La preghiera che salva
Mi capita di fare alcune riflessioni legate alla difficoltà dell’organizzare una mostra a cui lavoro da dieci anni e che finalmente avrà luogo a Torino, in Venaria Reale con apertura l’11 di Aprile. Le difficoltà a cui devo fare fronte non sono di natura tecnica o organizzativa, ma concettuali. Su questo stesso doppiozero ho spiegato l’idea che sta alla base della mostra. Il rapporto tra quell’articolo scritto e l’esperienza pratica che sto facendo nella mostra mi ha fatto capire qualcosa di nuovo. In breve: la tesi di Pregare, un’esperienza umana è che la preghiera sia qualcosa con un carattere pressoché universale. È evidente a chi viaggia, ma anche a chi fa ricerca antropologica che le religioni siano dei fenomeni amplissimi e diffusissimi. Si può avere un punto di vista laico su di esse, ma non si può negarne la presenza capillare, anche in mondi in cui non ci sono Chiese o Istituzioni e Teologie preposte. Perfino nelle religioni sciamaniche, negli animismi e in molte forme di culto della Dea Madre o delle divinità del Cielo Stellato si ritrova tutto un complesso di gesti di lode ma anche di implorazione. Certo, si può pensare che sia un oppio dei popoli, ma oggi questo atteggiamento sa più di cecità spocchiosa e di giudizio nei confronti del “popolo bue” più che di serio atteggiamento. Il problema è che anche quando si prende come interlocutori coloro che credono, siano essi appartenenti all’ebraismo, all’Islam, al cristianesimo e oggi anche all’induismo e al buddismo, si trova un sospetto analogo a quello laicista. Chi crede non sopporta che il proprio pregare sia un anelito universale. È quello che sto vivendo sulla mia pelle. È difficile avere a che fare con persone anche molto sensibili e profonde sul piano religioso e trovare in loro un senso di accettato universalismo. All’atto pratico la “religione che salva”, ma anche la “preghiera che salva”, è una sola: la propria. Cioè si accetta che gli altri credano e preghino, ma non è possibile concepire un universalismo senza metterci in mezzo la questione della “salvezza”. Il cristianesimo da un certo punto di vista e per una parte della sua teologia ha fatto un passo avanti e proprio negli atteggiamenti di papa Francesco, questo è chiaro. «Extra moenia ecclesiae nulla salus», non è più uno slogan proponibile. E una parte dell’Islam, molto osteggiata dall’Islam ortodosso, quella sufi, ha un atteggiamento simile, almeno quella che si ispira agli insegnamenti di Jelal-Addin Rumi. Da parte Induista fino a poco tempo fa c’era molta tolleranza, prima che l’ideologia semi nazi dell’“Hindutva” venisse proclamata come ideologia ufficiale da parte dell’attuale presidente Modi.
La grande Wendy Donigher, la traduttrice del Mahbarata ha visto il suo libro sull’Induismo (On Hinduism, Aleph Book, Delhi 2013) bandito proprio perché adotta una visione laica e non “massiccia” e univoca dell’induismo stesso.
Da sx: Bernardino Luini, La preghiera di Mosè sul Sinai, 1520-1523; monaco buddista
Il problema è che entrambi, sia i “radical chic” dell’oppio dei popoli che i credenti, hanno in grande sospetto ogni forma di universalismo che possa provocare un “relativismo”. Per certi versi hanno ragione. Il relativismo è un pensiero che pericolosamente propone una specie di approccio cinico alle fedi e ai sistemi culturali. Si ha un bel parlare di cosmopolitismo, ma questo investe una fetta ben ridotta e molto privilegiata dell’umanità, quelli che come jet-setters percorrono il mondo ben pagati dalle organizzazioni internazionali. La realtà dei grandi numeri è un’altra. La gente è legata a una dimensione locale e di appartenenza identitaria e questo è un orizzonte che può far paura ai laici, ma è anche pieno di significato.
