Speciale

Novità sui fiori / Inventario

19 Aprile 2020

“Come stai?” ha perso la sua frettolosità formale, è diventato un interrogativo sostanziale da cui dipende l’esistenza nostra e delle nostre tante famiglie allargate. In questi giorni non ci incontriamo, il verbale risucchia il non verbale, la comunicazione ridiventa orale, sono le parole che toccano e nutrono, che devono raccontare emozioni che non possono diventare gesto. Dai dispositivi passa un flusso che unisce la solitudine delle moltitudini, concede il perditempo della chiacchiera: ho parlato con mia madre fino alle due di notte, ho sentito amici che non vedevo da anni, ho finalmente chiarito... 

L’estetica del mostrarsi, quella che coccolavamo e perfezionavamo, è svaporata, il corpo si è fatto insormontabile con i suoi significati arcaici di paura e morte. “In alcune condizioni di malattia somatica (organica) il corpo-soggetto (Leib) si trasforma in corpo-oggetto (Körper)” scrive Eugenio Borgna in Le metamorfosi del corpo, postfazione all’ormai classico, Il corpo, di Umberto Galimberti (Feltrinelli, 1983). Anche se l’impegno strenuo di chi lotta in ospedale è capace di trasformare il paziente numero in una persona da salvare. 

 

Sottocoperta, ci mettiamo alla prova. Testiamo su di noi la tecnica del prigioniero. Nel tempo bloccato smetto di fumare, di bere, mi metto a dieta, faccio yoga, ripasso l’inglese, mi iscrivo a un corso di musica. Si fanno i conti con se stessi. Alla lettera, perché è la vita di ognuno il testo che abbiamo continuamente davanti, è il qui e ora la postazione dalla quale ci troviamo, stupiti e sbigottiti, a riflettere sulla biografia che ha costruito le nostre molteplici identità. Alcune azzerate, altre rafforzate, altre ancora in statu nascendi, chissà. Quelle più recenti, che non hanno avuto ancora il tempo di consolidarsi, e quelle storiche dove, a seconda dell’atmosferico del giorno, una assolutizza le altre: essere genitore, essere moglie e marito, essere tutt’uno con il lavoro in remoto che il vocabolario ci dice essere il participio passato di removere, rimuovere. Almeno la testa la porta via. 

 

Come fosse un effetto metaforico di uno dei sintomi del coronavirus che altera gusto e olfatto, cambia la classifica delle nostre preferenze: chi si cibava di detective story legge fantascienza, chi guardava solo commedie americane segue Pandemia su Netflix (e viceversa), chi, come mi dicono le mie amiche balcaniche sparse per il mondo, torna alle origini e vede e rivede Variola Vera (1982), pellicola che racconta, con tinte horror, un’epidemia di vaiolo realmente accaduta ambientata nel policlinico di Belgrado. E se i giovani e i giovanissimi hanno scoperto il fascino discreto del libro, lettori tradizionalmente fortissimi ammettono di non avere la testa e l’umore adatto – personalmente fatico con i saggi, mi distendo con Gli anni di Virginia Woolf, capace di condensare in poche righe un passaggio epocale in tempo vissuto.

 

 

Ancora increduli dinnanzi all’evento globale, cerchiamo di decifrare che cosa ci è capitato, come chiamarlo, mentre, forse per la prima volta, ci sentiamo più vicini alle tragedie collettive che hanno segnato le vite dei nostri genitori. Sappiamo che l’evoluzione dell’idea di trauma ha accumulato significati, ha intersecato le vicende della Grande Storia, ha viaggiato tra l’Europa e gli Stati Uniti. Dall’inglese rub in a rub off, da ferita che segna e impregna – il piercing che marca il corpo – a lacerazione generativa di nuovi significati per l’esistenza: da una reazione negativa (PTSD), o neutrale (Resilience), a una positiva (AAD, Adversity Activated Development). La ricerca di un modello clinico si è storicamente appoggiata sul lavoro del lutto, ha considerato cruciale l’esperienza dell’abuso, in tempi recenti ha riflettuto sulle affinità e differenze tra violenza domestica e violenza bellica. Non sappiamo però se quanto stiamo attraversando riceverà un nuovo nome, come accade con sintomi inediti di dolore e disagio – la definizione di  PTSD, disturbo da stress post-traumatico, nasce con il ritorno dei soldati americani dalla guerra del Vietnam. 

