La scimmia: il sesso e il genere
Sapete che cosa fa una grande antropomorfa – gibbone, orango, gorilla, bonobo, scimpanzé – quando le si dà in mano una bambola? Be’, risponde serafico Frans de Waal, autore di Diversi. Le questioni di genere viste con gli occhi di un primatologo (trad. it. di Allegra Panini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022), può reagire in più modi. Se è un maschio giovane, è possibile che la faccia a pezzi per la curiosità di vedere cosa c’è dentro. Se poi i maschi giovani sono due, il destino della bambola sarà ancora più cruento: se la contenderanno fino ad averne un pezzo ciascuno. Se invece è una femmina, finirà per adottarla e trattarla bene, insomma se ne prenderà cura.
Primatologo olandese attualmente docente presso il dipartimento di psicologia della Emory University di Atlanta, già autore di gradevolissimi libri di divulgazione – tra i suoi titoli più recenti Il bonobo e l’ateo. In cerca di umanità fra i primati (2013), Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? (2016), L’ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali (2020) – de Waal ha dedicato la sua intera vita di ricercatore e osservatore distante a capire che nesso ci sia, nel ciclo vitale delle grandi scimmie antropomorfe (di cui noi umani siamo la specie tecnicamente più evoluta), tra natura e cultura, istinto e ponderazione, automatismo genetico e libero arbitrio.
“Le antropomorfe differiscono dalle altre scimmie per molti aspetti: sono prive di coda, tendono ad assumere la posizione eretta, hanno una corporatura più massiccia, si affidano alla vista piuttosto che all’olfatto, hanno il cervello più largo in proporzione al corpo. Il loro sistema nervoso è molto articolato, per questo il periodo di gestazione è più lungo rispetto alle altre scimmie. Hanno capacità intellettive notevoli e un alto grado di socializzazione.”
Rientrando nell’aristocrazia degli ominidi, noi umani – maschi, femmine et al. – abbiamo il vantaggio (o il privilegio?) di poterci osservare e studiare per comparazione. È ciò che fa de Waal, scegliendo come suo campo d’indagine niente meno che la relazione che vige ‘in natura’ tra sesso e genere, biologia e cultura. Le grandi antropomorfe ci farebbero insomma da specchio, e noi a loro, proprio in uno degli aspetti più complessi, contraddittori e volatili della nostra cosiddetta identità sessuale e/o di genere.
Ma andiamo per gradi. Che cos’è il sesso e che cos’è il genere, si chiede l’autore, ipotizzando che in natura il secondo non possa che essere un corollario funzionale del primo, una sua manifestazione necessitata dalla sopravvivenza della specie. Se tutto gira intorno alla riproduzione e se la riproduzione ha bisogno di due sessi ben distinti, di un maschio e di una femmina, tutto si disporrà intorno a quel compito destinale, spingendo i maschi a copulare con il maggior numero possibile di femmine in modo da garantirsi una degna discendenza e le femmine a individuare il maschio più potente al fine di assicurarsi non solo il seme più adeguato, ma anche la protezione più efficace.
Naturalmente, osserva lo studioso, le grandi antropomorfe non copulano solo per riprodursi. Il sesso procura anche godimento. Tuttavia, anche in questo caso, si direbbe che la responsabilità delle femmine nello schema riproduttivo – sono loro a portare e mettere al mondo la prole, ad allattarla e accudirla fintanto che non sa badare a se stessa – abbia ricadute precise sul piano dei comportamenti. Le femmine sarebbero dotate di un istinto ‘materno’ utile a tenere a bada la violenza latente negli individui e nei gruppi, ad attutire i conflitti, a mediare, a riconciliare. Se il patriarcale maschio alfa impera con la sua potenza, la matriarcale femmina alfa è forte della sua saggezza, del suo attaccamento alla vita, la propria e quella dei suoi piccoli.
Per arrivare alle sue conclusioni de Waal sceglie – ed è la parte più esilarante del libro – di porsi in prima persona tra le grandi antropomorfe e di raccontarci come e dove è cresciuto e perché è diventato la persona che è. Quarto di sei figli maschi, viene al mondo nel 1948, nei Paesi Bassi. Sua madre, alla nascita dell’ennesimo XY, cade in depressione. L’attesa Francisca si rivela un Frans e, per fortuna di entrambi, è un bambino allegro. “Ogni volta che mi prendeva in braccio”, scrive l’autore, “la tiravo su di morale. Secondo lei lo facevo intenzionalmente, come se avessi deciso che l’unico modo per sopravvivere con una madre scoraggiata fosse sorridere e tubare tutto il tempo”.
