Arte contemporanea / Luca Patella: un artista enciclopedico

12 Gennaio 2021

Lo stile di un artista, diceva Schopenhauer, è la “fisiognomica dell’anima”: ci permette, in un certo senso, di sbirciare dentro la sua psiche. E l'arte, aggiunge Arthur Danto, è «la capacità spontanea che ha l'artista di farci vedere il suo modo di vedere il mondo». Potremmo allora dire che, attraverso la sua opera, è come se noi guardassimo la psiche dell'artista dall'esterno e il mondo dal suo interno. 

Tutto ciò ha una straordinaria consonanza con l'artista a cui Elio Grazioli ha dedicato il suo ultimo libro: Luca Maria Patella disvelato (Quodlibet studio, 2020), biografia – o meglio, studio critico ordinato cronologicamente e intrecciato alla biografia – di uno dei più multiformi e inclassificabili artisti del Novecento italiano. Patella è infatti un artista per cui l’arte è una «modalità particolare di rapporto con il mondo e di conoscenza di sé, in quell’intreccio con la vita che si intende inestricabile». Esplorando questo intreccio Grazioli fa emergere «un'opera unica e perfettamente identificabile al di là delle diversità delle singole opere, delle tecniche e dei modi». E in questo modo ci offre una prova della validità di questo approccio “critico-biografico” per esplorare quel mondo dell'arte post-duchampiano nel quale il corpo a corpo con una materia da formare è sostituito dal bricolage di tecniche e oggetti del tutto eterogenei, e da una prassi che è anche e soprattutto una filosofia visiva.

 

È indubbio che Patella incarni nel modo più evidente alcune delle conseguenze più vaste e profonde del cambio di paradigma che ha in Duchamp il suo principale punto di catastrofe. Innanzitutto il passaggio dal regime delle Belle arti, ognuna col suo specifico medium, a quello dell'Arte-in-generale, come l'ha definito Thierry de Duve (Aesthetic at large, University of Chicago Press, 2019): un'arte che “si fa con tutto” e trasgredisce sistematicamente qualunque confine di medium e qualunque norma estetica prestabilita. In secondo luogo, quell'esasperazione del “regime di singolarità” per cui «l’artista contemporaneo è diventato il suo proprio termine di riferimento – allo stesso tempo creatore e opera» (Nathalie Heinich, Le paradigme de l'art contemporaine, 2014).

 

A partire dalla storica mostra realizzata da Arturo Schwarz a Milano nel 1964, Duchamp è uno dei riferimenti fondamentali per Patella: citazioni più o meno esplicite compaiono continuamente nella sua opera. Ma Patella guarda Duchamp a modo suo, concentrandosi, come nota Grazioli, «su apparenti dettagli e inconsuete corrispondenze, quasi dei lapsus, o dei sintomi, dentro un quadro di contenuto che è anche il suo». Basta pensare all'arguto MUT/TUM (1965), che riprende, in un gioco speculare tipicamente patelliano, la firma sull'orinatoio (R. Mutt) e il titolo dell'ultimo dipinto (Tu'm) del grande anartista; o al bizzarro Duchamp dis-enameled (1982-6), che ricostruisce tridimensionalmente la distorsione gestaltica del letto di Apolinere Enameled (un readymade “assisito” del 1916-7). 

A modo suo, e non tanto attraverso l'“effetto Duchamp”, avviene per Patella anche il passaggio dalla prima ricerca “modernista”, culminata col lavoro calcografico, alla ricerca multi-mediale che caratterizzerà poi tutta la sua opera. Il punto di “catastrofe” è la sperimentazione con la fotografia: questo passaggio dalla pratica grafica alla pratica foto-grafica (una pratica che è anche meta-artistica, cioè riflessione sull'arte e i suoi media) è decisivo perché, come sottolinea Grazioli, apre l'artista alla dimensione Senza peso (il peso della manualità e dell'espressività del segno) e lo porta a «una sorta di frenesia creativa» in cui un medium si trasforma continuamente in un altro e la sperimentazione è soprattutto il tentativo di render conto della complessità, la volontà di «tenere tutto insieme in ogni punto», moltiplicando le stratificazioni di senso assieme alle modalità di approccio: «Grafica, fotografia, diapositiva, film, oggetto, parola, Patella mette tutto in gioco, senza rifarsi mai a un ambito, a una tendenza, a un gruppo». 

