Perché a Sanremo si parla tanto di lui? / Ma chi è questo Koltès

14 Febbraio 2018

La notizia

È in corso la serata finale del Festival di Sanremo, il 10 febbraio 2018. Pierfrancesco Favino recita un frammento – quattro minuti – di La notte poco prima delle foreste di Bernard-Marie Koltès. Lo vedono in diretta 11 milioni di spettatori. Arrivano gli elogi ma anche le polemiche.

 

Che si dice 

Il più entusiasta della folta schiera è Stefano Massini. Il lancio del suo editoriale sulla prima pagina della “Repubblica” del 12 febbraio annuncia una “Ode al nuovo bardo che ha fatto vincere il teatro al Festival. Ha recitato Koltès davanti a 11 milioni di italiani. E così il teatro torna tra il popolo come nella polis greca”. Con un'acribia filologica che quasi non basta nemmeno Wikipedia, spiega: “È stata la versione aggiornata delle parabasi nelle antiche feste delle Lenee, ovvero quell'istante altamente civico in cui la polis riunita accettava di guardarsi dentro, delegando all'attore la biopsia spietata della propria cancrena”.

A quel punto l'Italia si era già spaccata in due, o forse in tre. Perché è agguerrito e multicolore anche il partito anti-Favino, che si accanisce contro il Festival, contro l'attore, contro tutti quelli che lo difendono. Così in rete infuria una polemica feroce, assai più interessante e vivace della smorta campagna elettorale in cui siamo impaludati.

 

Il contesto politico

I primi attacchi a Favino sono arrivati subito, da destra, con un tweet di Maurizio Gasparri, a cui il “messaggio” è risultato subito chiaro: davanti a 11 milioni di spettatori, in quei 4 minuti si difendeva la dignità dei migranti. Dunque per il “critico politico” Gasparri è stato “penoso”. Non è piaciuto nemmeno a Salvini. A far arrabbiare la destra è stata anche una strepitosa Fiorella Mannoia, che alla fine del brano di Koltès ha intonato i versi di Ivano Fossati: “...o mio fratello che guardi il mare...”: innalzando la temperatura emotiva, ha fatto capire anche agli spettatori più ottusi il senso del brano di Koltès. 

Per il suo assolo, Favino poteva scegliere un brano di repertorio meno “scomodo”, evitando questi attacchi prevedibili. Ha scelto di farlo: “Io non faccio politica, o meglio la faccio nella scelta delle cose che faccio. Ma sempre partendo dal presupposto che non sto sul piedistallo con la corona di alloro in testa per dare lezione” (“Corriere della Sera”, 12 febbraio 2018). 

 

Siamo un paese dove esponenti politici di primo piano vanno in tv a dire che sono orgogliosi di essere razzisti e raccattano milioni di voti. La leader di Fratelli d'Italia vuole licenziare il direttore del Museo Egizio di Torino, il bravissimo Christian Greco, solo perché fa audience development e cerca di coinvolgere (anche) i visitatori arabi (vedi anche l'intervista di Marco Imarisio a Christian Greco sul “Corriere della Sera”). Quel che ha fatto Favino non può proprio piacere a fascisti e razzisti. Che poi quel Koltès è morto pure di Aids...
L'attacco da destra era prevedibile. Poco dopo è arrivato – soprattutto sui social – il fuoco di fila degli attacchi da sinistra, soprattutto in rete. Se ne sono fatti alfieri alcuni artisti di valore e di indiscutibile impegno civile, come Daniele Timpano. Qui le cose diventano più complicate, perché le critiche sparavano a varie altezze.

