Catastrofi, paura, menzogne / John Berger: Accostarsi

18 Maggio 2022

Buio

 

Che cosa avresti detto, John, di fronte alle catastrofi annunciate e avvenute da quando te ne sei andato, il 2 gennaio del 2017? Da allora ho cercato di rispondere da me alle tante domande che avrei voluto rivolgere a te e alle quali tu avresti ribattuto con la tua capacità di non smettere mai di amare questo mondo mutilato. Non mi avresti rassicurata. Mi avresti fatta sentire meno sola. 

Qualche giorno fa, parlando con un’amica, mi sono ritrovata ad affermare d’impulso, con una sicurezza misteriosa, che le risposte le avevi già date tutte, che bastava riprendere in mano i tuoi scritti, a partire dai più antichi, quelli redatti nei primi anni cinquanta del secolo scorso, quando il mondo era attanagliato dall’incubo nucleare. La tua, ho insistito, non era una dote profetica. Non sei mai stato un vaticinatore. È che sapevi guardare e cogliere i segni che annunciano con precisione l’a venire. Ecco perché quella tua sapienza anticipatrice non se ne è andata con te. Non solo perché ci restano le tue opere, ma perché continui a ricordarci che, se si guarda bene e si fanno le giuste connessioni, il presente smette di essere un puzzle impazzito, una disorientante mappa degli orrori. 

 

Forse quella tua capacità di orientarti al buio, usando tutti i sensi di cui disponiamo, l’avevi sviluppata a forza di guardare le opere d’arte del passato e di interrogarti su di esse, sul clima in cui furono realizzate, sulle cose che gli artisti avevano osservato in un’epoca diversa dalla nostra, a lume di candela, mentre le guerre e le pestilenze imperversavano e l’arte poteva nascere solo al riparo del Potere, come sua espressione e conferma e, al contempo, sua paradossale smentita.

«È in gran parte l’interesse per l’arte che mi ha condotto alle mie convinzioni generali sul piano politico e sociale», scrivevi nel 1953 sul settimanale “New Statesman”, «non sono assolutamente io che trascino la politica nell’arte, è l’arte che mi ha trascinato nella politica». E fu allora, poco più che ventenne, che passasti dalla pittura e dal disegno, tuo primo e mai tradito amore, alla scrittura, perché «eravamo al culmine della guerra fredda e i maniaci di allora parlavano apertamente della possibilità di una guerra nucleare preventiva contro l’Unione Sovietica. La minaccia di un conflitto atomico era incredibilmente reale. In quel contesto mi pareva che continuare a dipingere quadri a olio da appendere in sala da pranzo distasse anni luce dal tentativo urgente di fare qualcosa nei riguardi della situazione terminale e disperata in cui era il mondo. D’accordo che la scrittura non può cambiare molto, ma almeno è più diretta».

 

Prigione

 

Sì, tu guardavi il disastro senza dimenticare mai che la storia non ha capolinea e che, nei momenti più oscuri, è di immenso aiuto sapere che non siamo soli né nello spazio né nel tempo, che tutto in qualche modo si è già consumato e non ci ha resi né migliori né peggiori di chi è venuto prima di noi. 

La storia ha un andamento ciclico, l’esatto contrario di quanto ci è stato insegnato. È in quella circolarità dolorosa, in quel movimento all’apparenza immobile, che ci è dato vivere. Tu, con la tua incredibile tenerezza – frutto, credo, di una lotta furibonda e di lungo periodo con la tua parte più impaziente e ideologica – hai scritto e detto cose preziose sull’essere vivi attivamente, con responsabilità reciproca, lucidi e sovversivi, senza illusioni ma anche senza cinismo. Lo considero uno dei tuoi doni più indelebili. 

 

«Cerco le parole per descrivere il periodo storico che stiamo vivendo. Dire che non ha precedenti non significa molto, perché, da quando si è scoperta la Storia, ogni periodo è stato senza precedenti! 

Non sono alla ricerca di una definizione complessa del periodo che stiamo attraversando. Sto semplicemente cercando un’immagine figurata che funzioni da punto di riferimento. […] Il punto di riferimento che ho trovato è quello della prigione. 

