Julie Nehretu e 15 persone a scarabocchiare
Negli ultimi decenni, il disegno è tornato ad avere un ruolo di primo piano nell'arte contemporanea, grazie anche all'opera di artisti innovativi che hanno rivoluzionato, non tanto i contenuti e le figurazioni, quanto i processi realizzativi, in modo da permettere alle opere disegnate di essere esposte fianco a fianco con pittura, scultura, video.
Tra questi innovatori spicca Julie Mehretu, artista americana di origini etiopi, con quotazioni tra le più alte per i pittori contemporanei; ha utilizzato il disegno soprattutto per i suoi primi lavori, adesso esposti, insieme a molte altre opere, negli spazi inondati di luce di Palazzo Grassi per la mostra dal titolo "Julie Mehretu. Ensemble", aperta fino al 06 gennaio 2025.
Si tratta della più grande mostra europea mai dedicata a Mehretu e si compone di una sessantina di dipinti, affiancati, come già suggerito dal titolo, dalle opere di artisti amici, con i quali l'artista collabora e condivide spazi e tempi creativi.
In questo articolo ci interessa parlare di come l’artista sia riuscita a rivitalizzare il disegno, svincolandolo da quell’idea di mezzo istintivo, primordiale ed evocativo che gli viene spesso attribuita, riportandolo invece a quella connotazione di diagramma che, probabilmente, è stata la sua funzione primaria sin dalla notte dei tempi. Questo uso diagrammatico del disegno è proposto nel saggio "Tra lusco e brusco" di Patricia Falguières, professoressa della Scuola di Studi Avanzati in Scienze Sociali di Parigi, contenuto nel bel catalogo che accompagna la mostra.
Quando nel 2000 l'artista venne invitata dal Drawing Center di New York, istituzione che si occupa del disegno in tutte le sue forme, per una esposizione collettiva, insieme ad altri sei artisti, parlò così del suo lavoro: "I use an imagined complex language of symbols and marks that behave, battle, migrate, and socialize to create detailed maps and architectonic plans of an artificial, abstract cosmology. I am interested in the multifaceted layers of place, space, and time that impact the formation of personal and communal identity. By playing with the language of symbolic geography and architecture as tools for representing personal narratives, my drawings question the multiplicity of history and its systems".
L'idea di Mehretu è, quindi, quella di creare su tela delle rappresentazioni di cosmologie astratte e artificiali, dichiarando quella volontà diagrammatica a cui si faceva accenno precedentemente, avvicinando il suo lavoro alla data visualization più che alla cartografia. Realizza le sue opere mediante sovrapposizioni di strati di segni e di pittura, creando profondità inaspettate, a volte richiamando l'idea di un vortice che tutto risucchia, addensandolo verso le zone centrali della tela, sensazione accentuata dalla presenza di disegni architettonici in prospettiva e dall'uso di linee dinamiche. La Mehretu stessa dichiara la volontà di realizzare dei vortici visivi, parlando di un maelstrom che risucchia tutto questo insieme di segni, portandolo verso il suo centro (un abisso?). Almeno tre opere tra quelle esposte a Palazzo Grassi mostrano in modo evidente questa idea e sono quelle che si mostrano dominate dal disegno.
La base di queste opere è costituita da un primo livello di disegni architettonici e fotografie elaborate e distorte al computer, mescolate a dati, simboli, segnali; si viene a creare una sorta di insieme semiotico, che assomiglia a una mappa o a un paesaggio urbano. Questo primo strato, realizzato spesso a matita, rappresenta il pavimento dell’opera (Flatbed) su cui Mehretu andrà a creare una stratificazione, che lei stessa definisce “geologica”.
L’innovazione tecnica consiste nel “coprire” ogni livello con una finitura trasparente, il che permette di disegnare o dipingere uno strato ulteriore, senza che gli inchiostri e le pitture possano rischiare di mescolarsi: ciò che sta sotto non viene cancellato, ma è come se venisse spostato in lontananza, creando un potente effetto tridimensionale.