La questione però è che, a parte il relativismo, che è una posizione apprezzabile se non è un partito preso (sennò porta a mettere in carcere nella religione laica francese i ragazzini che a scuola si rifiutano di dire Je suis Charlie), c’è una dimensione molto più preoccupante per chi studia il mondo come qualcosa che va capito nelle sue motivazioni e profondità (mi verrebbe da dire che è il compito dell’antropologia e di tutte le scienze umane). Ed è il fatto che l’universalismo è insopportabile. Da qualunque parte esso provenga, che si tratti di linguistica, di forme di logica, di diritti umani, di fisiologia, ma anche e soprattutto di basi quotidiane comuni per l’umanità, è qualcosa che trova una resistenza ostinata.
Eppure siamo andati molto avanti in questo campo. Gli “universali”, come sono descritti in una voce magnifica di vent’anni fa dell’Enciclopedia Einaudi a firma del compianto Giorgio Raimondo Cardona, sono stati arricchiti di moltissima letteratura scientifica. Possiamo al momento attuale essere d’accordo sul fatto che l’umanità, pur nelle sue enormi differenze, spartisce tuttavia una base comune che ha a che fare con il modo con cui il corpo e la mente interagiscono con i corpi e la mente degli altri e con l’ambiente circostante.
La preghiera fa parte, FENOMENOLOGICAMENTE, di questa base e se ci sono esseri umani che vi si sottraggono la cosa ha la valenza di una scelta culturale di separarsi da ciò che gli altri fanno, come quando uno diventa vegano perché non sopporta l’idea che gli animali vengano uccisi e sfruttati. (Guai però a una società che dà tutto il potere ai vegani, si sfiora il fascismo ecologico).
Nonostante questo è all’interno delle religioni che si trova il grande dubbio sull’universalismo. Esse non riescono fino in fondo a “mettersi nei panni” di uno che ha una fede diversa e la cosa è talmente insopportabile da provocare fanatismi e non solo nel campo dell’Islam, ma purtroppo in quello cristiano e adesso in quello buddista e induista. Le religioni monoteiste, fatta forse eccezione per l’ebraismo che postula una forma di appartenenza identitaria ed ereditaria, si proclamano “universaliste” ma solo nel senso che auspicano che tutti si convertano al proprio monoteismo. Questo è il problema delle religioni, per quanto profonde e ricche siano. E il cristianesimo ha dalla sua il vantaggio di avere accettato (a malincuore?) di essere ampiamente secolarizzato, e di avere negoziato di esistere in maniera più o meno discreta in stati a-confessionali. L’Islam ha il problema oggi di pretendere di conciliare modernità e confessionalismo di stato con ricadute pesantissime sul piano dei diritti umani e perfino di quelli di una società normalmente mercantile (la difficoltà a decollare del sistema bancario islamico lo racconta e le prospettive ambiziose dei turchi che invece hanno un sistema separato – ancora non per molto – ce lo dicono).
Anche la storia che a me sta molto a cuore, delle macchine di preghiera, dei rosari, è singolare. Nei passaggi tra religioni, queste fanno di tutto per ignorare che il testimone è stato passato dalla religione accanto. Gli ortodossi prendono il “tisbeh”, il rosario passatogli da Rumi, ma poi hanno bisogno di mettervi l’interdizione sui materiali duri con cui costruirlo. I rosari ortodossi saranno di stoffa per distinguersi dall’Islam vicino.
Mi rendo conto, adesso che l’apertura della mostra è vicina, di essermi cacciato in un ginepraio. La mia attenzione per le forme religiose viene presa come una adesione a una fede o al contrario come un relativismo antipaticissimo e ricevo bordate e attacchi da entrambe le sponde. Scrivo questa nota per dire quant’è difficile oggi rielaborare una laicità vera che non sia spocchiosa ma nemmeno compromessa con chi non crede nella laicità. E per questo oggi l’universalismo, da riproporre con coraggio, è rivoluzionario. Avere il coraggio oggi di affermare che uguaglianza, libertà e soprattutto fraternità sono valori universali è davvero l’unica rivoluzione che dobbiamo preparare, (sottraendola però all’identitarismo orrendo dei francesi e all’idea orrenda di “civilization” con cui essi hanno deformato la triade).
La mostra è un modestissimo contributo a questa rivoluzione. Se essa vi sembrerà non riuscita abbiate pazienza: nasce da una lotta quotidiana e costante con forze che nell’universalismo, da un lato o dall’altro non credono. Io ci credo e per me sta qui il senso del mio lavoro di ricercatore, di antropologo e di uomo.
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