Oggi lo scopo di buona parte dei muri della prigione non è tener dentro i prigionieri e rieducarli, ma tenerli fuori ed escluderli. […] Lo scopo è non attivare la massa della popolazione carceraria, bensì tenerla in uno stato di insicurezza passiva, per ricordarle brutalmente che nella vita non c’è altro che rischio e che la terra è un posto pericoloso. […] Lo si fa mescolando informazioni accuratamente selezionate, informazioni sbagliate, commenti, dicerie, storie inventate di sana pianta. Nella misura in cui riesce, l’operazione propone e alimenta un paradosso allucinante, poiché spinge la popolazione carceraria a credere che per ognuno dei suoi membri la priorità sia organizzare la propria difesa personale e ottenere in qualche modo, nonostante il comune stato di reclusione, la propria speciale esenzione dal destino comune.» 

 

Paura

 

In questi giorni, ancora storditi da due anni di pandemia conclamata e non vinta, letteralizzazione pura della metafora carceraria da te annunciata nel 2008, bombardati da messaggi contraddittori e informazioni arbitrarie, sedotti dalla promessa di frettolose soluzioni sanitarie, siamo di nuovo sotto il maglio della guerra e non ci capiamo granché. Ecco perché ho deciso di cercare nelle tue parole un po’ di senso. Senza non si può vivere e si rischia di trasformarsi in tante Cassandre rabbiose, depresse o instupidite dall’accumulo di cattive notizie. 

Voglio ripartire da quanto scrivesti alla fine di marzo del 2003. Gli Stati Uniti e la “coalizione dei giusti” di cui anche l’Italia faceva parte avevano appena sferrato l’attacco militare contro l’Iraq, paese che in quel momento veniva presentato, insieme al suo leader politico e militare Saddam Hussein, come il “male assoluto”. I pacifisti dei paesi occidentali si erano mossi compattamente per impedire che George W. Bush e i governi suoi alleati mettessero a segno il piano di «riportare l’Iraq all’età della pietra». Il 15 marzo di quell’anno Roma era stata invasa da una delle manifestazioni contro la guerra più imponenti e determinate della nostra storia recente. E così Londra, Parigi, Berlino e altre capitali mondiali. Non fummo ascoltati e per molti di noi fu la fine di un’epoca, la fine dell’illusione di contare, di avere una voce collettiva che i nostri rappresentanti in parlamento erano tenuti ad ascoltare e rispettare.

Tu mi mandasti un testo fulminante, “Pensiamo alla paura”. Ascoltiamo.

 

«Baghdad è caduta. La città è stata espugnata dalle truppe che le stavano portando la libertà. I suoi ospedali sono sovraffollati di civili ustionati e mutilati, molti dei quali bambini, tutti vittime dei proiettili, delle bombe e dei missili computerizzati lanciati dai liberatori della città. Le statue di Saddam Hussein sono state abbattute. Intanto al Pentagono, durante una conferenza stampa, il segretario alla difesa Rumsfeld suggerisce che il prossimo paese da liberare potrebbe essere la Siria.

[…] L’obiettivo primario della guerra, avviata nonostante il parere contrario delle Nazioni Unite, era dimostrare che cosa può verosimilmente accadere a qualunque leader, nazione, comunità o popolo, che continui a rifiutare di adeguarsi agli interessi degli Stati Uniti. […] Quando una tirannide viene rovesciata, non dal popolo oppresso, ma da un’altra tirannide, il risultato rischia di essere il caos. Alla popolazione parrà infatti che sia andata totalmente distrutta l’ultima speranza di un qualunque ordine sociale. Prende quindi il sopravvento l’impulso a garantirsi la sopravvivenza personale e iniziano i saccheggi. Niente di più semplice e di più terribile. Tuttavia i nuovi tiranni non sanno nulla di come si comporti un popolo ridotto allo stremo. La paura impedisce loro di saperlo; sono soli su questo pianeta; anche i morti li hanno abbandonati.»

 

In questa conclusione ritrovo la tua arte da trickster, la tua capacità di capovolgere i termini. Solo tu potevi attribuire in modo convincente ai ‘potenti’ il sentimento della paura, ricordarci che chi mente è solo e che la sua forza ha la consistenza della carta. 

