L’immaginazione del possibile
Ecologia della danza
Nel secondo fine settimana santarcangiolese, le proposte più convincenti arrivano dalla danza.
L’indagine coreografica ha caratterizzato questa edizione del festival in modo forte ed esplicito, fin dalla presentazione della Piattaforma della Danza Balinese: uno spazio permanente di ricerca, performance, incontro con il pubblico (ne parla su Scene Ilenia Carrone).
Mårten Spångberg, Michele Di Stefano (MK), Fabrizio Favale hanno presentato lavori di alta qualità che, pur nell’evidente diversificazione di codici e modalità, si intrecciano e si richiamano l’un l’altro. Primo e più evidente filo conduttore tra le tre creazioni – ed è anche uno dei percorsi che attraversa e innerva il festival – è l’interrogazione sul paesaggio, sullo spazio, sull’abitare. È una questione che, in tutti e tre i casi, viene impostata con chiarezza fin dal titolo: The Nature è il nome scelto per la performance dell’eccentrico coreografo svedese; Di Stefano evoca con Robinson un esotico altrove; Favale restituisce con Uccelli un perduto mondo
ancestrale.
Si tratta, in tutti e tre i casi, di un paesaggio mentale più che descrittivo, un fragile ecosistema nel quale corpo e ambiente esterno si fondono, una natura che approda sul palco solo per evocazione nelle scenografie curate ed essenziali: Michele Di Stefano fa piovere sul palcoscenico a fine spettacolo rami verdi e fiori, mentre Favale lascia immaginare la forma dei fulmini tratteggiandola sullo sfondo nero, cornice di una danza che sembra attingere le proprie immagini da un lontano patrimonio mitico e folklorico.
Il pubblico diventa parte integrante dell’ecosistema nella straordinaria creazione di Spångberg: oltre due ore e mezza di performance durante le quali, senza sapere come, lo spettatore si trova a comporre un ambiente piacevole, rilassato, nel quale scopre di sentirsi ‘a casa’. Sul palco appaiono frammenti decostruiti di quotidianità: cartoni della pizza appesi al soffitto, birre, sacchetti di patatine, file di ananas. Tutto intorno, il pubblico viene fatto accomodare su coperte e invitato a fare quello che preferisce: dormire, scrivere al cellulare, parlare con il vicino. Se non capite cosa intende Spångberg vi basterà guardare il ragazzo che cura le musiche: seduto davanti al suo Mac, alterna l’avvio di una nuova traccia e uno spuntino, un effetto sonoro e un drink.
E mentre gli straordinari performer passano dalla quiete al movimento, mentre si spogliano con un calma che diventa quasi languida pigrizia, mentre si sorridono sornioni l’un l’altro ballando Wonderwall degli Oasis, ci si accorge di aver perso ogni tensione e ogni aspettativa: ci si limita a stare, ad abitare il luogo nel quale si è. “La danza è come un quadro in un museo chiuso, che non deve dimostrare a nessuno la propria bellezza”, ha spiegato Spångberg nell’incontro con il pubblico in Piazza Ganganelli. The Nature riesce a ridurre la tensione esibizionistica e performativa dei danzatori (che sembrano non aver nulla da dimostrare) ma allo stesso tempo a scogliere l’ansia anch’essa performativa del pubblico (che non ha più nulla da aspettare, o da capire): il risultato è una piacevolezza leggera, rara da trovare nelle platee italiane.
Anche Di Stefano (Leone D’Argento alla Biennale di Venezia) si interroga sull’essenza della propria danza proprio mentre la propone al pubblico: danza – suggerisce Robinson – è contatto e scoperta dell’altro, reinvenzione di sé e del proprio mondo. Quello di MK è un Robinson che si fa cambiare dalla presenza di Venerdì, al punto da smarrire la propria individualità; le due entità (segnalate dalle lettere R e V stampate su una T-Shirt, a rimarcarne la valenza universale) si mescolano, nuove figure entrano in scena mettendo in crisi l’identità di chi c’era prima, i soli e le partiture a due divengono coreografie corali che disegnano nuove geometrie e nuovi spazi.
Nel lavoro dei tre coreografi, la definizione coreutica si accompagna a una riflessione non superficiale sul proprio comporre: indagine portata avanti con un rigore e una densità assenti da molti lavori teatrali. (Maddalena Giovannelli)
L’ora di guerra di Valters Sīlis e Teatro Sotterraneo
Lo sguardo sull’oggi di Santarcangelo·14 si muove anche nello spazio teatrale della guerra, traiettoria imprevedibile del passato che ritorna e non insegna.
