La tabula rasa cambogiana
Doppiozero inaugura oggi una serie di articoli e di saggi brevi dedicati al cinema di tutto il mondo. L’obiettivo è quello di studiare e approfondire la relazione fra Storia, geografia ed espressione artistica andando alla ricerca di film, autori, interpreti e tendenze ancora da scoprire o da ridefinire. Una viaggio nello spazio e nel tempo, o meglio ancora una ipotetica, ambiziosa, per quanto inevitabilmente frammentaria, mappatura cinematografica della Terra, che percorrerà in varie direzioni la storia del cinema e proverà a raccontarne gli aspetti meno conosciuti o a riscriverne alcuni passaggi.
Cominciamo con la Cambogia, il suo passato di orrore e cancellazione della memoria, tra Pol Pot e la cultura pop.
R.M.
Don’t Think I’ve Forgotten: Cambodia’s Lost Rock & Roll, di John Pirozzi, 2014
Quel che manca principalmente, nel tempo dell’horror vacui e del sovraccarico di informazioni, è il mistero. Il buio che conduce a una scoperta, magari sconvolgente, una volta che i riflettori sono accesi. Suo malgrado, la Cambogia è ancor oggi al centro di un mistero insondabile, dopo essere stata teatro del più inconsueto tra i fenomeni socio-politici moderni, un reset programmato di costumi e abitudini, brutale e implacabile. Un’operazione cominciata dalla cancellazione di ogni forma d’arte e a cui solo l’arte può provare a porre rimedio, riannodando pazientemente i fili recisi. La nomination all’Oscar – e il relativo tam tam a essa seguito – di L’immagine mancante di Rithy Panh (2013, ultimo di una serie di lavori del regista sul regime degli Khmer Rossi) ha aiutato a riaprire la questione del gigantesco rimosso culturale cambogiano, che affianca al dolore della perdita individuale quello della perdita collettiva. Ad esso sono seguiti nel 2014 due lavori fondamentali, per ragioni diverse tra loro. Il primo si intitola Don’t Think I’ve Forgotten: Cambodia’s Lost Rock & Roll di John Pirozzi, un’indagine nella scena pop-rock antecedente a Pol Pot, che è simile per intenti, ma differente per stile e impostazione, al pregevole Le sommeil d’or (Davy Chou, 2011), operazione analoga sul rimosso cinematografico. Il secondo è un film di finzione, The Last Reel di Sotho Kulikar, vincitore di un premio all’ultimo Far East Film Festival: una scheggia di cinema popolare ammantata di cinefilia e di rimpianto per ciò che non è più recuperabile.
La grande rimozione e le immagini mancanti
Come esemplifica visivamente il documentario di Pirozzi attraverso i notiziari televisivi avvicendatisi negli anni Settanta, la Cambogia rimane per anni una zona oscura, racchiusa tra Thailandia, Laos e Vietnam, nella carta geografica alle spalle del mezzobusto di turno. Nessuno è a conoscenza di quanto vi accada e naturalmente chiunque – quando non sa – teme il peggio. Sono sufficienti quattro anni, tra il 1975 della presa di Phnom Penh da parte degli Khmer Rossi e il 1979 dell’invasione vietnamita, per innescare un processo di distruzione ai limiti dell’irreversibilità. Un periodo breve rispetto alle durate consuete dei più sinistri insediamenti politici (in genere tendenti al ventennio), in cui operare il più estremo e radicale esperimento politico mai concepito e messo in atto. A partire dalla liberazione del 1979, benché la guerra civile continui fino agli anni Novanta, ha inizio un lungo viaggio a ritroso per fendere la nebbia mediatica levatasi attorno all’operato di Pol Pot e degli Khmer Rossi. Il pop e il rock occidentali, che corrono più veloce di ogni passaparola, trovano da subito sintesi folgoranti dalle sensazioni contrastanti: la bionda Kim Wilde si addentra in territori dark, raccontando in Cambodia (1981) di un militare dedito a operazioni segrete e irrimediabilmente cambiato da ciò a cui ha assistito; mentre l’hardcore-punk dei Dead Kennedys volge in chiave di satira politica l’orrore dei campi di lavoro di Pol Pot nell’indimenticabile Holiday in Cambodia (1980). Il territorio – che era principalmente noto per la presenza di uno dei templi più estesi al mondo, Angkor Wat, raffigurato anche sulla bandiera nazionale – acquisisce così nell’immaginario collettivo un nuovo e macabro significato, legato a segreti più inconfessabili di quelli sussurrati proprio in quel tempio dal Tony Leung di In the Mood for Love di Wong Kar-wai (2000).