 

Menzogne

 

Le menzogne, e ancor più le mezze verità, quelle dette da chi non vuole esporsi troppo, insidiose, opache, allusive, in una parola codarde, le hai indagate a fondo. Conoscevi bene il potere che esercitano, la forza con cui possono spingere al delirio un’opinione pubblica incerta, poco informata, indifferente, forse scontenta della ‘pace’ in cui vive, di una sazia quotidianità senza storia. Ci sono, nel tuo romanzo più celebre, G., pagine straordinarie sul clima che prepara lo scoppio della prima guerra mondiale, sulla facilità con cui la folla va, estatica e rapita, al massacro. Sono gli individui, i piccoli gruppi, le minuscole schegge di senso che albergano in chi non accetta la logica perversa del noi/loro a esigere la verità. E la verità è fatta, anzitutto, di adesione al reale. Esagerare, caricare emotivamente i fatti piegandoli a interpretazioni di comodo acceca, stordisce, depista. Lo sa bene chi ha potere e può governare l’informazione trasformandola in propaganda, in dispositivo di persuasione. 

 

«Sembrava che fosse la volontà del popolo italiano a spingere il paese verso la guerra. Ma la verità era alquanto diversa. Il 26 aprile il re e il presidente del Consiglio avevano sottoscritto un accordo segreto che impegnava l’Italia a entrare in guerra entro un mese a fianco dell’Intesa. In quel periodo il Parlamento aveva opportunamente sospeso i lavori, ma andava riconvocato per la dichiarazione formale di guerra, e si sapeva che una larga maggioranza sarebbe stata contraria all’intervento, come avversi alla guerra erano la maggior parte dei contadini, l’ala sinistra del partito socialista, vari sindacati e il Vaticano. Bisognava che nel giro di un mese la nazione, e in particolare le città, fossero infiammate a un punto tale che l’opposizione, parlamentare o d’altra natura, si sarebbe disintegrata. Era questo il compito che il re e i suoi due primi ministri – i soli tre uomini a parte del segreto – avevano affidato ai politici interventisti e agli agitatori come d’Annunzio.»

 

Guerra

 

Nel 1954, a ventotto anni, scrivendo di Goya e dei suoi “Disastri della guerra”, una sequenza di ottantadue incisioni pubblicate postume nel 1863, dicevi parole che adesso mi servono a mettere in prospettiva il presente e a tenere a bada i suoi incubi: 

 

«Per noi, dopo Buchenwald e Hiroshima, ciò che rende così disperatamente rilevante la protesta di Goya è che l’artista sapeva che, quando la corruzione si spinge abbastanza oltre, quando le possibilità umane sono negate con sufficiente crudeltà, tanto il predatore quanto la vittima diventano bestiali. […] Il suo tema era: di cosa è capace l’uomo nei confronti dell’uomo. […] Nessun artista ha mai raggiunto un grado di onestà maggiore: onestà nel senso pieno del termine, come capacità di affrontare i fatti conservando intatti i propri ideali. Goya sapeva incidere con arte paziente i volti e i corpi straziati dei morti e dei torturati, ma sotto la stampa scarabocchiava con impazienza, disperazione e furia: ‘Perché?’»

 

E ti immagino ragazzino, intento a leggere un libro vietato, l’Ulisse di Joyce, mentre sulla costa meridionale della Gran Bretagna e su Londra era in corso la Battaglia d’Inghilterra. Non avevi paura dei bombardamenti, bombe reali, le stesse di cui Virgina Woolf scruta con apprensione gli effetti stilando alcune delle pagine più definitive sulla e contro la guerra, ogni guerra. 

A distanza di anni tu, che all’epoca eri un quattordicenne appassionato di storia e per niente incantato dalle sirene patriarcali della guerra, scriverai: «Il paese si aspettava l’invasione. Nessun futuro era certo. In mezzo alle gambe stavo diventando un uomo, ma era molto probabile che non sarei vissuto abbastanza a lungo da scoprire cosa fosse la vita. Ovviamente non lo sapevo. E ovviamente non credevo a quel che mi dicevano, durante le lezioni di storia, alla radio o nello scantinato.»

