Io viaggio con Maria
Ho scoperto che con Maria ci davamo del tu all'Alpe di Siusi. Prima l'avevo incontrata sempre assieme ad altre persone, non c'eravamo parlati direttamente, e lei era con Paolo Fossati, con cui mi davo del lei. Mi sarebbe parso strano dare del tu alla moglie e non al marito (non erano sposati ma facciamo come se) e quindi mi ero mantenuto sempre in una zona d'indeterminazione.
Quel giorno, era un luglio nella seconda metà degli anni Novanta, la vacanza era finita. Avevo caricato famiglia e bagagli dal fondo dell'Alpe e percorrevo la strada che attraversa il parco naturale - aperta al traffico privato solo in pochi momenti della giornata -, andando in senso contrario alle frotte dei turisti giornalieri, appena scesi dal pullman o dall'auto. Fra questi c'erano Maria e Paolo, in tenuta montanara, diretti alle semplici delizie gastronomiche della Malga Sanon. Mi sono fermato a salutarli, velocemente, per non incorrere nelle costose ire delle severe guardie del Parco. Maria mi deve avere rimproverato perché i miei cruciverba per il Diario della Settimana erano troppo piccoli e facili: usava il tu e naturalmente l'ho ricambiato. Rientrato in macchina, da dietro le due figlie petulanti mi hanno chiesto: «Chi erano quel signore e quella signora?».
Neanche dieci anni dopo la chiamavano già «zia Maria» e oggi nelle loro camere tengono la rispettiva copia autografata del primo libro della zia, Io viaggio da sola (Einaudi, 2012). È piaciuto molto a entrambe e confido che abbiano capito per bene il messaggio fondamentale: che donne si diventa, e a viaggiare da sole lo si diventa anche più compiutamente. Di fatto hanno viaggiato da sole già tutte e due.
Maria Perosino l'abbiamo vista tutti così: con un calice (ma giammai una flûte) di prosecco in una mano, una sigaretta accesa nell'altra, mentre ride a una battuta. Era volitiva, tenace; ha affrontato avversità e vere e proprie catastrofi senza mai derogare al proprio humour. Aveva capacità di ascolto e di immedesimazione eccezionali.
Era un party animal, ma anche un meeting animal: sapeva, come pochi, «leggere» le situazioni soprattutto professionali. Ricordo due distinti casi di riunioni a cui ho partecipato anche io e in cui si è parlato anche a lungo di altrettanti progetti. Uscendone, tutt'e due le volte, le ho detto: «Bene, no?». Entrambe le volte lei mi ha fulminato: «Non se ne farà niente». Entrambe le volte ha avuto ragione, e non so da quali segni i suoi dendriti da rabdomante avessero captato i flussi negativi sotterranei. Fosse stata altrettanto sagace nelle relazioni personali, e sul suo fisico e sulla sua salute...
I suoi tempi eroici incominciarono all'Università, a Torino, con gli studi di Storia dell'Arte e la fuoriuscita dalla famiglia. Come scrive nel suo ultimo libro, che è uscito il giorno dopo la sua morte (Le scelte che non hai fatto, Einaudi), «non so perché, ma non ho mai provato una gran simpatia per la giovinezza, appena ho potuto l’ho saltata a piè pari». Racconta di essersi presa, allora, molto sul serio e una bellissima foto la mostra alla macchina da scrivere, concentrata sulla scelta di una parola. Ha lavorato presto, anzi subito: prima in un museo, poi all'ufficio iconografico dell'Einaudi, di cui è stata a lungo responsabile e dove l'ho conosciuta. Erano anni in cui all'Einaudi si lavorava continuamente in équipe e Vittorio Bo produceva una quantità sbalorditiva di progetti, progetti in cui Maria era sempre coinvolta - malgrado l'avversione reciproca e inesorabile fra il suo coniuge Paolo Fossati e lo stesso Bo.
Quando Bo è uscito dall'Einaudi, Maria lo ha seguito nel progetto di Codice, di cui è stata co-fondatrice: agenzia di eventi culturali (a partire dal Festival della Scienza) e in seguito casa editrice vera e propria. Lì la sua propensione al viaggio si è sfogata compiutamente: le sue telefonate ora arrivavano da treni, macchine a noleggio, alberghi, ristoranti. Da Mantova, per una mostra su Nuvolari; da Urbino, per il progetto del festival sui giochi di parole che avremmo co-diretto per tre edizioni; da Pisa per coinvolgere l'amica Lina Bolzoni in qualche altra cosa, da Capri, per festeggiare un compleanno tondo assieme a Carmen Novella, amica di una vita; da Fermo, per una lezione universitaria. Lì ha affinato la sua sapienza nella scelta dei luoghi per mangiare e per dormire. Adesso io non saprò più come fare, ma fino a quando non ha cominciato a stare male era una cosa comunissima consultarla al telefono: «Senti, sono a Chioggia, conosci un buon ristorante?». E lei, subito: «Sì, ma volete spendere tanto o poco?». «Poco». «Allora, guarda, potrei sbagliarmi ma nella seconda via a sinistra della piazza...». Non si sbagliava mai. «I primi sono così così, i secondi eccezionali, puoi prendere il vino della casa perché non è niente male». Le dicevo sempre che avrebbe dovuto produrre delle vetrofanie: «I locali di Maria Perosino».
