Le nuvole e la griglia

26 Gennaio 2015

Se la retrospettiva di Mark Rothko al Gemeentemuseum de L’Aia ha poco di sorprendente – le opere provengono in gran parte dalla collezione permanente della National Gallery di Washington DC – vi è almeno una ragione a renderla unica. I dipinti di Rothko sono esposti all’architettura di H.P. Berlage e alla pittura di Piet Mondrian, ovvero non sono passivamente esposti in uno spazio dato ma attivamente esposti a un contesto, quello dell’arte e dell’architettura olandesi. Penso alla sala Mondrian, allestita nello stesso museo nella retrospettiva De Stjil, ma anche all’ultimo dipinto di Rothko esposto accanto all’ultimo Mondrian, Victory Boogie Woogie (1944). Questo paragone è il culmine di una sala in cui scorrono sulle pareti laterali diverse opere dei due artisti, in una cadenza visiva libera da stringenti associazioni formaliste.

 

Cataclisma in rosso

 

Tanto celebrato è l’ultimo dipinto di Mondrian quanto sconosciuto quello di Rothko: una tela incompiuta di un rosso acceso, poggiata sul cavalletto del suo studio la mattina del 25 febbraio 1970, quando l’artista si tolse la vita con due profonde incisioni sotto le braccia, secondo alcune testimonianze un rituale accuratamente studiato. Fu difficile non vedere un rapporto tra l’arte e la vita, tra il colore della tela e la pozza di sangue in cui fu ritrovato. Le dimensioni dell’opera sono ridotte rispetto ai Rothko classici: meno una scelta estetica che una prescrizione medica al fine di non affaticare ulteriormente un corpo già debilitato.

 

veduta della mostra

 

Associazioni biografiche a parte, quest’opera richiama uno dei rarissimi monocromi dipinti dall’artista, rappresentato a sua volta all’interno di Thru the Window (1938-39), fuori scala rispetto al resto e non toccato dagli sguardi dei due personaggi.

Tuttavia c’è un tratto specifico del dipinto del 1970, evidente quando lo si osserva dal vero: la banda che ripartisce le due zone di colore è più alta che d’abitudine, per la precisione all’altezza dello sguardo. Dopo aver tentato diverse configurazioni, la banda si era stabilita al di sotto di 1,60m. È grazie a questo espediente che i suoi dipinti non s’impongono, che la loro presenza si dispiega lentamente sotto gli occhi dello spettatore non frettoloso.

 

L’altezza della banda era una questione decisiva per il destino dell’arte astratta. Nello spazio di pochi centimetri si giocava infatti il rapporto con la pittura di paesaggio, sulla quale i critici di Rothko non hanno mai smesso d’insistere. Ancora nel 2008, nella retrospettiva alla Kunsthalle di Amburgo, accanto ai Rothko s’imponeva il Friedrich più iconico, il Viandante sul mare di nebbia. Eppure, come altri pittori astratti dell’epoca, Rothko ha sempre negato di rappresentare paesaggi (“there is no landscape in my work”) [1]: la banda mediana riverbera quella dello sguardo esterno piuttosto che dividere il cielo dalla terra. Come evitare che il dipinto si trasformasse in un paesaggio rarefatto, nel compimento – estremo quanto coerente – della rappresentazione della natura romantica?

 

Il dipinto del 1970 dilegua ogni riferimento naturalistico. Nessun ersatz della pittura di paesaggio. La banda, troppo alta per suggerire una divisione primordiale tra cielo e terra, s’impone come una sbarra minacciosa giusto all’altezza dello sguardo. Se non lo acceca, gli impedisce nondimeno di accedere alla profondità illusoria della superficie pittorica. Detto altrimenti, blocca l’esperienza che molti associano alla pittura di Rothko, quel giocare a fare i viandanti in un mare di colore.

 

L’affronto di Rothko rimontava almeno al 1959: “Look again. I am the most violent of all the New Americans. Behind the color lies the cataclysm” [2]. Senza dubbio una reazione a quanti lo consideravano un colorista sull’asse francese Bonnard-Matisse. Il suo ultimo quadro mostra un’immagine di tale cataclisma, con una linea mediana che confonde ogni elementare rapporto antropomorfico tra il sopra e il sotto, la testa e i piedi. Quante volte, del resto, i quadri di Rothko sono stati esposti e pubblicati sottosopra? Più che l’incuria dei curatori, era il segno di un’ambiguità produttiva insita nella sua pittura.