Lei, in tempo reale, scrive: «La notte scorsa e quella precedente i tedeschi erano sopra la nostra casa. Adesso sono tornati. Finché non pensiamo la pace tanto intensamente da materializzarla, ci ritroveremo tutti – non solo questo singolo corpo in questo singolo letto ma milioni di corpi non ancora nati – in un’unica tenebra con il medesimo ronzio mortifero sopra la testa.»

 

Qui, adesso, in quest’Europa microscopica e frammentata che si pensa continente e non sa immaginarsi se non per opposizione a un ‘comune’ nemico – da cui peraltro dipende per il rifornimento di alcune materie prime essenziali – sembriamo precipitati in un’amnesia storica collettiva. Che cosa sarebbe il mondo senza il tentativo generoso di un intero popolo di costruire un modello sociale più equo di quello capitalistico? Il Terzo Reich di Hitler, cui oggi la Federazione russa viene equiparata, non fu forse abbattuto dall’esercito sovietico? E la cultura complessa, variegata, ricchissima di quell’area geografica non è forse parte strutturante della nostra identità? Chi saremmo noi senza Andrej Platonov, Michail Bulgàkov, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, senza Dostoevskij, Gogol, Tolstoj, Majakovskij, Pasternak…, senza Dziga Vertov, Sergej Ėjzenštejn, Vladimir Propp, Dmítrij Šostakovič? 

«Nel 1942», hai scritto nel tuo formidabile ritratto di Antonello da Messina, «i londinesi sentirono per la prima volta alla radio – credo fosse estate – la Settima Sinfonia di Šostakovič, dedicata a Leningrado assediata. Šostakovič aveva cominciato a comporla nel 1941 durante l’assedio della città. Per alcuni di noi fu una profezia. Ascoltandola, ci dicemmo che la resistenza di Leningrado, ora seguita da quella di Stalingrado, alla fine avrebbe portato alla sconfitta della Wehrmacht da parte dell’Armata rossa. E andò proprio cosi. 

Strano come in tempo di guerra la musica sia una delle poche cose che sembrano indistruttibili.» 

La musica, non le parole. La musica, non le immagini.

 

Prospettiva

 

Manipolate, strumentalizzate, ridotte a fanfare di guerra, oggi le immagini ci stanno tradendo. Invece di svelare ciò che le parole nascondono, invece di affermare la verità là dove appelli, proclami, dichiarazioni mentono, si convertono in malleabili strumenti di persuasione. Noi, dalla nostra comoda posizione di spettatori, possiamo emozionarci, indignarci, distogliere lo sguardo, deprimerci, sottoscrivere petizioni inevitabilmente tardive, pensare solo al nostro particolare, pregare, esporre vessilli, mandare aiuti alle vittime di turno. Il problema è che, a poco a poco, quasi impercettibilmente, ci assuefacciamo al peggio e smettiamo di porre ad alta voce le domande che urgono. Perché alcune vittime sono definite tali e altre no? Per quanto tempo resteranno sotto i nostri riflettori? Gli aiuti umanitari non sono ormai diventati, tragicamente, uno dei volti delle guerre contemporanee? C’è chi spara, bombarda, distrugge e chi cura, sfama, accoglie. Le sette opere di misericordia non rischiano di trasformarsi in un enorme business, nel volto umano del sistema/guerra, un sistema cui non osiamo o non sappiamo opporci? 

Nella generosità di chi vuole aiutare senza tuttavia intralciare il paradigma bellico, senza ammettere che alla forza non si può più rispondere con la forza, c’è un difetto strutturale, una colpa omissiva.

 

«Guardare una foto che ci mostra un momento di agonia può distogliere la nostra attenzione da un problema più generale e pressante: le guerre di cui vediamo le immagini sono in genere combattute – direttamente o indirettamente – in “nostro” nome. Se ciò che vediamo ci fa orrore, immediatamente dopo dovremmo reagire alla nostra mancanza di libertà politica. I sistemi politici attuali non ci concedono alcuna possibilità legale di influire concretamente sullo svolgimento delle guerre combattute in nostro nome. Rendercene conto e agire di conseguenza sarebbe l’unico modo efficace di reagire a quel che ci viene mostrato dall’immagine fotografica. Eppure la duplice violenza del momento fotografato ci impedisce questa presa di coscienza. Ecco perché le foto di guerra si pubblicano impunemente.»

