Caryl Churchill a Roma / L’imponderabile ronde dell’Impero
Trovare la maturità, la sicurezza, la disinvoltura dove ci si aspettavano le esitazioni o le iperboli di un apprendistato è sempre un’esperienza disorientante. Ma sul palcoscenico questa nascita artistica tutta d’un pezzo è più frequente di quanto si immagini: alla fine di Settimo Cielo, uno dei pezzi di teatro più famosi di Caryl Churchill che Giorgina Pi ha portato in scena con la sua compagnia al teatro India di Roma, viene da pensare che la regista romana, rendendo onore al proprio pseudonimo, sia appena uscita dalla mente di Zeus e subito abbia cominciato a esercitare la propria sapienza. Non è tanto da un segno che lo si capisce, quanto dal suo contrario: dal fatto che tutto è passato al pubblico senza un intoppo, a cominciare dalla demoniaca ars combinatoria dell’autrice britannica che trasforma i neri in bianchi, gli uomini in donne, le bambine in bambole e l’Africa del colonialismo ottocentesco in un déjeuner sur l’herbe vittoriano, pieno di caustiche e pungenti rivelazioni, o in una cena di Natale degna dei Morti di Joyce.
Non si sente alcuna contraddizione nel ritrovare i protagonisti della prima parte dello spettacolo un secolo dopo, in un parco della Londra del 1979, ma invecchiati di appena venticinque anni: è visibilmente un gioco quello a cui siamo stati invitati, l’euforico gioco al massacro delle identità presunte e puntualmente smentite, e Giorgina Pi lo ha concentrato fin dall’inizio nello stesso spazio, con tutti i suoi sette (bravissimi) attori in scena che entrano ed escono dalla penombra da cui sono avvolti, che non è il buio spesso del destino, ma l’ironica velatura degli stereotipi che ci nascondono a noi stessi.
Il gioco, notoriamente, riesce se e quando gli spettatori ne dimenticano le convenzioni pur continuando ad averle ininterrottamente sotto gli occhi, ed è proprio il sottile ricamo di questo oblio la flagrante qualità scenica del Cloud Nine di Giorgina Pi: Alessandro Riceci, che interpreta una donna, da donna è travestito ma non recita en travesti, bensì mobilitando le sfumature del femminile che si trovano nel fondo di ogni uomo – e che puntualmente finiscono narcisisticamente proiettate su ogni donna; “fu l’uomo a crearmi, lo potete notare” dice appunto Betty – così come Marco Cavalcoli presta la sua eleganza di attore eteronomo al dentro/fuori di un avventuriero britannico à la T.E. Lawrence che nell’esotismo dà sfogo ai propri sconfinamenti omosessuali (e pedofili), ed è talmente tipica questa figura che soltanto un’aggraziata superficialità la può ancorare allo sguardo. Quando nella seconda parte, l’attore romagnolo riaffiora nelle vesti esilaranti di Martin, un intellettuale che sta scrivendo “un romanzo sulle donne visto dalla parte delle donne”, il pubblico gli dà mentalmente il bentornato, riconoscendo in lui la variazione nevrotica di uno nell’altro.
Che cosa sia un Impero per Caryl Churchill, d’altronde, lo dice bene l’esibizione di Sylvia De Fanti che, impegnata in ben tre ruoli, apre questa goduriosa commedia degli equivoci intonando Rule Britannia (“Temprati al sacro fuoco della guerra / porteremo ovunque l’impero sulla terra” recita la traduzione di Riccardo Duranti) e sollevando per tre volte un lembo della sua ingombrante gonna per lasciar intravedere i fianchi fasciati dall’union jack: l’impero è la perfetta quanto perversa costruzione che declina il piacere attraverso l’inibizione, e la libertà attraverso il dominio, recuperando persino la trasgressione, l’adulterio, il servaggio, la predazione sessuale, nell’ordine inclusivo della sconfinata Legge inglese (che nel cuore non ha alcuna legge). Tutto, infatti, è possibile, senza essere permesso, già nell’Africa del 1879, segnalata in scena da una scritta luminosa e sagacemente depurata (dal testo e più ancora dalla regia) di ogni fremito africano, a parte l’inevitabile aggettivo conradiano, “tenebroso”, utilizzato non a caso dal patriarca Clive (l’ottimo e persuasivo Marco Spiga) in analogia con l’infida e cangiante natura femminile.
