La costruzione televisiva della memoria / L’eterno presente delle “Notti Magiche”

29 Giugno 2021

Sono le 11,30 di sera del 26 giugno 2021. L'Italia ha appena battuto l'Austria per 2-1 negli ottavi di finale dei campionati europei di calcio, dopo due tempi supplementari. È stata una sfida sofferta e l’euforia è tanta fra gli appassionati, compresi quelli impegnati a intrattenere il pubblico televisivo nella seconda serata di Raiuno. Cominciano i collegamenti in diretta dalle piazze delle più grandi città del paese. Sono ormai una consuetudine del post-partita: un giornalista è sommerso da una folla esultante e chiede qualche parere alle persone avvolte dalle bandiere tricolori. Si avvicina al microfono un ragazzo molto giovane. Ha forse meno di venti anni e urla senza risparmiare la voce: “È bellissimo vivere questa gioia, sembra di essere tornati all'atmosfera di Italia ’90”. La frase può sorprendere gli spettatori, ma è lo stesso giovane a chiarire: “Non ero ancora nato. Poco importa, so bene quello che succedeva allora”. Fra i conduttori in studio si intravede un momento di imbarazzo, anche perché fra gli ospiti fissi della trasmissione (“Notti europee”) c’è Luca Toni, che ha vinto un mondiale nel 2006 e potrebbero legittimamente sentirsi dimenticato. Un giornalista cerca di cavalcare il momento con una battuta, premiato dalle risate dei colleghi. Tuttavia l’episodio ha rivelato, nel giro di pochi secondi, un meccanismo che descrive in maniera profonda il rapporto fra nostro ecosistema mediatico e la costruzione della memoria collettiva.

 

Negli ultimi mesi, i prodotti cinematografici e televisivi incentrati su narrazioni sportive si sono moltiplicati con una frequenza più alta del solito. La scomparsa di campioni del passato come Diego Armando Maradona e Paolo Rossi ha portato al culmine una stagione di rievocazioni favorita dall'epidemia di Covid-19, che ha fermato il presente e ci ha catapultati nel passato, in un susseguirsi di repliche di partite mondiali, giri d'Italia, tornei di tennis e gare olimpiche di ogni epoca. Anche la prospettiva di una ripresa dell’attività agonistica e di un ritorno negli stadi, tuttavia, non ha fermato questa tendenza. La piattaforma Sky ha intrattenuto i suoi numerosi abbonati con la miniserie “Speravo de morì prima”, incentrata sugli ultimi mesi della carriera di Francesco Totti. Netflix ha risposto con “Il Divin Codino”, il film di Letizia Lamartire che ha raccontato la vita e la carriera di Roberto Baggio. Proprio quest’ultimo – reputato da molti esperti il miglior calciatore italiano di tutti i tempi e ormai consegnato al mito – è tornato a catturare l’attenzione della musica leggera, dopo aver ispirato composizioni di Lucio Dalla e Cesare Cremonini. Al trentanovenne Diodato (vincitore del Festival di Sanremo del 2020) è stata affidata parte della colonna sonora del recente lungometraggio, mentre i Pinguini Tattici Nucleari hanno ricordato nel loro tormentone estivo “Scrivile scemo” che “ci vuole coraggio nel ’94 ad essere Baggio”. Scorrendo le biografie dei membri della band, scopriamo che molti di loro sono nati proprio nell’anno dei mondiali di calcio disputati negli Stati Uniti. Difficilmente possono aver accompagnato con gli occhi il pallone calciato da Roberto nella curva del Rose Bowl di Pasadena nell’ultimo atto dell’interminabile sfida al Brasile, ma quel momento è presente nel loro immaginario, ormai allineato con quello di tantissimi italiani. Il clima da revival che permea la nostra cultura è stato infine impreziosito, negli ultimi giorni, proprio dagli “azzurri” della nazionale di Roberto Mancini, ripresi dalle telecamere mentre intonavano “Notti magiche”, il celebre brano di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato che fece da colonna sonora al mondiale italiano di un’estate di 31 anni fa.   