 

Orizzonte

 

«Come Bosch previde nella sua visione dell’inferno, non c’è orizzonte. Il mondo sta bruciando. Ogni figura cerca di sopravvivere concentrandosi sul proprio bisogno immediato… La claustrofobia, che qui raggiunge il suo grado estremo, non è provocata dall’affollamento eccessivo, ma dal vuoto di continuità tra un’azione e l’altra, che pure le è così vicina da toccarla. L’inferno è questo.

La cultura in cui viviamo è forse la più claustrofobica che sia mai esistita; nella cultura della globalizzazione, come nell’inferno di Bosch, non si vede neppure di sfuggita un altrove o un altrimenti

Il dipinto di Bosch ci ricorda che il primo passo verso la costruzione di un mondo alternativo deve essere il rifiuto dell’immagine del mondo impiantata nelle nostre menti e di tutte le false promesse usate ovunque per giustificare e idealizzare il bisogno criminale e insaziabile di vendere. Abbiamo un bisogno vitale di uno spazio diverso.»

 

Hieronymus Bosch, Il Giardino delle delizie, ca. 1480-1490 (trittico aperto).


Come si fa, oggi, a denunciare dall’interno immaginando un altrove e un altrimenti? Da soli è impossibile farlo e costruire le collaborazioni di cui tu parli è una delle imprese più ardue di questo momento storico. Abbiamo perso la fiducia negli altri, perché ci sembra che siano (si siano resi?) irraggiungibili. È come se ognuno di noi si sentisse al sicuro rinchiuso nella sua minuscola cella di un mondo/carcere di massima sicurezza. Non ci sono finestre, nemmeno una feritoia, e la luce è quella implacabile e obitoriale del neon. Non illumina, acceca. E i muri si direbbero fatti di gomma. Hai un bel batterci contro, sperando di farti sentire e di sentire un sia pur tenue segno di risposta. Il codice Morse del carcere tradizionale è disattivato. Adesso si tratta di avere i nervi saldi, di non allucinare, di continuare a credere che anche altre e altri si stiano facendo le stesse domande che ti fai tu. 

«Spingiti più in là che puoi col pensiero», scriveva un’amica cara nel 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, fine ufficiale della “guerra fredda”. «È il solo potere che hai. Non possono portartelo via, una volta che cominci a usarlo. Dunque prova».

 

Di che cosa è fatto il pensiero che avvicina se non di esperienza e di empatia, l’esatto opposto di quelle concrezioni fantasmatiche che inducono a vedere quel che non c’è e a non riconoscere l’esistente. I corpi, in questa stagione di digitalizzazione spinta, non sono mai stati così concreti. Per proteggerli, così come per eliminarli, li si penetra. Sfiniti, atterriti, arresi, la loro vera fragilità consiste proprio nel non riconoscersi vulnerabili. È come se non ci ricordassimo più che siamo fatti di carne, sangue, ossa, materia preziosa e deteriorabile, votata non all’immortalità ma alla reciproca dipendenza, all’essere in relazione. 

Provo a chiudere il trittico boschiano e ad analizzare ciò che vedo. So che al suo interno, accanto alla sulfurea ala destra, la più nota e inquietante, il pannello centrale rappresenta il falso paradiso, il paradiso ingannevole della lussuria, mentre l’ala sinistra raffigura la creazione di Adamo ed Eva, l’origine dell’umano, di ogni sofferenza e di ogni godimento.

 

Chiuso, il trittico somiglia a una sfera di vetro caliginosa. In basso una massa acquea, torbida e infertile. In alto la volta del cielo, un ammasso minaccioso di nubi. A separarli il disco piatto della superficie terrestre, alchemico paesaggio vegetale e minerale fossilizzato in uno svariare di grigi. Il globo immaginato da Bosch galleggia su fondo nero, sigillato in una teca. Nemmeno il minuscolo Dio Padre creatore in alto a sinistra sembra in grado di redimerlo dal caos. Faglie, rocce e crepacci incrostano la desolata terra dei viventi, lugubremente illeggiadrita da strane piante dall’aspetto carnivoro.

Ne scrivo perché, per darsi un orizzonte, è necessario mettere in prospettiva non solo lo spazio fisico, ma le temporalità della storia. L’olandese Bosch dipingeva il suo trittico mentre Giovanni II, re del Portogallo, con il sostegno economico di papa Innocenzo VIII preparava la spedizione di Cristoforo Colombo alla ‘scoperta’ dell’America. 

