Le rovine di Boris Johnson
Le dimissioni di Boris Johnson non sono il capitolo finale dell’isolazionismo britannico. Brexit è stato l’episodio più evidente di una società che pare dilaniata da distanze e solchi enormi, dove Scozia e Irlanda del Nord sono governate da maggioranze separatiste e dove a profitti da capogiro nella City fanno da specchio le sempre più numerose food banks, per alleviare l’impressionante povertà di ampie aree del paese. Il Referendum ha fotografato sentimenti molto sgradevoli che covavano da tempo in Gran Bretagna. Johnson li ha fomentati e interpretati tutti, ma non li ha inventati.
Al fondo c’è la delusione del vedersi simile ai vicini per la dimensione della popolazione, il PIL e tutte le altre misurazioni che stabiliscono quanto è grande un paese. Dopo aver vinto la guerra, dopo un impero non improvvisato come quello di Mussolini, l’uguaglianza è percepita come un torto e provoca sentimenti difficili: ostilità, un senso di superiorità, una narrazione che dalla seconda guerra mondiale fino alle interminabili avventure di James Bond, cerca di ribadire un’eccezionalità britannica contro un mondo di malvagi, che siano i politici russi, i mafiosi italiani, i promiscui francesi o i trafficanti di droga sudamericani. Sono sentimenti che derivano direttamente da Churchill e proiettano nel mondo l’apartheid sociale che esiste all’interno della Gran Bretagna.
Ma oggi non c’è più un impero britannico, c’è invece una rete di interessi finanziari che passano attraverso il sistema bancario inglese che è tra i più potenti, ma anche tra i più sinistri del mondo. Questa è al tempo stesso la forza di un’economia di servizi, e una debolezza per la società. Se Brexit ad esempio fosse davvero stata congegnata, come sostengono alcuni coraggiosi giornalisti inglesi, dalla Russia come primo tentativo di smembrare l’Europa (e certo in linea con la politica estera del Cremlino che sostiene tutti i sovranisti europei, da Salvini alla Le Pen), Johnson non sarebbe stato altro che la foglia di fico di una partita molto più grande di lui.
Purtroppo la sensazione che la personalità di Boris Johnson fosse essenzialmente debole, facilmente seducibile dal denaro, dalle donne e dalla propria vanità, avvalora questa ipotesi. Un uomo in sostanza senza una propria direzione per cui l’intelletto equivale alla capacità di argomentare qualunque cosa a proprio vantaggio piuttosto che di vedere quali interessi agiscano attraverso di lui. Celebre è stato il fatto che alla vigilia di Brexit avesse scritto un articolo a favore e uno contro il referendum, ma tutta la sua premiership è stata segnata dalla contraddittorietà che ha alla fine attorcigliato la Gran Bretagna su se stessa.
Il giorno prima delle dimissioni, in una sessione speciale del parlamento, gli è stato però chiesto direttamente se avesse o non avesse incontrato un certo funzionario del KGB. Qui i tentennamenti, le contraddizioni, le scuse iniziano a crollare. A questo punto diventa anche difficile chiudere un occhio sull’aspetto apparentemente confuso e pasticcione, lo stile stravagante, la poltiglia di una vita privata che si distingue poco da quella pubblica: l’ultima moglie, Carrie Symonds, lavorava per il partito.
Un’altra americana, Jennifer Arcuri, sembra sia stata ampiamente favorita da lui mentre era sindaco di Londra. Non si è mai capito nel suo entourage chi fosse amico e per quanto, quasi si trattasse non del governo ma di un gruppo di compagni di scuola. La confusione morale tra quello che è privato e quello che non lo è alla fine ha trascinato l’intera Inghilterra nella casa di Boris Johnson, nei suoi affari sentimentali e nei suoi conti domestici, con carte da parati da 800 sterline al rotolo o ultimamente, se non fosse stato sconsigliato dai servizi segreti, il progetto di una casetta sugli alberi per i bambini nella residenza di campagna per 150.000 sterline. Queste spese venivano finanziate da donazioni, ma perché e da chi? Quello su cui alla fine è caduto è proprio lo stile così casuale in cui queste vicende si sono svolte, dalle feste durante il lockdown del Covid al suo chief whip, che pare abbia palpeggiato ubriaco due uomini.