Il risultato finale è un centrifugato di rimandi e di visioni, di frammenti che vorticano nello spazio della tela: segni e segnali metropolitani, simboli e figurazioni antiche, rappresentazioni architettoniche, data visualization, mappe e topografie, richiami al fumetto, ai maestri giapponesi dell'Ukiyo-e, al dripping di Pollock. Tutte queste ed altre ispirazioni si fondono in una sintesi personale e molto originale che, puntando verso la rappresentazione della complessità, indica nuove strade e nuovi modi alla pittura, rendendosi specchio della contemporaneità, forse rappresentazioni dell'infosfera, ovvero di tutto quell'insieme di dati e informazioni che occupa i nostri spazi mentali, travolgendoci, senza che si possa resistergli. La nostra mente si riempie di informazioni frammentarie e disparate che l’immaginazione è poi costretta a ricomporre come può per dare loro un senso. Non so se questa idea sia sposata dall'artista, ma, dal mio punto di vista personale, le sue opere mi sembrano una rappresentazione lampante dell'improbo lavoro che il mio cervello, ogni giorno, compie per costruire un senso all’esperienza, bombardata com'è da immagini e segni che, per inclinazione personale, memorizzo e accumulo anche senza volerlo.
Senza rendercene conto, ognuno di noi rielabora a suo modo il percetto generando un nuovo linguaggio incompleto, “fratturato”.
David Bowie nel 1996, descrivendo la figura e l'opera di Jean Michel Basquiat in un editoriale per la rivista "Modern Painting”, parlava di un "new fractured language", non senza ironia, data la presenza di ossa e teschi disegnati nei dipinti dell'artista: Mehretu ha certamente assimilato e rielaborato quelle tensioni metropolitane che emergevano in Basquiat e in molti artisti dell’epoca.
Descrive il suo processo creativo “come una germinazione che parte dalla sovrapposizione degli strati che compongono il dipinto” e come “un’attività estrattiva del linguaggio visivo”, la cui base sono “linee, tratti, punti, macchie, forme semplici (dal catalogo della mostra “Julie Mehretu. Ensemble, edito da Pinault Collection e Marsilio Arte). Ogni carattere, ogni segno e simbolo disegnato sprofonda nell’opera, diventando come fossile intrappolato nella sedimentazione geologica.
Un laboratorio per esplorare il processo creativo di Julie Mehretu
Spinto da un personale interesse per l’artista etiope-americana, ho quindi ideato un workshop per Palazzo Grassi che potesse dare la possibilità ai partecipanti di sperimentare, almeno in parte, il processo creativo dell’artista. I concetti chiave della pratica proposta erano il disegno generativo (niente a che vedere con Chomsky: nel Disegno Brutto si intende per “disegno generativo” un modo ripetitivo di tracciare segni simili tra loro, quindi dello stesso genere, che provochi la crescita di una forma complessa), l’astrattismo (inteso come non-figurazione), la stratificazione, la ricerca di gesti e segni propri. Il tutto accompagnato dall’ascolto del disco “Promises” del compositore di musica elettronica Floating Point.
”Promises”, ispirato da un’opera dell’artista, è stato considerato uno dei più bei dischi di jazz degli ultimi decenni ed è stato realizzato con la collaborazione della London Symphonic Orchestra e del sassofonista Pharoah Sanders, esponente di spicco del jazz spirituale, collaboratore di Sun Ra, Miles Davis e John Coltrane. La composizione, suddivisa in vari movimenti, si muove intorno ad un nucleo di poche note composte da Floating Points, poi rielaborate e dilatate, che creano la base per una trama sonora su cui si intrecciano le improvvisazioni sassofonistiche e vocali (le più sorprendenti!) di Sanders, accompagnate dal respiro sinfonico dell’orchestra.
Tutta la composizione suggerisce un senso di caduta, come se una goccia, dopo aver tentennato nell’aria volteggiando, cadesse, ma si dissolvesse prima di toccare il terreno.
Dopo aver visionato tre opere in mostra, quelle più lontane nel tempo e basate in modo inequivocabile sul segno nero e sul disegnare, i partecipanti si sono seduti al grande tavolo che li aspettava di fianco all’atrio. Le acque del Canal Grande mormoravano oltre le vetrate. Lo spazio, ampio, luminoso, aperto alla curiosità dei visitatori, preludeva ad una pratica relazionale, condivisa, liberatoria del disegno, non certo ad una pratica intima, ragionata, progettata.