“I war you”. Devi scegliere, te lo chiede il sangue. Un cadavere è omicidio, tanti cadaveri sono politica. Chi uccidi? Chi salvi? La vita vale il suo sacrificio? A partire dal centenario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, WAR NOW! di Valters Sīlis e Teatro Sotterraneo, in prima assoluta al Festival, esplode sulla platea raffiche di domande ironiche e raggelanti, tutt’altro che a salve, preme paure ed esitazioni come il grilletto di una ‘pistola fumante’ che non finisce mai le munizioni.
Sara Bonaventura e Claudio Cirri, con Matteo Angius della compagnia Accademia degli Artefatti a chiudere la triangolazione inquisitoria, sono tre pubblici ufficiali venuti a controllare la titolarità dei biglietti di viaggio della nostra sopravvivenza Prima, Durante e Dopo un ipotetico terzo conflitto mondiale. Nel loro continuo saliscendi tra la platea e la scena, ci colgono, manco a dirlo, impreparati, goffi, ridicoli, perché ormai diamo la pace per scontata e la guerra è solo immagini in azione sui giornali, in televisione, su Internet, a teatro: è immaginazione.
All’interno del progetto internazionale SharedSpace, questa paradossale ‘terra di tutti’ ha unito due realtà della medesima generazione (trent’anni) ai lati opposti dell’Europa: il lettone Valter Sīlis, capace, come in Leģionāri, di mescolare materiale documentaristico, riflessioni storiche e profondo lavoro attoriale, e il collettivo di ricerca Teatro Sotterraneo. La produzione è dell’Associazione Teatrale Pistoiese, i luoghi di residenza molteplici. WAR NOW! prosegue un percorso di ricerca pluriennale di Teatro Sotterraneo sul tema della vocazione chiamato ‘Daimon Project’ ed è nato su proposta dello stesso Santarcangelo ·14.
Dunque, l’allenamento al sangue versato, le domande del Prima che Angius, Bonaventura e Cirri rivolgono al pubblico sono la miccia, le risposte del pubblico sono l’ossigeno che la tiene accesa: rispondere ti mette nella condizione di pensarti lì dove cadrebbero le bombe. In teatro, adesso, durante lo spettacolo. Le parole, però, sono incerte, balbettate, insincere, nascondono il non sapere cosa dire di sé su qualcosa che non si è veramente vissuto, da vicino. WAR NOW! lo mostra con brutalità quando otto di noi vengono invitati sul palco a fare i Capi di Stato al summit internazionale che dovrebbe scongiurare il conflitto: restano in silenzio, non dicono nulla, perché non hanno niente da dire. D’altra parte, non sono stati chiamati proprio per questo?
La diplomazia fallisce e con essa la mediazione della realtà. Il Durante è perciò la rappresentazione della guerra come la conosciamo e comprendiamo: un po’ telegiornale delle 20, un po’ kolossal hollywoodiano, un po’ videogioco splatter. Angius, Cirri e Bonaventura entrano ed escono in rapida sequenza dal fondale (unico elemento scenico insieme a un tavolo), bocca atomica della finzione posticcia, polmone spettrale che respira le esplosioni di una macchina del fumo. Chiuso nell’ignoranza e nell’amorfismo, il pubblico è chiunque loro decidano che sia, tra gli estremi della vittima e del carnefice.
C’è un’unica cosa che riesce a dire di proprio. Arriva nel Dopo, alla fine di tutto. È la morte. Riguarda tutti, i vinti, ma anche i vincitori, che festeggiano la vittoria con discorsi cadaverici in cui l’umanità, il rispetto, il pudore sono spenti completamente. Siamo una lista di nomi incapaci di salvarsi, carne da cannone e da macello dello spettacolo contemporaneo del teatro e della società.
WAR NOW! dimostra, quindi, di avere una precisa visione della realtà che ci circonda. La prendono a cuor leggero e contento non per bamboccionismo, ma per precisa scelta artistica. “Combatti la nostra guerra” – dice Matteo Angius a un ragazzino a Terza Guerra Mondiale ancora in corso. Valters Sīlis e Teatro Sotterraneo sono adulti che non si sono dimenticati di essere stati bambini. E giocano non tanto per giocare, ma per creare uno spazio di libertà in cui riuscire a dirci l’orrore che siamo. (Matteo Brighenti)
WAR NOW! è in replica domenica 27 luglio a Skillbuilding, la 34esima edizione di Drodesera Festival.