Il contesto è quindi, un po’ come per Trump, lo stile privato, trasgressivo e sopra le righe, che è traboccato in politiche disastrose e allegramente nepotiste, al punto che le famiglie delle vittime del Covid chiedono oggi un’indagine parlamentare sul modo in cui è stata affrontata l’emergenza e su come siano stati assegnati i numerosi contratti per vaccinazioni, tracciamento e via dicendo.
Certo, chi conosce l’Inghilterra sa che c’è molto altro oltre all’ondata nazionalista di questi anni. Un senso del valore del talento individuale, un rispetto per la libertà personale che gli altri europei hanno difficilmente raggiunto. Oggi è difficile però non vedere quello che accade in Gran Bretagna come conseguenza di alcuni mali di lunga durata: innanzi tutto il sistema educativo, che sceglie le proprie classi dirigenti da una manciata di scuole private e che inevitabilmente proietta all’interno della propria società quello stesso senso di privilegio che ha animato la campagna Brexit contro i vicini europei. A volte si è avuta la sensazione che alcuni dei protagonisti del governo esagerassero, come quando Rees-Mogg si stese sulle panche imbottite di Westminster mentre gli facevano delle domande, come fosse nel salotto di casa propria e non in parlamento.
Un sistema selettivo basato sul censo promuove un’idea di cosa sia la conoscenza profondamente sbagliata: non la relazione tra individui e società, che è come funziona qualunque centro di ricerca, che sia una scuola o l’università, ma la convinzione che sia possibile chiudere in un castello i più ricchi, convincendoli di essere per questa ragione anche più intelligenti.
Un po’ come i maghetti di Harry Potter. Questo produce inevitabilmente un senso di entitlement, che in italiano potremmo tradurre di diritto legato al privilegio, che riverbera in tutta la società britannica. Carlo Cattaneo osservava già a metà dell’ottocento che gli inglesi amano fare soldati e generali. Manca il senso di comunanza, di medesimezza umana, come lo chiama Gramsci, e questo snobismo porta a una strana idea di popolo, che si regge sulla demagogia di cui Johnson è stato campione.
La retorica antieuropea, che Johnson aveva anche come giornalista prima di entrare in politica, è anche il problema di avere a che fare con vicini che si considerano nostri pari. Ma qui il conto che presenta l’ex impero britannico è molto più salato: la memoria dello schiavismo, che è stata una delle sue principali risorse economiche nell’epoca imperiale, ha lasciato tracce profonde nei rapporti con i diversi paesi del Commonwealth. Come gli ha ricordato recentemente Amartya Sen, gli inglesi non trovano nelle ex colonie la gratitudine che amano immaginare. Al contrario, c’è spesso risentimento.
I figli di emigranti che sono protagonisti della prima fila del partito conservatore di oggi (Rishi Sunak, Priti Patel, Sajid Javid), raccontano la storia di un possibile successo delle seconde generazioni, ma sono anche il segnale di una società profondamente divisa lungo le linee razziali. La politica sull’immigrazione di Priti Patel è stata caratterizzata da una xenofobia e un disprezzo della vita dei migranti al cui confronto Salvini impallidisce. Ha schierato la Marina Militare nella Manica contro i clandestini, per non dire la follia del progetto di rispedire i migranti in campi costruiti in Rwanda, che ha scatenato le proteste persino della chiesa anglicana e del principe Carlo.
Questo è purtroppo il tratto più inquietante anche dello stesso Johnson. Gli accordi economici dell’unione europea sono freddi accordi commerciali. La disinvoltura con cui sorvola sui dettagli del protocollo appena firmato con l’Irlanda mostrano cosa gli interessa. Non i conti economici ma la sete dell’elettorato separatista che è invece profondamente ideologica: una riedizione della seconda guerra mondiale, gli irlandesi che non contano nulla (Johnson si è riferito a loro come la coda che scuote il cane), gli avversari cattivi, inferiori, e la loro umiliazione.
L’Inghilterra ha nel novecento anche mostrato la dolorosa nevrosi che nasce da questi rapporti sociali, sia all’interno che con il mondo. Da Philip Larkin ai Beatles, da R.D. Laing a Ken Loach tante, magnifiche voci hanno mostrato le sfaccettature complicate di una società che si regge come poche sulla opposizione delle classi sociali. La Thatcher e Johnson hanno al contrario dato voce alla vena più feroce, conservatrice, xenofoba. Johnson, guidando la separazione dall’Europa, ha purtroppo lasciato un’eredità istituzionale terribile. Ci vorrà almeno una generazione per riparare il danno che ha fatto nel proprio paese e nei rapporti con i vicini.