Si può davvero continuare a parlare di ‘innocenza’, la nostra innocenza?

 

Scelta

 

«Chi ha un lavoro legale e non è povero», scrivevi nel 2008, «vive in uno spazio ridottissimo che gli permette un numero sempre minore di scelte – salvo la continua scelta binaria tra obbedienza e disobbedienza». Ecco, è andata proprio così. Di terze vie – quelle che impegnano a studiare, ragionare, dubitare, interrogare e interrogarsi, rischiare – da parecchio tempo sembrano non essercene più. 

Nel 1987 in A Question of Geography, un dramma sul gulag da te scritto insieme a Nella Bielski, uno Zek, un prigioniero politico, parla dei limiti di quanto si può scegliere in un campo di lavoro:

 

«Quando ti trascini indietro dopo una giornata di lavoro nella taiga, quando ti fanno rientrare mezzo morto di fatica e di fame, ti viene data la tua razione di zuppa e di pane. Per la zuppa non hai scelta: va mangiata finché è calda o almeno tiepida. Per i quattrocento grammi di pane una scelta ce l’hai. Per esempio, puoi tagliarlo in tre pezzettini: uno da mangiare adesso con la minestra, uno da succhiare tra i denti prima di addormentarti nella tua cuccetta, e il terzo da serbare fino al mattino dopo alle dieci, quando lavori nella taiga e il vuoto nello stomaco pesa come una pietra. 

Svuoti una carriola piena di sassi. Finché devi spingerla fino alla fossa non hai scelta. Adesso che è vuota una scelta ce l’hai. Puoi riportarla indietro come ce l’hai portata oppure – se sei intelligente, e la sopravvivenza ti rende intelligente – puoi spingerla indietro tenendola quasi diritta. Se scegli questo secondo modo, fai riposare le spalle. Se sei uno Zek e diventi caposquadra, puoi scegliere di atteggiarti a guardiano o di non dimenticare mai che sei uno Zek.» 

 

Il tema della scelta torna e ritorna nei tuoi scritti. Il tuo non è un invito all’eroismo, al sacrificio in nome di chissà quale salvifica causa. Il martirio è una forma altissima di libero arbitrio e di resistenza, ma la scelta di cui tu parli ha a che vedere con un’attitudine più modesta. La scelta può essere un calcolo astuto, una scaltrezza che permette di sopravvivere. Non è codardia scegliere di fuggire di fronte al pericolo, riconoscersi inermi, arrendersi, disertare. Codardia è obbedire quando non si è convinti dell’ordine che ci è stato dato o quando, in nome di un presunto bene comune, non lo si discute. Scegliere è assumersi la responsabilità di se stessi e degli altri, darsi il tempo di organizzare pensiero e forze, non delegare. 

Di John Sassall, il medico di campagna che verso la metà degli anni sessanta del secolo scorso tu e Jean Mohr seguiste per qualche mese nell’esercizio della sua professione, scrivevi:

 

«In una crisi che rivela e mette alla prova ogni uomo deve scegliere per sé. […] Dalla fine della guerra, nel corso degli ultimi vent’anni, abbiamo attraversato un periodo che va considerato l’esatta e prolungata antitesi di un momento di verità. Non abbiamo compiuto assolutamente nessuna scelta. […] Molti diranno che questa è la nostra fortuna. Ne dubito. La nostra esenzione dal compiere scelte ha comportato finora il differimento dei problemi che influenzano in modo vitale il nostro futuro. Probabilmente continueremo a differirli finché non sarà troppo tardi. Poi subiremo la nostra crisi».

 

La nostra crisi è arrivata, e noi siamo impreparati a compiere una qualsivoglia scelta. La realtà, in questi decenni sazi e storditi, si è andata progressivamente trasformando in una fiction a distanza. Le vecchie forme di lotta e di solidarietà si sono sfibrate. Privi di una visione che vada al di là della prossima settimana, di un progetto non solo individuale, non sappiamo più quale sia «il valore sociale di un dolore lenito», quale «il valore di una vita salvata». 

 

(Milano, 3 maggio 2022)

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