L’imprinting è chiaro: maschi di qua e femmine di là. È la madre a sancirlo. Ed è il gruppo dei fratelli, dei ‘pari’ per sesso, a colorare l’infanzia e l’adolescenza, forse a far nascere la curiosità per quella piccola ‘differenza’ di cui in famiglia non c’è prova.
Eccoci dunque all’approdo professionale: primatologo. Un mestiere che fino a pochi decenni fa era monopolio degli uomini e che le prime, appassionate ricercatrici di sesso femminile rivoluzioneranno. Basti pensare alla celeberrima Jane Goodall, autrice di Il popolo degli scimpanzé. 30 anni di osservazioni nella giungla di Gombe (trad. it. Rizzoli, Milano 1991) immortalata nel film Gorilla nella nebbia di Michael Apted; a Sarah Blaffer Hrdy, cui dobbiamo La donna che non si è evoluta. Ipotesi di sociobiologia (trad. it. Franco Angeli, Milano 1981) e Mothers and Others: The Evolutionary Origins of Mutual Understanding (Belknap Press, Cambridge, ma 2009); a Thelma Rowell, che nel 1974 dà alle stampe The Social Behaviour of Monkeys (Penguin, New York), o ancora a Barbara Smuts, che nel 1985 congeda Sex and Friendship in Baboons (Aldine, New York).
Viene naturalmente da chiedersi se, nelle novità che il metodo di lavoro delle donne comporta, non c’entri la loro alterità, il banale fatto che il vasto mondo è stato loro precluso a lungo proprio ‘per genere’. Che cosa fanno le primatologhe che i loro predecessori maschi non sapevano o non volevano fare? Si lasciano sorprendere; si interrogano senza avere già la risposta in tasca; non mirano a dimostrare tesi preconcette; stanno a lungo e con intelligenza emotiva sul campo; diventano parte dell’habitat su cui indagano. Si potrebbe parlare di empatia, ma de Waal mette in chiaro, citando le reazioni di alcune di loro, che uno scienziato è uno scienziato è uno scienziato, a prescindere dal suo corredo cromosomico e dalla tecnologia di genere cui è stato sottoposto. In altri termini chi fa lavoro scientifico deve spogliarsi di sesso e genere, oppure assumerli entrambi e vedere che cosa succede.
È buffo tuttavia come, nelle sue pagine, de Waal oscilli di continuo tra affermazioni e smentite. Il sesso, per noi umani, conta o è impossibile distinguerlo dalle concrezioni di genere che su di esso sono andate depositandosi? La biologia ci determina fin dal grembo materno o la vita è un continuo aggiustamento o un’ininterrotta opposizione ai suoi diktat?
Il fatto è che oggi, Anno Domini 2022 e parecchie tecnomutazioni dopo, l’osservazione dei comportamenti sessuali e di genere dei nostri parenti più stretti in natura rischia di dirci più sulle nostre proiezioni e le nostre nostalgie, sui nostri terrori e i nostri rimpianti, che su di loro. Arrivati come siamo a un’annunciata fine prossima ventura del mondo che l’homo sapiens ha costruito puntando su inalterabili e magnifiche sorti progressive, quelle creature rappresentano la nostra preistoria, la caverna buia da cui arriviamo, il magma originario di cui siamo tuttora impregnati, ma anche il possibile terrificante approdo di una regressione in corso di cui non siamo ancora del tutto consapevoli.
In copertina, sia nell’edizione americana sia in quella italiana, La danse del 1910 di Henri Matisse. Qualche guerra fa, qualche disastro ambientale or sono. Oggi tutte le Grandi Scimmie sono a rischio di estinzione. Noi tra loro. Fluidità e liberazione dovrebbero essere ripensate alla luce di questa evidenza, non per riparare nelle gore binarie dell’essenzialismo, ma per provare a immaginare a che cosa saremo disposte o costrette a rinunciare per restare vive.