 

Mark Rothko, Thru the Window, 1938-39

 

 

La griglia e le nuvole

 

Tra il Mondrian e il Rothko corrono meno di trent’anni. Nella storia della pittura del XX secolo, questi due artisti segnano una di quelle coppie antinomiche che aiutano a orientarsi, un po’ come Duchamp/Malevich. Una coppia davanti alla quale bisogna prendere posizione, perché ne va di un’idea dell’astrazione, di una visione del modernismo. Da una parte la razionalità, la ragion pura, il calcolatissimo bilanciamento di elementi asimmetrici, la loro messa in tensione; dall’altra un mondo che ha la stessa consistenza dell’impronta che i bicchieri lasciano sul tavolo. Mondrian e Rothko, la griglia e le nuvole. Che Mondrian fosse evocato per mettere in risalto, a contrario, la specificità di Rothko non è sorprendente. Conosciuto negli Stati Uniti sin dal 1926 grazie a Catherine Dreier, Mondrian trascorse a New York gli ultimi quattro anni della sua esistenza (1940-44).

 

Qui conobbe un’effervescenza creativa straordinaria, al cospetto di un’Europa in guerra e al termine di un esilio – nel 1938 è a Parigi, nel 1939 a Londra – che aveva rallentato la sua ultima serie. Qui si liberò dagli ultimi cascami dell’espressionismo, dalla griglia cubista come armatura soggiacente alla composizione pittorica, dai retaggi linguistici di De Stijl. Qui si allentò quella purezza spesso associata al suo nome. Qui rivoluzionò l’attenzione che si porta a un dipinto, la priorità del centro della composizione a discapito dei margini. Nei suoi dipinti la trama di bande e riquadri cromatici crea una superficie multi-focale e non gerarchica. Non solo: le bande proseguono al di là dei margini della tela, evidenziandone lo spessore e quindi la sua natura oggettuale, il suo esser parte integrante della realtà a discapito della sua bidimensionalità illusoria. E che lo spessore delle bande e quello della tela coincidano non fa che rafforzare l’effetto (una lezione sviluppata da Frank Stella).

 

Nonostante provenisse da un mondo culturale estraneo a quello americano, Mondrian diventò presto un’imprescindibile pietra di paragone, un artista con il quale misurarsi per affermare la propria originalità. Penso a Who’s Afraid of Red, Yellow and Blue (1966-70) di Barnett Newman, un ciclo di opere programmatiche se non un esorcismo contro l’influenza dell’olandese. E a Mondrian vennero opposti, sin dagli anni quaranta e in linea con l’agenda artistica, Duchamp, Picasso o Pollock (come ha ben ricostruito Barbara Rose).

 

Fu così che, non appena Rothko trovò il suo formato classico con la ripartizione delle zone di colore, Mondrian diventò un paragone scomodo se non un antidoto. Quella di Mondrian era la “vera” astrazione, più compatta, rigorosa, ridotta ai colori primari, senza alcun compromesso rispetto al crepuscolo dei paesaggi slavati di Rothko, e così via. Quando Rothko espose alla Sidney Janis Gallery nel 1955 – una delle mostre più decisive nella carriera dell’artista – Emily Genauer, poco convinta dai suoi dipinti (“Rothko pictures get bigger and bigger and say less and less”), scrisse persino che sembravano dei Mondrian sfocati e fuori formato [3]. Per chiosare, dei Mondrian osservati da un miope (come lo era Rothko) che ha dimenticato gli occhiali.

 

Da Michel Butor (1961) al nostro Argan (1963), non mancano i tentativi di leggere la pittura seriale di Rothko in rapporto alla compenetrazione tra pittura e architettura di Mondrian. Ma alle lunghe questo parallelo non ha giovato a Rothko. Gabriel Orozco ad esempio li accomuna per il loro afflato mistico, escludendoli perciò da una sua mostra virtuale in cui figuravano Lygia Clark, Joseph Albers, Agnes Martin, André Cadere, Kurt Schwitters, On Kawara: “I didn’t include a Mondrian or a Rothko because I wanted to stay away from the spiritual rhetoric so often attached to their abstractions. What I’m after has to do with the physicality of perception, the feeling you get looking at something real, like the ocean” [4]. E pensare che quell’oceano era al cuore dei dipinti “più e meno” di Mondrian!