In quel periodo io ero tornato bruscamente single un paio di volte, e in entrambi i casi mi era capitato subito prima dell'estate. Una telefonata, e via, si partiva assieme io e lei. Abbiamo coì passato assieme un paio di agosti, una decina d'anni fa, in giro per le Langhe e per il Chianti - non le vacanze più astemie della mia vita -, con sporadici soprassalti: «In fondo siamo due intellettuali in vacanza»: e allora andavamo a vederci un po' di Piero della Francesca ad Arezzo, o Burri a Città di Castello. Per il resto, io me ne stavo nella mia camera a scrivere e a passare le ore più calde all'aria condizionata; lei, au bord de la piscine, o nella spa, con un buon libro o con qualche giornalaccio.
Ho sempre pensato che occuparsi di libri, ma innanzitutto dal punto di vista iconografico, abbia conferito a Maria uno sguardo diverso sulla cultura: un taglio, uno sbieco che corrispondeva a una forma peculiare di razionalità. Come gli ebook ci stanno dimostrando (e contrario) un libro è un libro perché non è solo un testo (verbale). Alla razionalità alfabetica si sovrappone quella figurativa, con parole che sono anche figure e figure che parlano. Maria con le immagini giocava come io ho sempre fatto con le parole ed è forse per quello che quella con lei è stata una delle mie amicizie più longeve, mai turbata da incomprensioni o bisticci.
Finita anche l'avventura di Codice, Maria ha preso una di quelle decisioni di cui parla il suo ultimo libro: è venuta a vivere a Milano e così ha potuto consigliarmi moltissimi ristoranti della mia città, uno quasi sotto la casa in cui abitavo, che non avevo mai sperimentato e non so perché. Alla lunga lista dei suoi lavori (staff di museo, editor, editrice, curatrice di mostre, storica dell'arte, docente, organizzatrice di eventi, consulente per l'immagine coordinata) a Milano ha aggiunto la scrittura. Ha sempre composto saggi per cataloghi d'arte, ma poi si è scoperta una vena da scrittrice leggera e acuta. Appassionata di gialli e di chick lit ha applicato le tecniche della scrittura confidenziale e sottile a sé stessa e ci ha raccontato il suo modo di stare al mondo: il viaggio da sola, le scelte che non si sono fatte (i figli, per esempio), la passione analitica per il cibo, l'amicizia con gli uomini e quella con le donne. Il primo libro è stato un buon successo, le ha procurato collaborazioni con Repubblica e altri giornali. In anni in cui il mondo non le ha dato grandi occasioni di felicità, scrivere e pubblicare proprio da Einaudi è stata una gioia enorme, per lei. Si è sentita presa sul serio e si è messa subito a scherzarci sopra, che sono poi le due cose a cui al mondo teneva di più.
Con l'ultimo libro era partita di slancio, ma il corpo ha incominciato presto a tradirla. Sintomi misteriosi la prostravano, c'erano giornate sì e giornate no. Quando era già cominciata la lavorazione editoriale del libro, la situazione ha cominciato a precipitare. È stata costretta a tornare a Torino, a lasciarsi accudire dai genitori e dai fratelli, in particolare dalla sorella Francesca che è stata anche il suo medico curante. Si è ricoverata e ha chiuso il libro con la flebo nel braccio riunendosi in ospedale con Dalia Oggero, amica e editor. È l'ultima cosa che racconta nel libro, con il consueto humour, nella pagina conclusiva dei ringraziamenti. L'ultima riga dice: «Pertanto non mi resta che dire: grazie vita».
Come dire «grazie» a Maria per quello che mi ha insegnato, per la pazienza e l'acutezza del suo ascolto, per i sorrisi nei momenti bui, per l'allegria sfoderata con prontezza, per i viaggi e i lavori che abbiamo fatto assieme, per i consigli, le dritte e i modi alternativi di vedere le cose, io non lo so più.
Non mi è mai piaciuto doverla contraddire e mi dispiace doverlo fare proprio ora, in questa occasione e sull'ultima riga che lei ha scritto. Però, nel più triste dei Bloomsday, di dire «grazie» alla vita non ho proprio voglia.