I numeri atterriscono – tra l’uno e i tre milioni tra morti e scomparsi, a seconda delle fonti – ma non sono comunque sufficienti a rendere l’idea dell’unicità di quanto avvenuto in Cambogia tra il 1975 e il 1979. Pol Pot porta a termine quel che nessun leader di ispirazione comunista prima di lui aveva concepito: cancellare i ruoli sociali, i beni individuali, i legami, le identità. I dittatori o i capipopolo in genere procedono in base a un copione che presenta variazioni minime: controllo dei media e loro trasformazione in megafoni del regime, culto della capitale e suo restyling con colori nazionali e monumenti iconici che recano l’effigie del leader; tendenza all’invasione dei popoli circostanti con frequente effetto collaterale di accelerare il crollo del regime stesso. Pol Pot persegue invece l’opposto su tutti i fronti: organi di informazione, forme d’arte, artisti e giornalisti spariscono, subiscono una rieducazione coatta e nella gran parte dei casi sono soppressi; la capitale viene abbandonata e lasciata in pasto agli animali (le rare immagini di Phnom Penh deserta con i maiali che scorrazzano per le strade, presenti tanto in L’immagine mancante che in Le sommeil d’or, si avvicinano alla visualizzazione apocalittica dell’incipit de L’esercito delle 12 scimmie di Gilliam, 1995); i confini della nazione divengono muri invalicabili e l’autarchia si traduce nel più completo isolamento. Un progetto astratto applicato maniacalmente alla realtà, con la conseguenza di causare un trauma così profondo per la storia e la cultura della Cambogia, da richiedere decenni interi prima di poter essere rielaborato, combattendo contro l’invisibilità di ogni testimonianza.
Don’t Think I’ve Forgotten: Cambodia’s Lost Rock & Roll, di John Pirozzi, 2014
A numerosi anni di distanza è il cinema, il documentario in particolare, a provare a ricostruire, a raccontare quel che la Cambogia era prima di Pol Pot. Una monarchia guidata da un sovrano giovane e ammalato di protagonismo, quel Norodom Sihanouk che gira, interpreta e produce pellicole festaiole, ricche di riferimenti alle mode in voga in occidente. Don’t Think I’ve Forgotten aderisce alla forma narrativa più tradizionale del documentario: “teste parlanti” alternate al montaggio di immagini di repertorio e a una enumerazione di artisti che rischia di sfociare nel didascalico. Ma lo sforzo, di fronte alla penuria di suoni e immagini residue, è encomiabile, nonostante il linguaggio non sia quello raffinato e artistico della soggettiva infantile di Rithy Panh, con la sua ricostruzione del passato attraverso figure antropomorfe di terracotta, o della visione di Davy Chou, che si ingegna a riempire i vuoti ricorrendo a tecniche ed espedienti differenti, tra cui le ombre cinesi che rimandano alle origini stesse del cinematografo. Proprio ne L’immagine mancante, peraltro, era presente un accenno, fugace ma persistente, a una scena rock pre-1975 rigogliosa e carica di joie de vivre. Il film di Pirozzi approfondisce quell’indagine e restituisce a un pubblico ignaro le figure di Sinn Sisamouth, crooner dalla voce limpida, Ros Serey Sothea, “the golden voice”, o di Yol Aularong, lungocrinito e ribelle garage rocker. Ad accomunare i tre e gli innumerevoli altri emancipatori di una nazione, è il destino comune: la morte, o la sparizione, toccata tanto ad amici della famiglia reale come Sisamouth che a ribelli senza causa come Aularong.