Approdando dalle poltroncine (poco) coloniali della prima parte alle panchine della seconda con su scritto Anarchy in the Uk lo spettatore percepisce lo scivolamento in un’accelerata velocità di liberazione, ma certamente non la frattura tra due mondi: sono gli eminents victorians dell’inizio a covare e a sognare gli scaltriti e simpatici desideranti della Swinging London che, “sempre più fatti e innamorati”, nella quarta scena del secondo atto alzano un inno al Settimo cielo dove “tutto è sottosopra”? O non sono piuttosto questi ultimi che, tra orge solo confidate e farsesche evocazioni cerimoniali di dee madri dai molti nomi, hanno messo in scena anche la Commedia delle Origini del primo tempo?
Il rebus delle relazioni è così fitto e impenetrabile (come la giungla che non c’è ma assedia la scena), la recitazione che lo travasa così fluida, che a mala pena l’occhio ha il tempo di registrare quel corpo floscio simile a un grande materassino che nella prima parte cresce gonfiandosi fino a trasformarsi in un enorme, chapliniano mappamondo. O di mettere a fuoco, nella seconda, un ammiccante ritratto della signora Thatcher che non si sa bene se si appresti a chiudere drasticamente l’era delle anarchiche sperimentazioni esistenziali o a sigillarne beffardamente l’illusorietà (anche in questo caso, lo specchio della Churchill è completamente ritorto sul pubblico “ipocrita, mio simile, fratello”, sta a lui stabilire i gradi di separazione tra il libertario e il liberista). Giorgina Pi nel frattempo ha fatto quello che ogni buon regista dovrebbe fare: si è dileguata, esercitandosi nella capziosa sparizione dei propri poteri, che è la fase finale di tutte le illusioni ben congegnate.
Qualche dubbio lo lascia, semmai, il testo. Ha ragione Franco Cordelli a scrivere che il tratto saliente della Churchill, il suo umorismo corrosivo, tipicamente britannico, è anche il suo limite. E non tanto, o non solo, perché, rendendola meno isolata di quanto appaia a uno sguardo italiano, la ricollega ad autori come Alan Bennett o quello straordinario scrittore (conservatore e cattolico) che fu Evelyn Waugh. Ma perché è il contrafforte stilistico di un teatro a naturale vocazione post-drammatica dove l’aleatorietà dei processi di costruzione dell’identità svuota e rimpiazza qualunque spessore, anche solo residuo, dei personaggi. Tutto è esemplare, ed esemplarmente performante, nello scatenato balletto algoritmico di Cloud Nine – il genere, il sesso, la razza, i ruoli familiari – ma niente o quasi vi insorge di irriducibilmente singolare.
Il risultato è un paradossale annichilimento dell’alterità: se il negro non è che un bianco travestito, una mera proiezione servile come Joshua (il servitore interpretato da Lorenzo Parrotto che in seguito ritorna nel fantasma di un soldato inglese ucciso in Irlanda del Nord) non basterà certo una pistola fugacemente puntata contro il padrone alla fine del primo atto a restituirgli la nudità di un volto; quel colpo eventuale, giustamente sospeso, consegnato al mondo fuori di scena, non fa che frantumare una maschera. E se la pelle è nera, la maschera è inesorabilmente bianca: donne e negri, servi e mogli, si costruiscono come tu mi vuoi. Ma è appena il bagliore di quello che, vent’anni prima della commedia di Caryl Churchill, Franz Fanon aveva immaginato, a torto o a ragione, come l’atto di liberazione per eccellenza del colonizzato. Anche la sua luce è destinata a impallidire in un gioco di proiezioni, anche l’erostratica scintilla che dà fuoco alle polveri del conflitto finisce per perdersi nella ronde imponderabile di Settimo Cielo dove ogni maschera cade solo per rivelarne un’altra e poi un’altra ancora, in un contagio mimetico senza fine.