Jacques Derrida sulla pena di morte

18 Giugno 2014

Qualche tempo fa Norberto Bobbio ha definito il dibattito che ruota attorno alla questione della pena di morte come un “ozioso passatempo dei soliti dotti che non si rendono conto di come va il mondo”. A volte però alcuni fatti pongono davanti alla necessità di riesaminare il problema. È il caso di quanto è accaduto, a distanza di pochi giorni, prima in Iran e poi negli Stati Uniti.

 

In Iran, a inizio aprile, una donna perdona pubblicamente l’assassino del figlio, e gli evita così l’esecuzione della condanna a morte per impiccagione. Negli U.S.A, il 30 aprile, in Oklahoma, Clayton Lockett viene giustiziato e, a causa di un errore nella somministrazione dei farmaci letali, impiega ben quaranta minuti di agonia per morire. Due paesi differenti, per cultura e quindi esecuzione della pena, ma una stessa ed identica morte; e un caso davvero particolare, un’eccezione, un perdono, potremmo quasi dire una doppia eccezione, perché accade lì dove, secondo i nostri stereotipi, nessuno se lo sarebbe aspettato.

 

Questi due avvenimenti denunciano una lacuna: l’insufficienza di una pratica filosofica, che, laddove si riduce a un mero elenco di argomenti, a favore o contro la pena capitale, appare davvero come un “ozioso passatempo”. Manca cioè, ancora oggi e forse da sempre, una riflessione fondata e fondante che possa dirsi davvero genealogica e decostruttiva e che, parafrasando Michel Foucault, prenda le mosse da un unico e radicale interrogativo: “Da dove nasce questo nostro singolare pretesa di punire attraverso la morte?”.

 

Vera e propria coincidenza, un nuovo testo di Jacques Derrida – dedicato appunto alla pena di morte – esce in Italia in contemporanea con i casi iraniano e americano, colmando così almeno in parte questa lacuna. In occasione del decennale della morte del filosofo francese, Jaca Book riprende la pubblicazione dei suoi seminari ancora inediti. La pena di morte (Volume I) raccoglie il primo ciclo del seminario, dell’anno 1999, dedicato al tema e che proseguirà nel 2000, con altre dieci lezioni. Undici lezioni distinte (dodici, se si conta che la prima è suddivisa in due parti) compongono questo primo importante volume, che, come spesso accade con Derrida, e al di là della scansione “in giornate”, ha ben poco a che vedere con la forma della tradizionali lezioni accademiche: si tratta più che altro di una sorta di una rappresentazione teatrale.

 

Dobbiamo quindi immaginarci un palcoscenico – il patibolo appunto – su cui si muovono quattro personaggi, quattro grandi condannati a morte, appartenenti a culture e a epoche diversissime tra loro: Socrate, Gesù, Hallâj e Giovanna d’Arco. Quale elemento lega e associa la storia di questi quattro personaggi, di questi uomini e di questa donna, al di là delle eclatanti differenze? Prima di tutto, osserva Derrida, in tutti questi casi abbiamo a che fare con un’accusa religiosa che viene però presa in carico – così come la decisione e l’esecuzione della pena – dallo Stato, cioè da un potere politico.

 

Da Socrate a Giovanna d’Arco, quello che emerge è il significato a un tempo teologico e politico della pena di morte. Lungi dall’essere “unicamente” politica, la pena di morte rivela il suo carattere teologico nel primo e irripetibile momento in cui viene stabilita: siamo infatti nell’Esodo e Dio, subito dopo aver prescritto il sesto comandamento “tu non ucciderai”, ordina a Mosè di mettere a morte tutti coloro che non rispetteranno i Dieci Comandamenti, con particolare riferimento al sesto.

 

 

Come può Dio dire “tu non ucciderai” e al tempo stesso chiedere che vengano uccisi coloro che non rispettano la prescrizione? Non c’è qui una contraddizione di termini? No, nessuna contraddizione; siamo solo davanti a due modi differenti di “dare la morte”, ed è in questa differenza che si stabilisce l’essenza della pena capitale. Nel primo caso infatti, ciò che Dio vieta è l’assassinio al di là della legge; nel secondo caso, invece, prescrive e ammette la possibilità di un modo legale di dare la morte.

 

La pena di morte è appunto questo assassinio legalizzato, stabilito in origine da Dio per punire l’imperdonabile, la trasgressione di una prescrizione, e quindi per ristabilire un ordine che altrimenti resterebbe infranto. Non si può uccidere, ma c’è un caso eccezionale che lo consente: un terzo, la legge, lo Stato, detiene cioè il diritto di vita e di morte, unicamente divino. Ecco dunque che la pena di morte nasce come alleanza tra teologico e politico, Religione e Stato – sempre ammesso che lo stato non abbia di per sé una natura religiosa e sacra.

 

Bisogna prestare attenzione: non è questa alleanza a produrre la pena di morte, ma il contrario. Vale a dire che il teologico-politico non esisterebbe senza quel trait d’union, quell’anello saldo che è la pena capitale. Inoltre, la condanna a morte non suggella solo l’alleanza tra due termini, bensì stabilisce una relazione a tre: quella tra il discorso religioso, quello politico e quello filosofico-ontologico.

