà a pezzi. Orfeo questo lo sa.
Se nella mitologia resta un senso di solitudine (i due amati non si possono raggiungere, si direbbe), in Gluck c’è un lieto finale completamente artificioso, ma che credo sia molto giusto in questa rappresentazione perché in esso si rivela il fatto che un giorno possa esserci un risveglio, che possa esserci una chiamata finale nella forza fondamentale di queste persone, dei parenti. Il lieto fine di Gluck non è semplicemente un’illusione atroce; rappresenta una luce, un’altra forma di vita.
Come sei entrato in contatto con Karin Anna e la sua famiglia?
Con la paura di commettere errori. In un certo senso posso dire di avere combattuto contro questa idea. Mi sembrava di osare troppo e in modo sbagliato. Poi, invece, attraverso il dialogo con i medici e gli specialistici e incontrando la famiglia abbiamo immediatamente capito che c’era un grande desiderio di far conoscere la loro condizione, di condividere la loro esperienza. Non dobbiamo dimenticare che sono persone costrette ai margini della comunità umana. Sono corpi che disturbano le coscienze perché rappresentano qualcosa di incomprensibile, di impossibile da sopportare. I genitori hanno chiesto a Karin Anna se voleva partecipare e se era contenta di questa esperienza. Loro hanno un modo non verbale di comunicare con la figlia che a me rimane totalmente ignoto, un linguaggio fatto di carezze, di contatti, di sussurri, sguardi, sorrisi, pianti. Insieme hanno ascoltato la musica con la figlia. Karin Anna ha vissuto tutta la sua gioventù vicina alla musica classica, suonava il flauto e faceva la ballerina. Ha studiato alla Ballet School della Vienna Opera House: tutto questo già faceva parte del suo mondo. Abbiamo avuto una profonda condivisione in tutti i momenti del processo e questo è stato fondamentale; non sarebbe stato possibile senza una collaborazione di questo tipo.
Si potrebbe dire che l’utopia di questa produzione è frutto del legame che unisce i genitori e Karin Anna?
I genitori ci hanno detto che è stato un momento importante per ripensare la loro vicenda. È stato un modo per ripensare la loro condizione, il loro nuovo modo di essere e vivere, visto come con occhi esterni. Ma anche per i medici e gli infermieri si è trattato di un’esperienza di apertura e di riconsiderazione. Il Dottor Donis, che ha seguito questo progetto e che ha in cura Karin Anna, ci ha detto che lo scopo delle terapie, di questi centri, è proprio quello di cercare di inserire nuovamente nella società i pazienti e le loro famiglie. Con i genitori e il medico abbiamo scritto il testo della storia di Karin che viene proiettato sullo schermo durante lo spettacolo. C’è un doppio livello di lettura, una doppia traccia: da una parte la storia di Orfeo ed Euridice – il libretto – e dall’altra la biografia di Karin Anna, che non è mai stata un “simbolo” per me, ma una persona reale, un individuo come me e te, una cittadina di Vienna. È la sua storia. Dalle parole che si riferiscono alla vita di Karin Anna capiamo che si tratta di una vita normale, come la mia, la tua, la nostra. Poi a un certo punto, in un nanosecondo, per lei tutto cambia. Come quel morso di serpente che sottrae Euridice a Orfeo. La mitologia greca, la musica di Gluck e questa messa in scena sono gli specchi che riflettono la fragilità umana; la mia, la tua, la nostra. Il teatro è la sineddoche della comunità umana: guardare questa esperienza significa metterla al centro di un pensiero raccolto, che riguarda proprio me, spettatore, e mi chiama per nome perché questa condizione esiste e dunque mi appartiene.
Prima parlava di fragilità umana, tema al centro anche del suo lavoro Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, presentato lo scorso anno a Vienna. Eppure una certa cultura cattolica sembra dire che alcuni temi non si possono toccare…
… che solo loro possono toccare. Solo la Chiesa, solo gli specialisti, solo i professionisti della fede possono parlare di certi argomenti, questo è riduttivo. La Chiesa sembra avere perso il carattere spirituale delle immagini. Si direbbe che certa arte, certa letteratura, persino certo cinema si sono presi delle responsabilità che vanno in questa direzione. L’immagine dello spettacolo presentato l’anno scorso era ambigua e ambivalente: potevi pensare a quel volto con un senso di ribellione, ma allo stesso tempo poteva fungere da preghiera. Stava a ciascuno caricarla di senso in base a ciò che sentiva e provava in quel preciso istante. Era, cioè, un’immagine sostanzialmente priva di significato: questo sguardo sembrava appunto significare tutto e non significare nulla.