 

Per questo il suo è un concettualismo del tutto originale, sia alla versione ufficiale americana (in particolare quella “razionalizzante” di Kosuth, che Patella critica con vigore), sia alle sue declinazioni italiane. Patella lo chiama «mentalismo esistenziale, culturale, ma anche “concretamente” estetico»; lo definisce «pulsionale, colorato e citazionista», «ironico-serio ed esistenziale»; e Grazioli commenta: «non nevrosi, non misticismo, non tautologia, bensì cultura [...] e complessità».

Cultura e complessità sono due parole-chiave per “disvelare” questo artista che ha passato la vita a costruire un proprio universo idiosincratico giocando con tutti i campi della cultura. E particolarmente appropriata è qui l'idea di cultura come “enciclopedia”, nel senso tecnico in cui Umberto Eco usa questo termine per teorizzare la semiosi, che non funziona come un dizionario strutturato gerarchicamente ad albero, ma come un labirinto enciclopedico, un rizoma di segni/testi/immagini infinitamente ristrutturabile, che comprende tutti i parziali rizomi personali in cui ognuno di noi vive. Questa è la materia su cui lavora Luca Maria Patella. (Ed è anche la materia su cui, in modo ancora più esplicito, ha lavorato Gianfranco Baruchello, altro grande “duchampiano” italiano, con la sua opera più recente: Psicoenciclopedia Possibile, un non-volume dell'Enciclopedia Treccani che incarna letteralmente la propria porzione di rizoma semiotico).

 

 

Quella di Patella, comunque, è anche una cultura enciclopedica nel senso comune del termine, una cultura che ha le sue radici nella biografia e nel carattere: la famiglia colta e cosmopolita; il padre ingegnere e “astronomo umanista”; la formazione scientifica e gli studi universitari di chimica strutturale; la curiosità onnivora; l'interesse da introverso per la psicologia, in particolare quella analitica junghiana e poi quella lacaniana come antidoto alla prima; la letteratura classica (Dante innanzitutto); l'alchimia e la simbologia alchemica junghiana; le tecnologie pre-fotografiche; la semiotica; la filosofia... Gli ingredienti ricavati da tutti questi campi del sapere, assieme ovviamente a quelli che attinge dalla storia dell'arte visiva, sono continuamente frammentati, mescolati e ricombinati nella sua opera, mettendo in evidenza connessioni spesso paradossali, in cui senso e non-senso si fondono come cercassero di imitare i lampi di luce che il sogno genera nel buio dell'inconscio. 

Dell'oeuvre di questo artista si potrebbe in fondo dire quanto egli stesso dice dell'opera di Diderot Jacques le Fataliste, sui cui ha scritto una importante interpretazione psicoanalitica: è una «autoencyclopédie», «un’incredibilmente complessa e completa “autoanalisi proiettiva” della propria personalità». 

 

Autoenciclopedia e autoanalisi proiettiva si ritrovano infatti in tutto il lavoro maturo di Patella, che è sempre anche un lavoro sulla propria individualità, sul Sé e sul rapporto dialettico con l'Io, tanto da dare spesso l'impressione di un narcisismo esasperante. «Il prefisso “auto”», nota Grazioli, «assume un ruolo centrale in questa fase non solo della riflessione ma anche dell’opera di Patella»; ad esempio con le autofoto, nelle quale l'artista si ritrae, spesso col fish eye, «per far diventare tutto ciò che fa autoanalitico, analisi in atto, e opera». Ma è sempre un processo a due sensi, da intendere «come integrazione di sé nell’opera e dell’opera in sé, nell’opera stessa e nel Sé: il prefisso “auto” è tutt’altro che tautologico e autoreferenziale, apre anzi a tutte le direzioni».

