L’architettura e la meraviglia
Uno degli insegnamenti più emozionanti che mi ha trasmesso Guido Canella, mio maestro alla Scuola di Architettura del Politecnico di Milano, è quello ricevuto nei tours in bicicletta fatti per la città e le zone limitrofe per apprendere a ‘vedere’ l’ambiente costruito e non, al fine di scoprirne l’insita bellezza generatrice di meraviglia.
"L'occhio vede ciò che la mente conosce" ha scritto Goethe e noi, in quelle nostre uscite didattiche, adesso lo so, allenavamo il nostro occhio a riconoscere quanto avevamo imparato a conoscere in aula e sui libri.
Quelle giornate di tanti anni fa mi sono tornate alla mente leggendo il libro di Luca Molinari recentemente uscito da Einaudi, La meraviglia è di tutti. Corpi, città, architetture (pp. 160, € 14).
Così egli scrive nella premessa: “I luoghi che abitiamo e che attraversiamo distrattamente ci offrono possibilità nascoste, l'importante è cercarle, vederle, capire come possano rivelarsi utili per la nostra vita e quella degli altri. Dobbiamo attrezzarci di uno sguardo progettuale che renda il mondo più interessante e il nostro animo più ricco.”
Ed è esattamente a questo che Canella preparava i suoi allievi: li educava ad avere uno sguardo progettuale capace di vedere la bellezza che induce la meraviglia nel mondo che ci circonda, nella natura e nell’architettura, nel quotidiano, insomma, nel quale gli stessi allievi, una volta divenuti architetti, avrebbero magari dovuto intervenire nell’esercizio del loro mestiere. Perché c’è una bella differenza tra guardare e vedere, e ‘saper vedere’ credo sia ciò che tutti, architetti non esclusi, dovrebbero imparare a fare per dare più senso, un senso maggiormente appagante e più profondo, alla propria esistenza, così da non privarla dell’emozione della meraviglia.
Mi soccorre a tale proposito un’altra formativa esperienza giovanile, la lettura del saggio di Bruno Zevi Saper vedere l’architettura (Einaudi, 1948, ristampa 2009), con cui lo storico dell’architettura romano ha educato intere generazioni di architetti (e non) a leggere e a comprendere lo spazio costruito e il suo intorno, per lasciarsi poi soggiogare e avvincere dal gioco sapiente dei pieni e dei vuoti che lo compongono e che lo generano, dai chiaroscuri delle sue superfici, dal fascino delle sue forme, dagli aggetti e dalle rientranze dei suoi volumi, dalle luci e dalle ombre che lo pervadono. Zevi ci ha insegnato a distinguere che cosa sia architettura da che cosa sia, invece, non-architettura: “l’architettura è quella che ha uno spazio interno che ci attrae” ha scritto, “che ci eleva e ci soggioga spiritualmente”, quindi anch’egli sostiene che l’architettura è quel costruito che desta in noi la meraviglia.
Una cosa curiosa, ma alla fine strategica, del libro di Molinari, evocatore di immagini, è che in esso, invece, le immagini mancano del tutto e le varie ‘situazioni ambientali’ o emotive che vi vengono descritte sono richiamate allo sguardo del lettore soltanto dalla forza della parola, con una prosa assai poetica.
A proposito di ciò che non c’è, nelle sue prime pagine viene proprio esaltato il valore simbolico che l’assenza assume in alcune famose Piazze d’Italia: e così, ad esempio, la mancanza di un ‘costruito’ sopra il vuoto sul quale si apre la Piazza Grande di Gubbio, contribuisce allo “stupore che non riesce ad essere contenuto dagli occhi”; oppure l’assenza delle tradizionali cattedrale e palazzo del potere, la cui presenza era invece tipica delle piazze italiane fin dal medioevo, in piazza Alberica a Carrara è sublimata su un suo lato dal maestoso incombere su di essa delle Apuane, che si configurano “come quinta finale, per ricordare a tutti da dove arriva la ricchezza del territorio”; o ancora Marostica “dove le mura medievali della città abbracciano le colline”.
La cesura improvvisa fra l’ambiente edificato e la natura che lo circonda, senza barriere, magari sottolineata soltanto da una siepe, da un basso recinto o addirittura dal nulla rimanda a quel bisogno di Infinito che abita in ciascuno di noi, e che i versi di Leopardi hanno reso immortale.