Ci sono forse immagini più forti di altre? Io direi di no. La nostra società vive nel rumore totale, che equivale a una specie di nulla per niente mistico, una specie di deserto generato dall’entropia assoluta dell’informazione. Lo sappiamo. Non c’è una parola che salva, non c’è una parola che orienta, non c’è un’immagine buona, in sé. Una profonda solitudine caratterizza questa società, e anche questa non è una grande novità. Se è vero che l’informazione è un deserto, è altrettanto vero che può offrire opportunità meravigliose. Si può camminare per giorni interi nel silenzio del deserto. Avere miraggi, immaginare visioni che non esistono ancora. Pensare l’impensato, creare l’increato, in mezzo al rumore bianco.
Nello stato desertico in cui viviamo, il teatro potrebbe essere un luogo dove trovare una forma di spiritualità?
Sì. Il teatro è uno dei pochissimi luoghi religiosi, assieme allo sport, alle riunioni degli alcolisti anonimi, alle messe nelle chiese. I luoghi in cui le persone si ritrovano fisicamente insieme, tra sconosciuti, sono rimasti pochi. È un luogo religioso in senso etimologico. Tutti guardano la stessa cosa nello stesso momento e la “formano”. Ma esiste anche la cosa opposta: io spettatore qualunque posso interrompere l’azione. Mi alzo dalla sedia e comincio a urlare, salto sul palcoscenico e afferro per il collo un attore. È possibile (d’altra parte è successo…). Questo elemento vivo è fondamentale. La fragilità dell’immagine dipende del tutto da me, spettatore. Tutto ciò non esiste nel broadcasting: che tu ci sia o no, non importa. Le immagini lì vanno avanti anche senza di te, perché sono prive di profondità. Qui invece c’è lo spessore della tridimensionalità: il pericolo dell’immagine e il pericolo dello spettatore e il pericolo definitivo di metterli uno davanti all’altra. E la sensazione è la dimensione essenziale.
Intervista già pubblicata in tedesco su ORF.at (grazie a Ilenia Carrone e a Piersandra Di Matteo)
Wiener Festwochen 2014
Orfeo ed Euridice
Christoph Willibald Gluck / Jérémie Rhorer / Romeo Castellucci
Direttore Jérémie Rhorer.
Regia, luci e costumi Romeo Castellucci.
Collaborazione artistica Silvia Costa.
Dramaturg Piersandra Di Matteo, Christian Longchamp.
Camera Vincent Pinckaers.
Assistente musicale Natalie Murray.
Assistente alla scenografia Maroussia Vaes.
Assistente alle luci Georg Veit.
Video 3D Apparati Effimeri.
Orfeo Bejun Mehta. Euridice Christiane Karg, Karin Anna Giselbrecht.
Amor Laurenz Sartena (Vienna Boys’ Choir).
Orchestra B’Rock - Baroque Orchestra Ghent
Choir Arnold Schoenberg Choir. Produzione Wiener Festwochen 2014, La Monnaie | De Munt, Brussels.
L’assessorato alla cultura del Comune di Bologna ha dedicato una rassegna a Romeo Castellucci e alla Socìetas Raffaello Sanzio, E la volpe disse al corvo, a cura di Piersandra Di Matteo, con numerosi appuntamenti da gennaio a maggio 2014. Doppiozero ospita alcune lettere di critici, artisti, operatori culturali che raccontano da molteplici punti vista chi sia questo regista-artefice esploratore del contemporaneo (nel catalogo ebook di Doppiozero segnaliamo il prezioso saggio di Oliviero Ponte di Pino Romeo Castellucci & Socìetas Raffaello Sanzio). E trae dagli archivi testimonianze di sguardi storici sul suo labirintico lavoro.
Gli ultimi appuntamenti di E la volpe disse al corvo sono: Unheard, musica di Scott Gibbons vista da Romeo Castellucci, Festival AngelicA (teatro San Leonardo, 24 maggio, ore 21.30 e 23.30); Il ritmo è tutto, Romeo Castellucci incontra Federico Ferrari (Dom, la cupola del Pilastro, 27 maggio ore 18.30); Attore, il tuo nome non è esatto, performance in un laboratorio condotto da Romeo Castellucci nel 2010 e 2011 presso la Biennale Teatro di Venezia (palazzo Gnudi, via Riva Reno 77, ore 16.15, 17.15, 18.15, 19.15).