Le bugie d’acciaio

2 Giugno 2012

Argomenti curiosamente eterni. Malcostumi ostinatamente presenti. O forse, a ben vedere, atti significanti destinati, per struttura, a inanellarsi su se stessi, proclamando surrettiziamente la loro verità. Anche e soprattutto quando mentono. È il caso della parata militare del 2 giugno, ogni anno pronta a suscitare dubbi e dibattiti, a ripetersi nonostante tutto, mostrando suo malgrado le proprie verità, le proprie bugie. Lo abbiamo visto in questi ultimi giorni, lo vediamo da tempo.

Vale la pena allora rileggere un articolo che Umberto Eco dedicava esattamente a questi temi sull’Espresso nel 1970. Un testo dimenticato, raccolto da Eco nel volume del ’73 Il costume di casa e mai più ristampato. Questo articolo fa parte dell’imminente e-book di doppiozero che, in occasione della ripubblicazione dell’intero Costume da Bompiani alla fine di giugno, presenterà una scelta dei più interessanti pezzi presenti nel libro. Tutti legati da un principio ideale che è un ossimoro retorico: il classicismo dell’attualità.

 

Gianfranco Marrone

 

 

Le bugie d’acciaio

 

I giornali hanno parlato della recente parata militare per la festa della Repubblica come della più bella e completa dalla Liberazione a oggi, e in un paese così portato, come il nostro, all’improvvisazione disorganizzata, ogni prova di buo­na organizzazione deve sempre essere fonte di grande gioia. Ma il discorso che si voleva fare parte solo occasionalmente dalla parata romana e investe il concetto (e il rituale) della parata militare moderna in genere, sia che essa si svolga sulla piazza Rossa che sui Champs Élysées. Cosa è una parata militare? Uno spettacolo in cui da un lato si offre al pub­blico interno una rassegna di belle divise, nappine, stendardi, fanfare e camminate coreografiche, ma dall’altro si offre a chiunque, compresi gli osservatori esterni (e quindi gli stra­nieri), una informazione concernente una situazione di po­tenza ed efficienza. “Vedete,” si dice, “abbiamo tanti can­noni, tanti missili, tanti paracadutisti, eccetera.” Se una pa­rata non mirasse anche a questo fine, tra il propagandistico e il deterrente, non avrebbe senso. Infatti il Vaticano, che ha splendide divise, ma scarso potere militare, non fa parate mi­litari, e fa invece parate religiose ad alta funzione deterrente, che dichiarano illimitati poteri di legare e sciogliere, in terra come in cielo, il tesoro di meriti del Corpo Mistico, il Trat­tato Cosmico della Comunione dei Santi e così via.

 

Ma qui nasce la contraddizione della liturgia e della mito­logia della parata militare. Perché la parata tende a dare un’informazione proibita. Infatti qualsiasi cittadino che (per lettera, con manoscritto in bottiglia, con messaggio radiofo­nico cifrato, sottolineando parole chiave nella Bibbia, attac­cando un rotolino di carta alla zampa di un piccione, nascon­dendo un microfilm nel nodo della cravatta, eccetera) trasmet­tesse a terzi informazioni sulla consistenza delle forze nazionali (quanti aerei, quanti missili, quante vivandiere) verrebbe im­mediatamente processato per spionaggio. Pensate, Nasser fa una parata per dire che ha tanti fanti e tanti aerei da combattimento, ma appena qualcuno dalla tolda di una nave mercantile gli fotografa anche una sola caserma, lo spedisce in galera. E qualsiasi tribunale civile e militare in qualsiasi paese detto civile si comporterebbe nello stesso modo.

 

Quindi la parata militare ostenta di dichiarare qualcosa che non si può e non si deve dichiarare. Siccome non si può supporre che i responsabili degli eserciti e i vari ministeri della difesa pratichino l’intelligenza col nemico, questo significa che le informazioni date da una parata militare sono false. Una parata “deve” denunciare una forza maggiore o minore di quella reale, altrimenti è una manifestazione di alto tradi­mento. In termini retorici una parata o costituisce una litote (come quando si dice di una persona intelligente che “non è poi tanto stupida”) o una iperbole (come quando si dice di un ragazzo robusto che “è un gigante”). Se dicesse il vero sarebbe un esempio di preterizione (“Per non parlare poi della nostra forza ...”; e se ne parla). Una preterizione, nell’universo delle parate militari, costituisce un atto di spionaggio.

 

Allora si assiste ogni anno e in ogni paese all’evento para­dossale di tutti i cittadini e delle massime autorità degli stati interessati che vanno ad assistere, con aria compunta e fiera, alla celebrazione di una bugia. Bugia talmente autorevole che anche i commentatori politici stranieri ci credono con tutta l’anima e pubblicano articoli magari preoccupati sulla “im­pressionante manifestazione di forza data dalla Russia, dalla Cina, dalla Francia (cancellare la menzione che non interessa) in occasione della celebrazione del primo maggio, del quattor­dici luglio, del due giugno (cancellare la menzione che non ­interessa)”.

 

Tutto questo farebbe pensare che i veri rapporti di forza non si stabiliscono in occasione delle parate, ma in occasione delle guerre, quando i rapporti di forza sono dati dal numero di morti rimasti sul terreno. Ma anche qui le dichiarazioni retoriche possono avere sempre la meglio sui dati “oggettivi”, e se non bastassero locuzioni celebri come “ripiegamento tattico” basti almeno ricordare il telegramma con cui l’ammi­raglio Persano, finita la battaglia di Lissa, annunciava a Roma che la flotta nemica, dopo avergli colato a fondo metà delle sue navi, se ne era andata a casa: “Siamo rimasti padroni delle acque.”

 

Tutto questo fa pensare alla deliziosa analisi che Arbasino, sull’ultimo numero di “Ulisse” dedicato all’erotismo, ha fatto delle locuzioni indicanti operazioni sessuali e operazioni mortali. Uccidere è proibito, ma se ne può parlare senza essere riprovati; copulare è un genere permesso, ma parlarne è giu­dicato scorretto. Per cui si può dire “il tale uccide” ma non “il tale fotte”, mentre di converso ci si può unire sessualmente con quel tale ma non ucciderlo. L’omologia con la retorica bellica è puramente formale: però anche qui si verificherebbe una inversione mistificatrice tra quello che si fa (o che si può fare) ma non si dice, pena la morte, e quello che non si fa (o non si può fare) ma si dice, premio la gloria.

 

 (Da“L’espresso”, 1970, ora in Il costume di casa, Milano, Bompiani 1973, pp. 40-42)

 

 

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