Come ci ricorda ancora Molinari, è anche nel vuoto creato da una piazza che si apre all’improvviso nella densità del tessuto urbano che l’uomo incontra l’assoluto, è infatti pure là che egli entra in sintonia con ciò che non può controllare, così come gli accade in un giardino segreto, o in un luogo da cui scrutare l’orizzonte.
Ma la meraviglia è suscitata anche dalla bellezza e dall'imponenza dei monumenti. Molinari ci parla delle cattedrali romaniche, del Duomo di Siena, ad esempio, che l’immenso Nicola Pisano rese maestoso. Esso si erge tra le basse casupole che lo attorniano, pronto ad accogliere i fedeli, nella sua vastità mozzafiato. O ancora ci narra della cupola di Santa Maria del Fiore, eretta da Filippo Brunelleschi sul ‘quadrato’ rimasto coperto da tavolacci di legno per più di cento anni dopo la morte di Arnolfo di Cambio, l’eccelso allievo di Nicola, progettista di quella sublime architettura. E fu subito meraviglia. E ancora è meraviglia.
Così scrisse della cupola Leon Battista Alberti nel Prologo al suo De Pictura:
«Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e' popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto?»
E che dire del Palazzo ducale di Urbino? Voluto da Federico da Montefeltro e realizzato da Luciano Laurana prima e da Francesco di Giorgio Martini poi, per la sua vastità e sorprendente armonia è stato definito da Baldassarre Castiglione, nel suo Il Cortegiano «una città in forma di palazzo», la cui meraviglia è un unicum nella storia dell’architettura di tutti i tempi che soltanto un altro genio ha avuto la maestria di reinterpretare in chiave moderna e democratica.
Si tratta di Le Corbusier che ne ha ripreso il principio traducendone in verticale lo sviluppo orizzontale nella sua prima Unité d’habitation, a Marsiglia. Qui, inoltre il maestro svizzero ha rovesciato il concetto urbinate progettando invece un ‘palazzo in forma di città’ che desta meraviglia. Per le sue proporzioni a misura d’uomo nonostante il suo gigantismo (Corbu vi ha applicato il suo famoso Modulor), per la sua audacia statica, per il suo vivace cromatismo e per gli intenti sociali che la informano questa architettura, questa machine à habiter è un imprescindibile caposaldo del Movimento Moderno.
Molinari ci invita poi a riflettere sulla etimologia stessa della parola monumento, che ha in sé la radice del verbo latino monēre, ricordare allo scopo di insegnare, ma che deriva anche dal perfetto latino mĕmīni, ancora una volta con il significato di tenere a mente.
Così ne scrive: “Opere che impressionano per la grandezza e la forza delle loro geometrie, in grado di indurre orgoglio nella comunità che rappresentano e paura in chi si avvicina da straniero”.
Ma la meraviglia può risiedere anche nei dettagli. Nel libro si parla sia delle tele di Domenico Gnoli che esaltava, ingigantendoli, particolari di oggetti domestici o di abbigliamento; sia delle fotografie dedicate da Luigi Ghirri allo studio di Giorgio Morandi e alla casa-studio di Aldo Rossi. In esse “percepiamo un senso chiaro di appartenenza a una storia e a un luogo, ma quella ostinata fissità ci riporta allo stupore per un raggio di sole che entra improvviso in casa nostra”.
E che dire dello stupore e della meraviglia che scaturiscono dall’osservazione dei dettagli, descritti con precisione lenticolare nei quadri dei pittori fiamminghi, da Jan van Eyk a Johannes Vermeer, passando per Rogier van der Weyden e per molti altri?
Perché il sentimento della meraviglia, come ci ricorda Molinari, non ha nulla a che fare con la magniloquenza o con la maestosità delle proporzioni “ma riguarda l’intensità di ciò che riesce a risvegliare, riguarda il desiderio latente che ci accompagna e si materializza nell'incontro con un luogo o un oggetto che sembrava attenderci.”
La meraviglia, inoltre può scaturire da sinestesie. È il caso, ad esempio, dell’architettura intensamente cromatica che Luis Barragán ha disegnato nel 1948 alle porte di Città del Messico, dove lui ha abitato fino alla morte, avvenuta nel 1988. “La meraviglia qui si fonda su una gamma variegata di sensazioni: il colore che sollecita gli occhi e la memoria, la ruvidezza al tatto di un muro, l'odore del legno e dei fiori di oleandro del giardino, il suono leggero delle fronde mosse dal vento e l’eco delle voci lontane che arrivano dalla strada vicina”.