 

Non dovrebbero stupirci queste rievocazioni del passato da parte di chi non lo ha vissuto in prima persona. Un ruolo importante è giocato dalla televisione che, pur inserendosi in un complesso sistema di interazioni fra diversi mezzi di comunicazione, è ancora capace di contribuire in maniera decisiva alla costruzione sociale della memoria, plasmando le percezioni della collettività e talvolta anche il suo rapporto con la conoscenza storica. La diffusione capillare di internet ha certamente cambiato alcune dinamiche, ma il piccolo schermo – come hanno sottolineato di recente Yochai Benkler, Robert Farris e Hal Roberts nel loro “Network Propaganda: Manipulation, Disinformation and Radicalization in American Politics” (Oxford University Press, 2018) – continua a essere un catalizzatore per i flussi comunicativi del XXI secolo, mantenendo la capacità di scrivere parte dell’agenda degli altri media e di influenzarne l’operato. Il passato rimane quindi un pretesto per affrontare le priorità del presente, spesso riluttanti alle analisi diacroniche e meglio predisposte a un racconto drammatico destinato a essere consumato nel tempo breve. La tragedia del passato rivive nella pratica del ricordare, ma non è mai realmente compresa sul piano razionale. A prevalere nel mezzo televisivo sono le trame private della memoria, che – stando alle riflessioni sviluppate da Brian Edgerton e Peter Rollins in un importante volume collettano intitolato “Television Histories. Shaping Collective Memory in the Media Age” (The University Press of Kentucky, 2001) – producono negli spettatori un’illusione di presenza, inducendoli a credere di ricordare un evento storico, anche se in realtà ne stanno solo introiettando la rievocazione in una prospettiva mitizzata, capace di escludere qualsiasi consapevolezza critica. In altre parole, il passato è un’entità immaginata che si trasforma in un patrimonio condiviso attraverso una pratica comunicativa.

La comprensione del fenomeno non può prescindere dall’osservazione delle peculiarità del linguaggio televisivo. La dimensione intima e familiare del piccolo schermo ha favorito nel corso dei decenni il proliferare di narrazioni che stimolano nel pubblico un pronunciato senso di identificazione nei protagonisti. Il fine ultimo è fabbricare messaggi strettamente legati alle urgenze culturali, sociali, politiche, religiose ed economiche dell’oggi: del passato vengono selezionati solo gli aspetti giudicati rilevanti per l’attualità, capaci di chiarire gli eventi di cronaca e di lanciare uno sguardo al futuro, fino a pretendere addirittura di poterlo svelare. Le immagini e i materiali di repertorio diventano punti di appoggio per mettere in piedi una memoria condivisa che obbedisce a precise contingenze socio-politiche e culturali.

 

Attraverso questa pratica rievocativa, la televisione cerca di farsi interprete di un intero corpo sociale, definendo i suoi valori, celebrando i suoi successi, condannando i suoi fallimenti e più spesso giustificandoli (Oren Meyers, Motti Neiger, Eyal Zandberg, eds., “On  Media Memory. Collective Memory in a New Media Age”, Palgrave MacMillan 2011). Proprio il mondiale di Italia ’90 ci offre esempi eloquenti di questa tendenza: dimentichiamo i problemi legati alla costruzione di stadi che si mostrarono presto inutilizzabili, i lavoratori morti sui cantieri, i problemi economici legati all’organizzazione, i membri della classe dirigente accusati di corruzione, e persino la sconfitta della nazionale di Azeglio Vicini in semifinale. Ricordiamo solo l’atmosfera effervescente, l’euforia collettiva, i goal di Baggio e Schillaci, le “notti magiche” vissute “inseguendo un goal”. Il passato si smembra sotto i colpi di una feroce selezione. Non è facile provare a comprenderlo, perché siamo assuefatti all’eterna ripetizione di parole, immagini, suoni, emozioni e storie: alcuni segmenti di ciò che è accaduto vengono salvati, ma altri sono destinati irrimediabilmente all’oblio.