Le regole erano quelle del Disegno Brutto: tutto ciò che viene va bene; bisogna seguire la nostra mano; l’intenzione deve tramutarsi subito in azione, senza far intervenire la mente; non esistono sbagli perché l’errore è sempre un’opportunità e va perseguito e poi seguito.
Dopo aver introdotto lo scarabocchio come elemento primigenio di un certo approccio al disegno, abbiamo sperimentato la pratica del disegno generativo, usando segni ripetuti che indicassero un centro, un’origine, un buco, nel foglio di carta, riproducendo quell’idea di vortice che la Mehretu ci mostra in alcune opere.
Non tutti i partecipanti vedevano nei segni prodotti un dinamismo o una tridimensionalità, anzi, per alcuni di loro, i segni stavano fermi come una felce secca schiacciata tra i fogli di un quaderno. D’altro canto, una bambina ha notato come il suo disegno riproducesse un buco nero astronomico, di tutti i vortici e gli abissi il più misterioso e il più terribile, capace di divorare tutto, anche se stesso, ed ella stessa non voleva rischiare di esserne risucchiata.
Terminata la fase preparatoria, liberatici velocemente da alcuni condizionamenti e creando un ambiente confortevole dove poter sperimentare ed essere se stessi, senza essere giudicati, abbiamo iniziato a lavorare in piccoli gruppi su dei fogli più grandi.
Si doveva preparare il primo strato delle opere realizzando dei semplici disegni architettonici, come una casetta, oppure disegnando delle mappe, usando soltanto matite B, con tratto leggero e grigio. Nella fase successiva, i partecipanti dovevano coprire questi primi disegni con dei segni astratti, ritmati, neri. Non tutti erano a loro agio, sapendo che avrebbero cancellato e, quindi, rovinato, secondo il loro punto di vista, ciò che avevano già fatto; per una signora con un passato di insegnante d’arte e buone capacità di disegno, l’idea di coprire un “buon disegno” era inconcepibile e quindi provava a tracciare segni tutto intorno alla sua architettura (il frontale di una chiesa), rimandando il momento della cancellatura. Dopo un paio di interventi di incoraggiamento, anche lei è riuscita, seppure a fatica, a coprire il disegno iniziale, senza però lasciarsi andare a un fare davvero istintivo; non capiva proprio perché dovesse scarabocchiare su di un disegno ben fatto, ma ci ha provato, superando le proprie resistenze.
A questo punto, i gruppi dovevano iniziare a disegnare una sorta di vortice, quel maelstrom evocato dalla Mehretu stessa: con segni nervosi dovevano coprire i segni già tracciati sopra ai disegni architettonici, che andavano sempre più scomparendo. Due dei cinque gruppi avevano trovato un buon accordo, sovrapponendosi e intrecciandosi, usando tutto lo spazio a disposizione; altri due invece avevano lavorato dividendo il foglio in quattro settori, con dei confini definiti che ogni tanto venivano superati soltanto per una ragione di coerenza estetica. L'ultima fase del lavoro prevedeva l'uso di pennarelli e nastri adesivi colorati, che nella ripresa dell'opera della Mehretu avevano una funzione simile ad una segnaletica.
Dopo tre quarti d'ora di lavoro, i disegni finali erano compiuti. I partecipanti hanno commentato le proprie opere, riportando un senso di liberazione e di divertimento; per un paio di gruppi il lavoro condiviso era divenuto collaborativo e, quindi, gratificante. Pur dovendo valutare la riuscita di opere scarabocchiate, tutti i partecipanti hanno trovato un riscontro estetico nei propri disegni, una gradevolezza che andava al di là della soddisfazione di esserne gli artefici.
Inoltre, i partecipanti avevano trovato grande soddisfazione nel fare, nel procedere nella realizzazione di questi grandi fogli pieni di caos; disegnavano senza essere disegnatori, usavano gli strumenti in modo istintivo, cercavano soluzioni individuali alle poche richieste fatte.
Queste opere scarabocchiate non erano considerate “belle”, se non per una mancanza di altri termini adatti a descriverle; ma nessuno le riteneva brutte o ripugnanti, per quanto incerte, imperfette, piene di scarabocchi, incapaci di rappresentare davvero qualcosa, con una figurazione interrotta e un linguaggio “fratturato".
