La biblioteca di Atlantide / La macchina che vede di Paul Virilio
Paul Virilio è stato un intellettuale originale e difficilmente classificabile. Potrebbe essere definito un urbanista, un sociologo o un filosofo, ma in realtà era soprattutto un dromologo, perché s’interessava principalmente alle questioni relative alla velocità. Questo tema, infatti, ritorna di frequente nei suoi numerosi libri. Libri solitamente di dimensioni contenute, ma ricchi di citazioni e densi sul piano concettuale. Si potrebbe quasi dire che in questi libri la velocità non è solamente il tema maggiormente ricorrente a livello di contenuto, ma anche una variabile in grado d’influenzare la struttura formale del testo. Vale a dire che la vera e propria ossessione per la velocità che caratterizza il lavoro di ricerca di Virilio sembra aver portato questo autore a eliminare le introduzioni, le spiegazioni e le parti di raccordo che vengono solitamente rivolte al lettore. I volumi così, come se fossero sotto l’effetto di un processo di accelerazione, si presentano fondamentalmente come una successione di citazioni e concetti.
I riferimenti di Virilio provengono da ambiti disparati: dall’urbanistica, dall’architettura, dalla letteratura, dall’arte e dalla storia degli eventi bellici.
Ma a interessare particolarmente Virilio erano i media. Questi, infatti, lo attiravano perché sono dotati della capacità di avvicinare quello che si trova distante e producono perciò inevitabilmente un indebolimento della dimensione spaziale. Secondo Virilio, ciò è risultato evidente già con la comparsa nella storia delle prime «macchine che vedono» e in particolare con i numerosi strumenti ottici che sono stati ideati nel corso del Rinascimento: lenti, microscopi, cannocchiali astronomici, ecc. Non è un caso perciò che a tali strumenti abbia dedicato La macchina che vede, uno dei suoi libri più rilevanti, pubblicato dalle Edizioni SugarCo nel 1989 e da tempo non disponibile sul mercato. In tale libro, Virilio ha scritto a proposito della comparsa delle prime «macchine che vedono» che noi esseri umani, «Proprio nel momento in cui pretendevamo di procurarci i mezzi necessari per vedere più e meglio il non-visto dell’universo, stavamo per perdere la nostra debole capacità di immaginarlo» (p. 18). Dunque, tali mezzi hanno radicalmente trasformato il modo di vedere il mondo circostante e di muoversi in esso.
E ciò è particolarmente evidente oggi, in un’epoca in cui si è affermato un vero e proprio dominio delle «macchine che vedono». Perché Virilio anni fa anticipava lucidamente quello che sarebbe successo nei decenni successivi: la comparsa di apparecchi sempre più sofisticati e in grado di sostituire pienamente la capacità di visione dell’essere umano. Configurando perciò la nascita di quella disciplina che Virilio all’epoca ha chiamato «visionica», basata sulla possibilità di disporre di una «visione senza sguardo», cioè di una visione autonoma e indipendente dal corpo umano e dal suo cervello, una percezione e un’analisi della realtà totalmente automatiche.
L’immagine prodotta dalle macchine, per Virilio, è anche quella dell’immagine in tempo reale che tende a predominare sulla cosa rappresentata. Un’immagine dunque paradossale, perché basata sulla tele-presenza a distanza dell’oggetto, che non è più qui e ora pur generando l’illusione della sua presenza. Ma un’immagine, soprattutto, che è frutto di una macchina che si limita al riconoscimento automatico delle forme e alla produzione di un’immagine di sintesi. Dunque, una macchina, che si basa su una «visione senza sguardo».
Ciò è anche il risultato di quella che Virilio stesso nel volume La macchina che vede ha definito «logistica della percezione», vale a dire un intenso processo di accelerazione sociale riguardante tanto gli spostamenti sul piano fisico, quanto quelli relativi ai messaggi del sistema della comunicazione e in grado di modificare la percezione umana dello spazio, distruggendo progressivamente la conoscenza e la consapevolezza delle distanze e delle dimensioni. Nella cultura moderna, la velocità era vista come una preziosa fonte di libertà e leggerezza, ma, secondo Virilio, essa ha mostrato in seguito che la sua crescente intensificazione indeboliva la fondamentale capacità di orientamento degli esseri umani rispetto al tempo e allo spazio. Determinava cioè per gli individui il crearsi di una situazione d’indeterminatezza nei confronti del regime della temporalità e d’incertezza per quanto riguarda la loro posizione nello spazio.
Si genera di conseguenza un altro importante fenomeno sociale che è stato individuato e analizzato in seguito da Virilio in un apposito volume: l’«estetica della sparizione». Un fenomeno che, secondo l’intellettuale francese, dev’essere considerato non come una forma di resistenza e di sottrazione del singolo alla società, ma, al contrario, come una perdita progressiva della capacità umana di osservare il mondo. Vale a dire che quell’eccesso di velocità e d’informazioni che caratterizza le società avanzate produce non una percezione più vivida, ma una vera e propria assenza del reale.
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