Da sinistra,: l'attrice Dy Saveth e la cantante Ros Serey Sothea
Se dell’ingente produzione musicale si sono riusciti a conservare alcuni vinili, poi ripubblicati su CD al termine della guerra civile, ancora peggiore è la situazione relativa al cinema. Dei circa 400 titoli prodotti tra il 1960 e il 1975 non sono sopravvissuti che frammenti e alcune foto di scena; e se prima del 1975 il primato numerico a Phnom Penh appartiene alle sale cinematografiche, che erano più di 30, oggi appartiene ai karaoke club, più di 100. La volontà di cancellare il passato partendo dall’arte è un simbolo così lampante del deliberato attacco culturale ideato da Pol Pot, che Rithy Panh apre proprio con l’immagine della celluloide che si sbriciola il suo L’immagine mancante. Di fronte alla tabula rasa non restano che il ricordo, il rimpianto e la possibilità, per chi è sopravvissuto al genocidio, di ripartire da capo e ri-mettere in scena.
Reenactment: il rimosso si rifà carne
Volto ricorrente nei titoli succitati e in ogni indagine sulla Cambogia precedente agli Khmer Rossi è quello di Dy Saveth, attrice, performer e coreografa oggi settantenne. Sostanzialmente l’unica superstite di uno star system debellato per volontà dell’Angkar di Kampuchea. In Le sommeil d’or la vediamo intenta a mostrare dei passi di danza a dei giovani ballerini, allo scopo di rimettere in scena una performance rimossa dalla furia del regime, prefigurando così il ruolo di Sothea, protagonista di The Last Reel, un personaggio in cui Sotho Kulikar fa confluire esperienza autobiografica e figure iconiche del divismo cambogiano (il volto è di Dy Saveth, il nome è carpito alla cantante Ros Serey Sothea). Se in Le sommeil d’or la Saveth si reca sui luoghi che furono di The Sacred Pond di Li You Sreang (1970), pellicola scomparsa che la vedeva protagonista, e in Don’t Think I’ve Forgotten Pirozzi accenna un timido tentativo di associazione di nuove immagini all’audio del passato, in The Last Reel l’operazione di metempsicosi cinematografica si completa, con la trasformazione in opera di finzione della volontà di ricostruzione culturale cambogiana. La storia di una ragazzina che rischia in prima persona pur di ridare vita a un’opera rimasta incompiuta si mescola a una vicenda personale dominata dai segreti e dai lati oscuri, fino alla scoperta che in seno alla sua famiglia vivono le due anime, divise e mai pacificate, di un Paese lacerato. Un viaggio intriso di fascinazione tattile per il cinema, per la pellicola e la sala cinematografica, che si serve della facilità di approccio del digitale per ripartire e ricostruire. Una metafora favolistica che conquista su un piano intellettuale ed emotivo proprio in virtù della sua manifesta naïveté.
The Last Reel, di Sotho Kulikar, 2014
È il cinema popolare, infine, a intercettare lo spirito originario della cinematografia del Mekong. E, come esemplifica Le sommeil d’or, che sceglie di limitare al finale la proiezione su una parete dei frammenti rimasti di diversi titoli, è la conservazione orale di quella magia a preservarne intatto il fascino. Cinefili e registi raccontano (e si raccontano, in uno stream of consciousness riflessivo) trame di titoli come The Snake Man Part 2 di Tea Lim Koun (1971), distorcendone il ricordo, o forse arricchendolo di elementi fantastici in verità assenti. Un’operazione di conservazione della memoria che è allo stesso tempo sua rielaborazione, suo reenactment. I diorami e le figurine di argilla di Rity Panh in fondo non sono dissimili in questo senso: chi con la terracotta, chi ritornando alle ombre cinesi, chi raccontando la trama di un film, in una trasmissione orale degna della resistenza culturale di Farenheit 451 (1966). Perché non c’è migliore vendetta nei confronti dello scempio culturale perpetrato che il trionfo di quella soggettività, ingenua e guidata dalla fantasia, che l’automatizzazione della società ha inutilmente cercato di cancellare.