Riguardo al lavoro della Mehretu abbiamo almeno compreso quanto tempo impieghi per realizzare un'opera, e quanta fatica nel farla (per realizzarne alcune ha impiegato un anno, per quanto non continuativo, di lavoro). L'altra cosa che si è sperimentata è quanta abilità, o esperienza, sia necessaria per rendere alcuni effetti prospettici delle sue opere, così come quel senso di vortice che tutto muove e, forse, risucchia.
La pratica del workshop rende consapevoli di quanta perizia e di quanto esercizio necessitino anche opere considerate astratte e che paiono frutto di istinto e caso.
Credo sia molto importante utilizzare pratiche come quella del Disegno Brutto per avvicinare le persone ai processi creativi di alcuni artisti contemporanei: imitandone il processo si può capire meglio un artista e le sue opere; si scopre che opere che paiono frutto del caso e della semplicità, sono in realtà complesse e richiedono una certa abilità; si comprende come gli artisti migliori siano quelli che sanno quando fermarsi, che sanno decidere quando un'opera è compiuta.
Per vivere in modo più completo una mostra, i laboratori pratici sono utili anche per gli adulti, non soltanto dal punto di vista del coinvolgimento, ma anche da quello didattico: fruendo in modo attivo dell'arte, si aiutano ad entrare in relazione con le opere e la filosofia dell'artista. Molta arte contemporanea sembra invitare a questo tipo di dialogo con lo spettatore, provocandolo a misurarsi con l'essere artista, facendogli credere che quelle che vede sono opere che può ripetere, risultato di processi riproducibili e di abilità non così marcate. Molte persone, tutt'oggi, si sentono per così dire "truffate" dalla cosiddetta pittura astratta e non sopportano di non sapere cosa queste opere rappresentino. Fontana, De Kooning e Twombly vengono ancora additati come truffatori da una parte di pubblico non abituato all'arte, ma anche da un'altra parte di pubblico colta, fedele alla figurazione e alla pittura, per così dire, accademica o rinascimentale (in Italia ne abbiamo "eccellenti" esempi).
I laboratori di questo tipo non dovrebbero avere come obiettivo un copia dell'originale (come, purtroppo, si vede spesso in esperienze pensate per i più piccoli), quanto quello di proporre un modo diverso di vedere la realtà, ovvero quello peculiare dell'artista, sperimentandone il processo realizzativo e creativo. Chi compie esperienze laboratoriali come questa sarà, in futuro, un critico più cauto nel giudicare opere che non comprenderà subito. E comprenderà che l’arte per essere capita va, non solo studiata, ma anche praticata. E che la pratica non è mai solo una questione tecnica, ma, detto per semplificare, di “visione”.
Accanto ai lavoratori per bambini e a quelli per studenti e praticanti d’arte (che nei musei esteri hanno spesso dei veri e propri programmi didattici, cosa impensabile, per ora, in Italia) dovremmo proporre laboratori per tutti, soprattutto per chi dice di non essere capace di disegnare o dipingere, di non avere creatività o immaginazione (in quanti, diomio, lo pensano davvero!), di non capire l’arte perché troppo difficile.
Esempio di questa nuova consapevolezza che si crea alla fine del workshop, è quello di una signora che, ringraziandomi, mi ha detto che aveva capito che le opere della Mehretu vanno guardate anche da vicino, cercando cosa si nasconde dentro il roveto di segni e linee che compare a una prima vista frettolosa e che, quindi, sarebbe tornata di sopra a riguardarle con calma.
L’auspicio è che tutti coloro che ne sono capaci si attivino per creare esperienze di questo tipo e che i musei e le istituzioni comprendano quanto le attività laboratoriali, gli incontri pratici, la divulgazione, per così dire, "animata", possa essere utile per avvicinare il pubblico ad opere non facilmente comprensibili, svincolandosi dall'idea romantica o religiosa che fruire dell'arte sia soltanto un'esperienza contemplativa o didattica. E che passi sempre da un ideale di bellezza.
Non ci salverà il saper soltanto guardare le cose: bisogna saper agire e trasformare in esperienza ciò che vediamo, studiamo, comprendiamo.
In copertina ©Palazzo Grassi. Photo Matteo de Fina.
La mostra JULIE MEHRETU. ENSEMBLE è organizzata da Palazzo Grassi – Punta della Dogana ed è aperta dal 17.03.24 al 06.01.25.