 

L'emittente

Una prima inevitabile raffica di attacchi era diretta ad personam. Per presentare Sanremo, quel Favino becca un sacco di soldi, invece a noi attori proletari e precari non pagano nemmeno il minimo sindacale. Favino fa lo spot della Barilla, dunque si è venduto al capitale e qualunque cosa faccia si omologa alla pubblicità. Quel frammento tv è solo la promozione del suo spettacolo che sta portando in teatro, è solo uno dei tanti spot autopromozionali sul piccolo schermo. Insomma, l'emittente (inteso come persona) non può essere né credibile né autorevole. Per gli 11 milioni di italiani che non hanno cambiato canale, Favino è invece stato autorevole e credibile. Per quanto riguarda l'etica, il problema riguarda la coscienza dell'interessato (e del suo consulente finanziario), e forse soprattutto il contratto di servizio della RAI e il mercato dei talenti.

 

Le modalità

La seconda gragnola di attacchi riguarda le modalità dell'interpretazione, le scelte drammaturgiche. Nel testo di Koltès il personaggio non è caratterizzato. È solo un giovane che si sente straniero nel paese dove si trova, potrebbe anche essere un ragazzo bullizzato dai compagni per i più svariati motivi... Per dar voce al suo personaggio, Favino inventa un pidgin pugliese-brasiliano. Diventa un migrante, è uno ma li incarna tutti. Ad alcuni quella lingua posticcia ha ricordato la Mamie di Via col vento. Per altri “spettatori critici” l'attore è l'indigeno bianco che incarna il nero – o il sudamericano, o il filippino, o il siriano, e in ogni caso il barbaro che parla male la nostra lingua – naufragato in mezzo a noi. Dunque sarebbe l'ennesima manifestazione di una mentalità coloniale e paternalista. Abbiamo milioni di immigrati e rifugiati a disposizione, anche artisti di livello, a cominciare dagli “attori naturali” coinvolti in lodevoli percorsi di teatro sociale e di comunità. Per certi aspetti è una perplessità analoga a quella che espresse lo stesso Koltès dopo aver visto il primo suo testo allestito in Italia, Negro contro cani, regia di Mario Missiroli per il Gruppo della Rocca. Il “negro” del titolo era un attore bianco e Koltès rimase perplesso (tornano alla memoria anche le prescrizioni di Jean Genet sui suoi Nègres). Ma proprio la capacità di diventare l'Altro è alla base dei meccanismi finzionali del teatro e della sua efficacia. A Sanremo potevano chiamare un attore bravo e giovane a raccontare (quasi) la stessa storia. Per esempio Aleksandros Memetaj, autore e protagonista del monologo Albania casa mia. Ma sarebbe stato ugualmente efficace? Un giovane volto sconosciuto sarebbe riuscito a recuperare l'attenzione, subito dopo la pubblicità, senza il carisma della star e senza l'effetto sorpresa del suo slittamento nel personaggio? Favino che si fa Altro è teatralmente più efficace dell'Altro che resta Altro. È chiaro che la popolarità di Favino, per di più dal pulpito di Sanremo, è uno straordinario trampolino di lancio per qualunque messaggio, soprattutto se sottolineato dalle note di Fossati. 

 

 

Il contenitore

Un terzo ordine di obiezioni riguarda il contenitore, ovvero il Festival: è il tempio del trash nazionalpopolare, o peggio strapaesano. Inguardabile. Volgare. Irredimibile. È un inno all'evasione, un raffinato meccanismo di manipolazione delle masse. I dirigenti RAI hanno dato, si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte: Favino l'immigrato strizza l'occhio a sinistra, e subito dopo arriva il fervorino sulle foibe che tiene buona la destra (ma il Giorno del Ricordo è stato subito dimenticato, e nessuno l'ha attaccato). L'imbarazzante leit motiv di questa edizione, ovvero il femminismo ridotto a elogio della maternità (o meglio della mamma), avrebbe dovuto scatenare reazioni ben più feroci. 

Ma se in questa melassa qualcuno provasse a mettere qualche ingrediente più saporito, un sapore più raffinato? A parere di molti l'innesto di un contenuto di qualità in una sentina di nefandezze è inutile, o addirittura controproducente. L'emozione del telespettatore si spegne come si è accesa, non appena cambia l'inquadratura. Non diventa ragionamento. Non ha impatto politico, anzi è un anestetico. 