 

Perché, trincerati nelle nostre case sempre più linde, ci dobbiamo curare con l’isolamento sociale. È un ribaltamento radicale, esperenziale, teorico ed etico. Ora la salvezza nostra e altrui dipende dal riuscire a non prendersi cura – non andare a trovare chi è solo, malato, intubato. Non seppellire. Per salvare e salvarsi i vivi si sono dovuti allontanare dai malati e dai morti. La ferita è provocata da quello che finora era considerato il mezzo della cura: quando la minaccia rischia di sopraffarci con un troppo, quello che ci rimette in connessione è la relazione, l’incontro con l’Altro umano. Ora ci ritroviamo nello stato di nevrosi descritto da Freud nel sesto capitolo di Inibizione, sintomo e angoscia (1925): “L’altra delle tecniche da illustrare ex novo è quella dell’isolare, ed è una tecnica che appartiene peculiarmente alla nevrosi ossessiva. (…) l’Io obbedisce a uno dei più antichi e fondamentali comandi della nevrosi ossessiva: il tabù del contatto. Se ci si domanda perché l’evitare contatti, toccamenti, contagi abbia una parte così importante in questa nevrosi e venga a costituire il contenuto di sistemi tanto complicati, la risposta è che il toccare, il contatto corporeo rappresenta la meta immediata sia dell’investimento oggettuale aggressivo, sia di quello amoroso. L’Eros vuole il contatto, poiché tende all’unione, all’abolizione delle barriere spaziali tra l’Io e l’oggetto amato”. 

 

È solo lo spunto di una possibile riflessione, in quanto il controllo continuo, che nel mondo dell’ossessivo è un rituale scaramantico, adesso è necessario alla sopravvivenza. Qui è la passività che genera ansia e senso di impotenza. Sappiamo invece come chiamare l’estremo opposto, quello che in questo momento sta vivendo il personale sanitario, la compassion fatigue, il rischio di uno stato di burn out di chi ha dato fondo a ogni ulteriore possibilità empatica.

Il dentro e il fuori, la soglia che separa la paura dell’esterno e la sicurezza dell’interno, nel mondo onirico si possono toccare. Di notte, con lo scudo del sogno, andiamo al mare e in montagna, partecipiamo a feste chiassose, prendiamo navi e saliamo sugli aerei. Ma incappiamo anche, in luoghi familiari come i villaggi delle nostre vacanze, in buio e posti di blocco, figure doppie e sinistre. Negli incubi abbiamo perso l’orientamento e i nostri progetti non vanno mai a buon fine. Jung è convinto, come scrive in Considerazioni generali sulla psicologia del sogno (1916/1928/1948), che tutti i sogni hanno una funzione compensatoria rispetto ai contenuti coscienti. “Perciò, scrive, la teoria della compensazione mi sembra offrire la formula generalmente esatta e conforme ai fatti, perché attribuisce al sogno il significato d’una funzione compensatrice ai fini dell’autogoverno dell’organismo psichico”. Il significato di lavacri e voli in deltaplano si connette ogni volta a una storia individuale, ma le visioni oniriche dal coronavirus sono impregnate. E in diversi paesi, gruppi di terapeuti stanno facendo l’esperienza del social dreaming, condivisione corale dei propri sogni.

 

Intanto i bambini sono cresciuti e noi siamo tutti invecchiati. Non solo perché barbe e capelli sono imbiancati, è la particolarità di questo sistema cronologico senza stacchi a richiamare il passato. Ritrovamenti in cassetti e armadi evocano: spingono a ricordare. A cercare il tempo perduto. L’ultima cena con gli amici appare più lontana del primo bacio. Le case custodiscono il nostro archivio personale: lettere e foto, oggetti e diari, disegni e cartoline. Scoperte, risorse, creatività, progetti… Possiamo incollare parole e immagini, costruire un album con tutte le lettere del nostro alfabeto interiore, esclusivo ed individuale. È tempo di inventario.

Per fugare il timore che quando rinasceremo al mondo ci sarà il nulla, per non dover rimpiangere l’oggi, per credere che sarà di nuovo possibile rappresentarsi il reale futuro. Per prepararci a “quella grande revisione dell’inventario percettivo che modificherà ancora e in modo imprevedibile la nostra immagine del mondo” come scriveva, nel 1928, Walter Benjamin in una recensione. Era il suo primo testo interamente dedicato alla fotografia. Il titolo? Novità sui fiori

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