Questo passaggio continuo dal microcosmo al macrocosmo e viceversa si lega al grande tema dell'alchimia ripresa soprattutto attraverso il pensiero junghiano. Mysterium Coniunctionis, come il libro di Jung sull'alchimia, s'intitola la grande mostra realizzata a metà degli anni ottanta: un'installazione, una meta-opera, un opus alchemicum che congiunge la psiche e i cieli, e nel quale le grandi sfere concave in cui sono dipinte le costellazioni racchiudono i due vasa physio-nomica, torniti in modo da riprodurre, mediante l'inversione figura/sfondo, i profili dell'artista e della sua compagna, Rosa Foschi. Qui il mistero «non è risolvibile secondo una razionalità deduttiva e argomentativa, perché va affrontato come una chiave e non come una soluzione, perché è un rito [...] una scena, una opera-azione» e «ha qualcosa di magico». La chiave serve per cercare di aprire quella che Patella chiama la sua Mitocosmobiografia, che è il suo modo, commenta Grazioli, «di legare vita e... tutto, proprio perché niente ne resti escluso», di legare conscio e inconscio, consapevoli che il mistero «è quello della congiunzione stessa».

 

Accanto a questo armamentario alchemico-psicoanalitico, Patella mantiene sempre il suo lato ironico-duchampiano. Lo si vede in modo lampante nel lavoro con il linguaggio, su cui esercita un gioco continuo di decostruzione che non rimanda tanto a Derrida, quanto ai calembour che Duchamp ha elevato a strumento principe della propria poietica. Non solo nei titoli e nei commenti alle opere visive, ma anche nella produzione di libri d'artista, che fondono e confondono segni e immagini, poesia e prosa, si trova quel continuo, pirotecnico gioco intraverbale dei significanti, che Andrea Cortellessa ha chiamato “funzione Carrol”. Patella, spiega Grazioli, «spezza le parole, le lega, le altera, gioca in tutti i modi possibili, è lavoro di dilatazione e disseminazione del senso». È come se provocasse effetti di rifrazione e diffrazione ad hoc, per far emergere dal linguaggio le nascoste connessioni simboliche che egli stesso vi proietta. («La mia scrittura a volte è un po’ come un’“equazione”, quindi: logica, oltre che, magari “extra-vagante” [...] io mi dis-verto: proprio ad “avere problemi”»).

 

Forse è proprio in questo gioco sulla scrittura che emerge nel modo più perspicuo quanto la prassi artistica di Patella sia in sintonia con un altro, profondo lascito duchampiano: il genio come “impossibilité du fer”; dove l'impossibilità di fare deriva dalla consapevolezza che il fare non è altro che scegliere un qualcosa che è sempre già fatto (ready-made) – un colore, un frammento di parola, un frammento di immaginario, un frammento di enciclopedia – e ricombinarlo con un altro qualcosa già fatto (il che non è affatto, beninteso, un'operazione banale). Non potrebbe essere questo, in fondo, quel “Fare il non fare” a cui allude Patella?

Ma lasciando le briglie sciolte al demone dell'analogia – come del resto sembra invitare tutta l'ouvre di Patella – si può anche vedere in questa creatività combinatoria il gesto di ricongiungere i due frammenti del symbolon (la tessera o medaglia che era stata spezzata). In questo modo, accanto all'arte/non arte duchampiana, ci si ritrova con l'arte come lavorio dei e sui simboli. In Patella, scrive Grazioli, «tutto è legato e solo tenendolo sempre presente non si cade nel “feticismo” della parzialità». Il suo mondo è come un Paese delle meraviglie «di paradossi e rovesciamenti, non-sensi e giochi di parole, simbolismi e teorie, secondo logiche che non sono soltanto quelle della ragione e della coscienza ma anche dell’inconscio e dell’intuizione-creatività, il mondo dell’arte insomma».

 

Il mysterium coniunctionis che regge questo mondo non è dunque altro che quello dell'analogia e della creatività. Nella conclusione del libro è citata la risposta dell'artista a chi gli chiedeva cosa lega tutte le sue diverse esperienze artistiche: «Nella mia poetica, la luce [...] rappresenta... l’intuizione, o la presa di coscienza, la sintesi di Funzioni psicologiche...». La luce come intuizione è il lampo dell'analogia. E quel lampo, con una coincidenza magica, sembra scaturire persino dal suo stesso nome: Luca/luce. «La ricerca della luce e di sé», conclude Grazioli «è l’elemento unificatore, il senso dell’arte per Patella».

Ovviamente, il fascino di un artista – e l'interesse di un libro – non è in una formula conclusiva, in un punto di arrivo. È sempre nel percorso.

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