Pure i prodigi della tecnica e della tecnologia possono suscitare meraviglia. Uno dei primi casi in ordine di tempo è sicuramente la Tour Eiffel, progettata dall’ing. Auguste Eiffel per l’Esposition Universelle di Parigi del 1887. Questo gigantesco oggetto ingegneristico che la stampa del tempo ebbe a definire “inutile e mostruoso” ha incantato e ancora incanta milioni di visitatori che lo ammirano, gli occhi e il naso all’insù, una meraviglia assurta addirittura a simbolo della città che la ospita.
E poi c’è la meraviglia che hanno provato i primi uomini abitatori della terra di fronte alla magia della luce e del calore del sole, della pioggia e del vento. Ma anche davanti a quella dell’alternarsi delle stagioni, al punto da aver fatto di esse altrettante divinità da adorare, da temere e a cui immolare sacrifici.
Ecco Aristotele: «Gli uomini, sia nel nostro tempo che dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, perché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovano di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna, del sole e delle stelle, e l’origine dell’universo».
Enrico Berti, studioso di filosofia antica, afferma che il desiderio di conoscenza dell’uomo trae origine proprio dalla meraviglia che fa seguito allo sgomento di fronte ai fenomeni naturali. Il cammino della conoscenza è lungo quanto quello dell’umanità: dall'animismo, infatti, passando attraverso il panico greco generatore del mito, esso giunge finalmente al pensiero scientifico nella continua ricerca di spiegazioni e di soluzioni utili ad acquisire contezza dell’universo mondo.
La meraviglia è un attimo prezioso, intenso e ricco di potenzialità, non si può dire a che cosa ci conduca, ma senza di essa ci sarebbe stato soltanto il nulla.
Nel libro si parla poi della “morte apparente del sentimento della meraviglia” che caratterizza il nostro tempo presente, causata dal bombardamento mediatico di immagini e stimoli stereotipati e dalla “pressione di un immaginario collettivo autogenerato e consumato quasi in tempo reale” che causano un burnout emotivo. Un antidoto contro questa morte apparente della meraviglia è quello di riappropriarsi degli spazi reali che ci circondano e in cui viviamo, rafforzando i nostri meccanismi di consapevolezza critica, guardando alla profusione di immagini virtuali come ad una risorsa, senza soggiacere al loro potere tossico.
E la campagna edilizia che ha caratterizzato l’Occidente nella seconda metà del novecento, con la necessità di creare alloggi salubri e dignitosi per molti, ha richiesto inevitabilmente un processo di razionalizzazione esecutiva e di standardizzazione delle forme che ha messo a dura prova quel concetto di architettura espresso da Bruno Zevi, in alcuni casi addirittura in edifici ‘firmati’, in altri, invece, esso ha trionfato come, ad esempio nei due interventi al Gallaratese di Milano di Carlo Aymonino e di Aldo Rossi, entrambi inesauste fonti di meraviglia.
“Ogni città” scrive Molinari, “è cresciuta dell’otto per cento in soli due decenni, per offrire case servizi a quella massa di persone che premevano per raggiungerla. […] E oggi con questo shock facciamo ancora i conti.”
Il libro è ricco di altri spunti di riflessione, soprattutto relativi alla nostra realtà contemporanea, sociale, ambientale ed urbana, e di interrogativi sul futuro dell’architettura. Dopo i lunghi, disastrosi epigoni del modernismo, si auspica che la cultura del progetto possa “farsi carico di una difficile presa di responsabilità politica e visionaria, per superare l’impasse attuale e rompere definitivamente con la modernità.
[…] Molte esperienze di progetto recenti stanno suggerendo trasformazioni interessanti nelle modalità di intervento sul corpo vivo della città e del paesaggio perché vivere e abitare il conflitto vuole dire anche impossessarsi dei luoghi e trasformarli in laboratori.
[…] La meraviglia deve essere pensata perché possano accoglierla gli occhi di chi vive certi spazi ogni giorno; […] il progetto ha il potere di rendere nuovamente riconoscibili luoghi che abbiamo smesso di vedere per tornare ad abitarli e rifarli nostri modificandoli.”
E se Giambattista Marino, più di quattrocento anni fa, nel suo famoso verso sosteneva che “È del poeta il fin la meraviglia”, controbattiamo, con Luca Molinari che “il senso [e il fine], della meraviglia non è una questione di scala o di ricchezza [e neppure di professione], ma è un’emozione democratica a cui tutti abbiamo diritto.”