La vita cronica dell’Odin Teatret
Se potessimo tracciare graficamente su una carta tutte le geografie che compongono La vita cronica, l’ultimo spettacolo dell’Odin Teatret, ci troveremmo di fronte a segni e traiettorie che si mescolano nella vecchia Europa. Il lavoro di Eugenio Barba porta in scena un genere umano composito che, seppur all’insegna delle diverse provenienze, non conosce comunque appartenenza geografica: un genere umano cittadino del mondo, figlio futuribile dei nostri tempi.
È un lavoro intelligente e appassionante che sa subito conquistare lo spettatore. Le tinte di disperazione che colorano le vite dei protagonisti non tardano a delinearsi fin dalle prime (poche) parole pronunciate. Il caos delle esistenze da subito affolla il palcoscenico: la vedova di un combattente basco con il suo scialle nero a vivere quotidianamente il proprio lutto; una rifugiata cecena e la memoria delle sue continue emigrazioni; una casalinga rumena maniacalmente concentrata sulla pulizia; un rocker dal sapore nostalgico con una chitarra elettrica, ogni nota a rievocare quel che fu. E poi un avvocato, una stupefacente Madonna nera e un ragazzetto alla ricerca del padre perduto. Si alternano in scena su una pedana di legno rettangolare dove il pubblico, disposto sui due lati lunghi, sembra fronteggiarsi.
Fotografia di Jan Rüsz
Un lavoro frutto anche dell’energia di un gruppo di attori così misto e così compatto che sa coinvolgere e travolgere lo spettatore. Tutto si presenta drammatico, ma allo stesso tempo come pervaso da una sorta di magia, di fantasiosità nell’aria che si può respirare e che aiuta a intervallare la durezza della vita rappresentata: barlumi di folk e reminiscenze balcaniche un po’ alla Kusturica, nei costumi e nei suoni, stemperano le tinte forti dei temi affrontati. Come nella tradizione Odin, i tanti interventi musicali suonati dal vivo (e spesso in scena) scandiscono l’incedere dello spettacolo e contribuiscono anch’essi a dare leggerezza a questo girone di infelicità: che sia un violino o una roboante chitarra, un basso o una voce soave che canta in spagnolo versi di mancanza e lontananza, una fisarmonica. Si ascoltano lingue diverse a rappresentare le culture dei protagonisti: suoni che arrivano dall’Est, un po’ di spagnolo, qualche espressione in italiano. Non è importante né necessario capire ogni singola frase. Le parole poco possono aggiungere a uno scenario così post-tragedia. Due mercenari in tenuta militare non aprono bocca; i loro corpi parlano un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti, che travalica la semplice parola. Ed è importante qui inserire le figure di Anna Politkovskaja e Natalya Estemirova, entrambe critiche rispetto al conflitto ceceno, uccise proprio per la loro scrittura, per le parole di denuncia pronunciate. A loro è dedicato lo spettacolo.
Fotografia di Tommy Bay
Ogni personaggio si fa narratore delle proprie esperienze. Chi è stato immerso nella tragedia della guerra e ne porta i segni (li porterà per sempre); chi attraverso un vestito ricorda il marito e la felicità di una vita insieme perduta; chi vorrebbe finalmente normalità perché la normalità non gli è mai appartenuta. Questi drammi trovano rifugio sulla piattaforma di un ipotetico futuro 2031, all’indomani di un terzo conflitto mondiale. Il palco diventa microcosmo dove i curiosi componenti si aprono gli uni con gli altri, travolti dalla inesorabile solitudine dell’esistenza. È un dolore che attraversa corpi e generazioni. Un universo che si è abituato a questo stato dell’essere, un genere umano arreso a quanto è amaramente e - chissà? - inevitabilmente divenuto irreparabile, frutto di un malessere cronico che porta all’impoverimento della specie. Una Zattera della Medusa perfetta, così forte e agli occhi così indimenticabile.
Fotografia di Rina Skeel
Dopo dieci anni di assenza da Roma, l’Odin Teatret finalmente ritorna in città. Dopo sei repliche all’Auditorium Parco della Musica, il gruppo diretto da Eugenio Barba sarà in scena al Teatro Vascello fino al 17 marzo e contemporaneamente, sempre in città, protagonista di numerosi eventi collaterali come attività pedagogiche, incontri e presentazioni di libri. L’intera iniziativa “Odin Teatret a Roma 2013” è un’ottima occasione per tuffarsi nel mondo teatrale immaginato e costruito in quasi cinquanta anni di attività, in origine in Norvegia e poi a Hostelbro in Danimarca.
Fotografia di Jan Rüsz
A Eugenio Barba non si può che guardare come a un ben definito punto di riferimento per il teatro della seconda parte del ‘900, per la sua grammatica narrativa e per la fedeltà al percorso intrapreso, per la sua attenzione al gruppo di lavoro e per la freschezza inesorabile delle sue opere. L’Odin è un gruppo che al suo interno ha sempre accolto le differenze (fossero esse geografiche oppure linguistiche) e quelle differenze le ha sapute sempre sviscerare e porre su piani che potessero divenire racconti per tutti. Sì, perché “il teatro è la politica con altri mezzi” e una tale definizione di Eugenio Barba non lascia troppo spazio, se non all’impegno.