 

 

Mark Rothko, Untitled, 1969

 

 

Sensualità delle diagonali

 

Prima o poi qualcuno doveva interrogare Rothko riguardo Mondrian. Non appena William Seitz ne evoca il nome, nel corso di un’intervista del 1952, Rothko sembra cadere dalle nuvole: non ne era consapevole. Presto si corregge: “Non ho mai provato interesse per Mondrian”. “Più tardi”, scrive Seitz, “mi ha confessato, per scherzare, che in un’occasione pubblica aveva rimproverato Mondrian di essere un pittore osceno”. Mondrian osceno? Chissà con quali parole Rothko esprimeva il suo astio – inscindibile dalla sua incomprensione – verso la pop art. Di seguito: “Le mie nuove superfici non hanno alcunché da spartire con lo sfondo tripartito dello stile simbolico. Non ci sono [cfr. la discussione in cui sostiene: ‘sono diverso da Mondrian perché lui divide la tela’]. Le mie ultime superfici di colore sono delle cose. Le stendo sulla superficie. Non raggiungono il bordo, si fermano prima”. Fino all’affondo finale: “Mondrian divide la tela; io ci metto delle cose sopra”.

 

A Mondrian Rothko sembra finalmente preferire Hopper: “I hate diagonals, but I like Hopper’s diagonals. They’re the only diagonals I like” [5]. Le uniche diagonali tollerate rispetto, è implicito, alle losanghe di Mondrian, di cui Victory Boogie Woogie – oggi esposto a L’Aia accanto alle sue opere – è il caso magistrale.

 

Ora, conversando nel suo atelier in compagnia dell’amico-artista Alfred Jensen, la reazione di Rothko si fa più sfaccettata: il confronto con Mondrian è una legittimazione all’interno della storia dell’arte: “Che alcuni trovino nei miei dipinti delle somiglianze con il lavoro altrui, prova soltanto che la mia opera sta occupando il posto che le spetta nello sviluppo della storia dell’arte”. Poco prima, in modo più incisivo: “Non mi sono mai stancato di ripetere ai miei studenti che Mondrian era capace di accarezzare, con attenzione indefessa, una superficie bianca e che davanti ad alcuni dipinti poteva protrarre questo processo per un anno intero. A mio parere Mondrian è stato uno dei più grandi sensualisti che siano mai esistiti. E questa qualità sensuale che sprigiona da lui si manifesta nonostante non sia un colorista” (17 giugno 1953).

 

Mondrian, l’austero teosofo, un sensualista? cosa intende esattamente Rothko con questo giudizio, più pacato rispetto all’oscenità prima evocata? Che nasconda un tentativo di riappropriarsi, di portare dalla propria parte della barricata un antagonista con cui era pericoloso confrontarsi?

 

Piet Mondrian, Victory Boogie Woogie, 1944, particolare

 

 

Dal progetto al processo

 

Finisco di visitare la mostra del Gemeentemuseum senza sapere bene cosa pensare dell’accostamento Rothko-Mondrian. Percorro distrattamente la mostra di de Stijl al piano terra del museo, più o meno la stessa della Tate di Londra e del Pompidou di Parigi. Più che visitarla, mi sfido a riconoscere le opere presenti o assenti nelle altre sedi finché, assorbito in questo esercizio ozioso, attraverso un corridoio di maquettes. Riconosco lo studio parigino di Mondrian, quello a 26 rue du Départ (oggi distrutto), ricostruito in scala 1:1 in occasione della grande retrospettiva al Pompidou. Una seconda maquette ricostruisce la sua casa-atelier newyorkese, utilissima perché le foto disponibili non restituiscono bene l’articolazione dello spazio interno.

 

Non c’è artista newyorkese che non abbia visitato questa casa-atelier da quando, scomparso Mondrian, Harry Holtzman, fondatore dell’AAA (American Abstract Artists), ne recuperò le chiavi. E non c’è artista che non abbia tirato profitto da quest’ingresso letterale nell’universo Mondrian, nel suo spazio domestico non meno accurato delle superfici pittoriche, in un quadro a tre dimensioni, primo passo verso la conquista della realtà esterna. E che questo fosse un luogo ideale per un celibe come Mondrian, e poco ospitale per gli altri, è un’altra storia.

 

Il modellino dell’ultimo appartamento di Mondrian è così meticoloso che m’illudo di penetrare al suo interno, non solo con lo sguardo e con l’obiettivo fotografico ma – lillipuzianamente – con tutto il corpo, come se fossi non a L’Aia ma a New York, non nel 2014 ma nel 1944. E da questo appartamento non voglio più uscire. Evolvere nello spazio domestico mi diverte, così come passare da una stanza all’altra inseguendo i rettangoli colorati appesi alla parete, che si manifestano come flash di un film astratto trasfigurando l’enclos dell’abitato. L’aria giocosa evoca l’opera tarda di un altro grande artista, le gouaches découpées di Matisse.