La notte poco prima delle foreste, che pochi ricordavano, è un testo denso, profondo, malinconicamente ironico, poetico. Parla della dignità del capro espiatorio. Della dignità di ciascuno di noi. È l'opposto di quello che di solito passa in televisione. Quindi, dicono i critici, meglio che in televisione non ci finisca. Sarebbe un sacrilegio, un oltraggio. Per provare le vere emozioni dell'arte bisogna andare a teatro. Solo a teatro ci sono arte e carne. La scena è rito, sacrificio, compresenza, comunità. Oltretutto, aggiunge qualche regista senza molto curriculum, là sopra si esibiscono attori bravissimi, anche più bravi di Favino, che sacrificano all'arte le loro vite e non si svendono al mainstream involgarendo il loro talento. 

 

Il medium

Ripetere che “il teatro in televisione” non è teatro ma è televisione è una banalità (nessuno ha detto che bisogna smettere di fare “teatro in teatro”, a cominciare da Favino). Lo sappiamo, “il teatro in televisione” non funziona quasi mai (e in ogni caso viva Rai5!). Però ci sono le eccezioni, il teatro può diventare ottima televisione ed essere molto efficace. Basti pensare al Racconto del Vajont con Marco Paolini e al suo effetto sulla memoria condivisa degli italiani. Se non fosse stato trasmesso in prima serata su Rai2, se non fosse andato in televisione (la stessa sera in cui Dario Fo vinse il Premio Nobel), se si fosse fermato alle repliche per poche decine di spettatori negli oratori, nei centri sociali, nei bar e nelle piazze, nelle scuole, o nelle case degli amici (senza ricevere particolare attenzione dal mondo del teatro), sarebbe stato meglio? Il problema è che Paolini è rimasto un'eccezione. Perché è troppo bravo? (vedi anche Oliviero Ponte di Pino, Sei spettacoli teatrali su Raidue: Paolini, Baliani, Fo, Ovadia)

 

Il destinatario

Altri attacchi prendono in considerazione le conseguenze dell'exploit di Favino sullo stato psico-emotivo degli italiani. È inutile mischiare alto e basso. Altri artisti di valore sono passati per Sanremo (grazie a Fabio Fazio, qualche anno fa) e non hanno sedimentato niente. Quanti lettori in più troverà Koltès dopo quella pubblicità gratuita? Quanti spettatori sceglieranno di andare a teatro, dove succedono sempre cose interessantissime ed emozionanti? Forse sarebbe il caso di chiedersi che cosa stia facendo oggi la cultura “alta” per raggiungere un pubblico un po' più ampio, invece di attaccare gli spettatori che se ne stanno a casa a guardare Sanremo.
Una cosa è certa: Favino non ha mai allontanato nessuno spettatore dai teatri, anche perché quattro italiani su cinque a teatro non ci vanno nemmeno una volta all'anno. Nessuno smetterà di leggere Koltès per colpa sua: sei italiani su dieci non leggono nemmeno un libro all'anno, in Italia i lettori di Koltès sono stati poche migliaia, forse poche centinaia. I bassi consumi culturali del nostro paese, anche rispetto ai parametri europei, hanno diverse motivazioni. Ma le reazioni di molti artisti off tradiscono un profondo disprezzo per il lo spettatore televisivo (e per gli italiani), trasudano compiacimento per la propria integrità artistica e politica: non è certo questa la base per un'efficace strategia di ampliamento del pubblico. 

 

L'emittente (Pierfrancesco Favino), le modalità estetiche (le sue capacità d'attore, il testo di Koltès), il contenitore (il Festival di Sanremo), il medium (teatro contro televisione), il destinatario (il pubblico), il contesto politico (l'ondata montante di razzismo e fascismi), la mediasfera (l'ondata di reazioni e dibattiti, soprattutto sui social)... 