 

Anche nell’epoca della moltiplicazione delle piattaforme e della fruizione dei programmi slegata da palinsesti definiti (“on demand”), la televisione mantiene la sua capacità di connettere il privato con il pubblico offrendo punti di riferimento all’impresa del ricordare: le memorie di nascite, matrimoni, riunioni familiari e morti rimangono nella sfera personale, ma si trasferiscono in quella pubblica se si collegano a eventi significativi per la collettività. Grazie allo sport, riusciamo a stabilire canali di comunicazione fra diversi contesti che altrimenti rimarrebbero distanti: i ricordi di persone che vivevano esperienze diverse possono ricongiungersi se si collegano a una partita degli Europei o della Coppa del mondo di calcio. Le imprese dei vecchi eroi ci aiutano a mettere in ordine le nostre vite, a dare un’organizzazione ai nostri ricordi individuali. Spesso ci sorprendiamo a dire (o ad ascoltare) che un amico è nato nell’anno della “Mano de Dios” di Maradona contro l’Inghilterra, che i nonni si sono sposati pochi giorni dopo Italia-Germania 4-3, che abbiamo sostenuto l’esame di maturità quando Baggio sbagliò il rigore contro il Brasile. La televisione è di fatto “il vascello” sul quale si frantumano le barriere del privato e prendono forma i rituali sociali della rievocazione, capaci di coinvolgere persino le generazioni escluse (Amy Holdsworth, “Television,  Memory  and  Nostalgia”, Palgrave Macmillan, 2011)

La memoria costruita dal sistema comunicativo aiuta anche coloro che sono stati assenti: l’importante non è esserci stati, ma credere di esserci stati, proprio come il giovane tifoso intervistato su Raiuno che desidera rivivere le emozioni di un’Italia che non ha mai conosciuto. Il racconto televisivo ci aiuta a organizzare i nostri ricordi e a collocarli sulla linea del tempo, a conferire a frammenti di vita una dimensione pubblica, a stabilire punti di connessione fra la memoria individuale e quella condivisa. Questa operazione è tuttavia subordinata all’interpretazione del presente, trasforma il passato in un semplice strumento per costruire una diversa intelligibilità del mondo che ci circonda, consente di sviluppare il linguaggio della cronaca facendo leva su immagini e metafore che provengono da un patrimonio comune e consolidato, offre le coordinate per narrare l’inaspettato attraverso riferimenti a ciò che si è già visto o sentito. La televisione può essere considerata in definitiva non come un contenitore o un diffusore, ma come una “pratica di memoria” (Berber Hagedoorn, “Collective  Cultural  Memory  as  a  TV Guide:  ‘Living’  History  and  Nostalgia  on  the  Digital  Television Platform”, Film and Media Studies, 14: 71–94).

 

I committenti e gli autori di testi per il piccolo schermo sono chiamati a combinare e costruire associazioni, stabilire raccordi, evidenziare conflitti, definire appartenenze. Il loro ruolo non è affatto ridimensionato, ma è anzi valorizzato dalla presenza di altri mezzi – come Youtube ad esempio – che mettono a disposizione dei fruitori numerosi materiali di repertorio privi di filtri narrativi o di interpretazioni coesive. Solo nel piccolo schermo quei contenuti si legano all’emozione della cronaca, all’evento trasmesso diretta, acquisendo un nuovo significato. Si rivive il passato con intensità più alta quando si è in attesa della partita che sta per iniziare. Le “notti magiche” non ci dicono la verità su ciò che siamo stati, ma riescono a dirci molto su ciò che vorremmo essere.

 

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