 

Immagino le notti trascorse da Mondrian a spostare i ritagli di colore di qualche centimetro, a ricomporre un puzzle di cui forse neanche lui aveva l’immagine mentale. Immagino Mondrian suonare dischi di boogie-woogie sul suo giradischi rosso, ballare da solo tenendo un occhio alle pareti per osservare l’effetto dei suoi quadrati su uno spettatore in movimento. Immagino Mondrian gioire all’idea di aver mandato in frantumi l’immobilità della storia della pittura.

 

Quella del tardo Mondrian è una razionalità nervosa, risolta nell’azione, lontanissima dal farsi sistema, che prolifera come il Merzbau di Schwitters, per prendere l’esempio più lontano che possa immaginare. In finale, è riduttivo considerare Victory Boogie Woogie come una tela incompleta. Nel passaggio dal progetto al processo del Mondrian transatlantico (come ha ben visto Yve-Alain Bois), questo processo diventa in realtà inesauribile. Coerentemente, gli schizzi preparatori sono trasposti sulla tela stessa, su cui l’artista applica dei nastri adesivi colorati che possono essere facilmente – e indefinitamente – spostati.

 

Lo spazio della tela a losanga si anima, si dinamizza e le linee s’intersecano sulla tela bianca come le Streets e le Avenues di Manhattan. L’analogia topologica è suggerita anche dal fatto che Mondrian dipingeva poggiando la tela su un tavolo orizzontale (come faceva anche Ad Reinhardt per i Black paintings). Il cavalletto era un banco di prova per soppesare le relazioni reciproche tra i tasselli cromatici, una pausa tra due stati diversi di un processo in cui composizione ed entropia sembrano confondersi.

 

  

veduta della mostra, Studio di Piet Mondrian di New York

 

 

Far danzare la realtà

 

Rothko aveva ragione: Mondrian era un sensualista. Uscendo dall’atrio del Gemeentemuseum, con quell’architettura in mattoni che ricorda una piscina, mi chiedo in finale se lo stesso possa dirsi del primo: Rothko un sensualista? Prima di quell’ultimo monocromo rosso, nel 1964 realizza i Black paintings nonché la serie di dipinti neri e grigi, spesso usando l’acrilico, rinunciando alla vibrazione cromatica che aveva segnato i suoi signature paintings. Il 1964 è lo stesso anno della Rothko Chapel, ottagonale come un battistero, costituita da dipinti colossali – tetri e tetragoni – che si sostituiscono alle pareti. Lo spettatore gira in tondo come in un panorama notturno, senza sapere dove poggiare lo sguardo o, meglio, dove “sbattere la testa”, per citare la sensazione provata da un Rothko estasiato nel vestibolo della biblioteca Laurenziana di Michelangelo. I dipinti della Rothko Chapel sono esiziali aperture nel vuoto, lapidi che ripugnano o inducono al raccoglimento, un soffio di morte nel cuore di Houston. Ma a queste latitudini a trionfare è sempre il sole texano, così forte da aver trascolorato irrimediabilmente la patina dei dipinti. A dir il vero il sole li ha quasi bruciati – come le radici degli alberi che spaccano i marciapiedi di cemento.

 

Agli antipodi Mondrian, installatosi nella griglia urbanistica di Manhattan, che dei suoi dipinti è la cartografia, vive un periodo euforico: i colori schizzano fuori dalla superficie della tela e si animano sulle pareti del suo appartamento, per quanto (tanto più) ristretto sia il suo vocabolario cromatico (giallo, rosso, blu) e formale (il quadrato).

 

Al vertice della loro carriera, nel pieno controllo dei loro mezzi espressivi, Rothko e Mondrian non si stancano di sperimentare, a costo di contraddire il loro stile. Rothko scelse il lamento funebre della cappella di Houston, che Morton Feldman ha saputo magistralmente interpretare, con il suono della viola appeso a un filo, sul punto di inabissarsi sotto la soglia dell’udibile. Mondrian, teso alla costruzione di un “ritmo dinamico” successivo alla “distruzione della melodia”, scelse un assolo sincopato e scoppiettante di boogie-woogie con cui fece danzare la realtà.

 

Rothko Chapel, 1971

 

 

 

[1] Mark Rothko in Anna C. Chave, Mark Rothko: Subjects in Abstraction (New Haven and London: Yale University Press, 1989), 128–129.

[2] Rothko a Brian Corney, 1959, in Chris Stephens, Mark Rothko in Cornwall, Tate St. Ives, 1996, p. 10.

[3] Emily Genauer, New Rothko Mysteries, in «Herald Tribune», Apr 17, 1955.

[4] Gabriel Orozco, Impact and Satori. Instruments of Comprehension, in «Artforum», november 2001, pp. 118-123, cit. p. 120.

[5] In Brian O’Doherty, American Artists. The Voice and the Myth, New York 1973, p. 24.

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