Il contenuto diventa forma e viceversa. La cultura alta si scontra con quella bassa. La ricerca drammaturgica, poetica, politica di Koltès s'infiltra tra le canzonette, gli spot, gli imbarazzanti siparietti comici dei tre conduttori. L'avanguardia entra in cortocircuito con il mainstream. L'Eden elitario s'affoga nell'inferno trash (“Ma l'hai visto il look della Hunziker?”).

Con buona pace degli “spettatori-critici” – e soprattutto di quelli che “Io Sanremo non lo vedo e non l'ho mai guardato”, di quelli che hanno innescato le critiche “da sinistra” – la discussione sul “momento Koltès” al Teatro Ariston dimostra ancora una volta che Sanremo è un evento culturale e politico centrale per il nostro paese. Nel bene e nel male. È un sismografo dell'evoluzione dell'immaginario collettivo.

Dopo anni di buoni sentimenti, la parola più usata nelle canzoni a Sanremo 2018 non è più “amore”: vincono “mai”, “senza”, “niente”: tre termini molto vicini alle parole della depressione, secondo un recente studio scientifico. 

 

Questa edizione è stata invasa dagli over 60: oltre a Baglioni, gran parte dei cantanti in gara (Vanoni, i vari Pooh, Ruggeri, Elio, Ron con la canzone postuma di Lucio Dalla...) e degli ospiti (Paoli, Vecchioni, Nannini, Pelù...). Alla fine i primi tre in classifica erano tutti Under 35. A spaccare sono stati soprattutto i ragazzi bolognesi dello Stato Sociale, che rappresentano la generazione disagio. Hanno portato sul palco dell'Ariston la “vecchia che balla” e i bimbi del Coro dell'Antoniano, quelli dello Zecchino d'Oro. 

Alessandro Pontremoli, uno dei massimi studiosi di danza in Italia, ha collegato le pratiche di teatro sociale oggi assai diffuse (anche tra gli anziani) allo show dello Stato Sociale, proprio a partire dalla “vecchia che balla”: “L’indubbia spettacolarità di questa performance è molto interessante. Mi sono occupato di teatro sociale e di comunità, abbiamo proposto lavori di partecipazione, con istituti di cura e case di riposo. L’indicazione sia di questi enti sanitari sia della Comunità Europea ci invitano a considerare progetti e idee di promozione un ‘invecchiamento attivo’.

 

La performance di un’ottantaquattrenne (la stessa età di mia madre) è perfetta per la spettacolarità televisiva, ma apre effettivamente a scenari più ampi. Fra qualche decennio arriveremo a vivere oltre il secolo e dunque dobbiamo anche immaginarci di poter essere ancora in attività dopo gli 80 anni” (per saperne di più).

Il frontman dello Stato Sociale, Lodo Guenzi, si è diplomato presso una scuola di teatro, la Nico Pepe di Udine, e collabora con il gruppo Kepler 452, che organizza a Bologna il Festival 20 30: una rassegna dove gli spettacoli vengono scelti da giovani spettatori, una pratica di audience development condivisa con altre situazioni in diverse città italiane. Forse dietro a quei 5 ragazzi che cantano Una vita in vacanza c'è anche qualcos'altro.

Il Festival di Sanremo continua ad avere un forte impatto sul nostro immaginario: lo plasma, lo struttura e per farlo riflette e distorce i nostri stati d'animo. Come dimostra anche la discussione sul “caso Favino”, non travolge solo gli 11 milioni di sudditi dell'indice d'ascolto. Anche chi non ha visto il Festival sente il dovere di raccontare, di chiedere o di dire la sua. A volte persino nella torre d'avorio dell'Ariston sembra penetrare, come un'intrusa, la vita vera, nel vorticare scalcinato e luccicante di canzonette e gaffes, vecchie glorie in disarmo e ottantenni boogie woogie, nichilismi in rima baciata e giovani arrembanti...

PS Per chi volesse vedere Nella solitudine dei campi di cotone, un altro bellissimo testo di Bernard-Marie Koltès, è in scena dal 12 febbraio al 4 marzo al Teatro Out Off di Milano. SENZA Pierfrancesco Favino e dunque al riparo dalla contaminazione sanremese.

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