 

Questa particolare forma del diritto penale è infatti un altro nome del “proprio” dell’uomo che detiene, a differenza di tutti gli altri esseri viventi, la capacità di eccedere il limite naturale, di sacrificarsi in nome di una dignità che non teme la morte perché vale più della vita stessa. È un discorso chiaramente filosofico, che ha le sue radici nella platonica visione della filosofia e della vita come “esercizio di morte”, e prosegue attraverso la concezione kantiana della dignità umana, dell’uomo come unico essere vivente che, in quanto persona, deve essere considerato come un fine e mai come un mezzo, ragione per cui diviene necessario inscrivere la pena di morte nel suo diritto; ritroviamo poi questo discorso nell’hegeliana lotta per il riconoscimento, che presuppone il rischio della propria vita nello scontro, e nella filosofia heideggeriana, che fa della morte il discrimine più forte tra Dasein e animale: solo l’uomo può morire, l’animale cessa semplicemente di vivere.

 

Osservando queste posizioni si capisce perché, commenta astutamente Derrida, non sono mai esistiti, nella storia della filosofia, discorsi abolizionisti: il discorso filosofico tradizionale infatti o riconosce la legittimità della pena di morte – come nel caso di Platone, di Kant e di Hegel – oppure si limita a tacere la questione – come fanno Heidegger e Sartre – , laddove tacere è un altro modo di non opporsi e quindi legittimare lo stato giuridico delle cose. I discorsi abolizionisti vengono condotti per lo più da giuristi – come nel caso di Cesare Beccaria – e quasi mai da filosofi. Ma cosa significa tutto ciò? Ha ancora senso ragionare in termini di “a favore o contro” la pena di morte?

 

Punto nodale del seminario derridiano è infatti dimostrare che le tesi abolizioniste si servono di argomenti identici a quelle degli antiabolizionisti, pur volendo sostenere posizioni opposte. Derrida analizza in modo rigoroso i due grandi filoni tematici che hanno attraversato tanto la storia dell’abolizionismo quanto quella dell’antiabolizionismo.

Da una parte si ha infatti l’argomento della crudeltà, che con la sua logica “anestesiale” e subdola non condanna il principio della pena di morte in sé, ma semplicemente la sua scorza esteriore, vale a dire la modalità attraverso cui si dà l’esecuzione.

 

 

Legale dare la morte, basta che non lo si faccia in modo eccessivamente crudele: è questa la logica emblematica degli USA, che negli anni '70 hanno sospeso temporaneamente le esecuzioni capitali perché considerate troppo crudeli; furono poi riattivate un decennio dopo – quando invece tutti gli altri paesi stavano iniziando a percorrere la via dell’abolizione – perché nuovi metodi, meno crudeli, erano stati escogitati, quegli stessi metodi che hanno condotto di recente alla morte atroce di Clayton Lockett.

 

Dall’altra si ha l’argomento dell’eccezione, che si connette alla logica del perdono, della grazia, e quindi dello Stato – come voleva anche Schmitt. “Eccezione” significa ammettere la legittimità della pena di morte perché ad essa si accompagna sempre la possibilità che lo Stato faccia un’eccezione, che conceda cioè il diritto di grazia; si crea così un gioco di rimandi: le istituzioni giuridiche condannano l’imputato, non assumendosi però la responsabilità ultima della condanna, che è rimessa nelle mani del capo dello Stato, il quale a sua volta può privarsi di qualsiasi responsabilità affermando che la decisione originaria è stata presa dagli organi giuridici competenti.

 

Etimologicamente “eccezione” significa ciò che trascende la regola e la legge ed è quindi ad un tempo l’imperdonabile che viene punito con la morte, e lo Stato, quel terzo che, come abbiamo visto fin dall’inizio, detiene il diritto di vita e di morte.

 

Bisogna quindi superare le logiche della crudeltà e dell’eccezione; bisogna imparare a parlare della pena di morte “in modo non patetico” e non “statale”. Bisogna cioè rispondere a gran voce alla denuncia derridiana circa la mancanza di un discorso filosoficamente fondato sulla pena di morte, e per fare ciò, suggerisce il filosofo francese, è necessario partire non dalla decostruzione della “morte”, ma dalla decostruzione radicale del concetto filosofico, religioso e politico di “uomo”.

 

Percorrere la strada di un ripensamento degli umanesimi che fino ad oggi abbiamo visto in gioco, mettere in discussione il rapporto tra teologico e politico, non per distruggerlo – perché sarebbe ingenuo pensare di poterlo fare – ma per proporlo in modo nuovo; seguire cioè la via indicata dai quattro grandi personaggi – Socrate, Gesù, Hallâj e Giovanna d’Arco – che Derrida fa muovere sul palcoscenico della sua cattedra, e che, proprio per questo, sono stati messi a morte, perché proponevano un modo altro di vivere la relazione tra teologico e politico; riformulare quindi, a partire da quest’altro umanesimo un nuovo diritto: questi sono solo alcuni degli spunti che Derrida ci offre per rispondere all’interrogativo sulla pena di morte, ammesso che una risposta sia possibile.

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