Questione di nomi / “Maestro” e “ministro”
Chi proferisce oggi “maestro” e “ministro” non sa, in genere, che le due parole hanno una storia che le lega. Anzitutto, un cenno alla forma, per spiegarne la differenza. La parola “maestro” si è sviluppata dal latino “magistru(m)” e, per suonare come oggi la si sente, è passata di bocca in bocca per tanto tempo. È parola di trafila popolare, con la connessa usura. “Ministro” non è una parola di trafila popolare; in un'espressione italiana di livello, è stata ripescata dal latino “ministru(m)”, di conseguenza, con meno accidenti. Il bello del confronto viene però quando si passa alle funzioni e al significato. Le due basi latine erano infatti costruite secondo il medesimo modello, all'epoca trasparente. Lo dicono ancora meglio “magister” e “minister”, le medesime parole al caso nominativo: “-ter”, un suffisso comparativo, vi era aggiunto agli avverbi “magis” e “minus”. Anche una piccola dimestichezza con la lingua di Cicerone basta per sapere che “magis” valeva “più” e “minus” “meno”. Insomma, per opposizione reciproca, “magistru(m)” era “er Più”, “ministru(m)” era “er Meno”. “Ministru(m)” era del resto la parola che si usava per dire “servitore”. Lo testimonia ancora oggi la lingua speciale della Chiesa: se qualcuno vi si dichiara “ministro del Signore”, lo fa per dire d'esserne un servitore, non un “ministro” come ormai la parola si intende tra i laici. E, sempre nella lingua della Chiesa, qui presa a testimone di una conservazione, “maestro”, anzi “Maestro” ha un valore che sarebbe qui ridondante ricordare. Un valore del genere vige ancora negli usi nobili della parola “maestro”. Fuori delle lingue speciali e degli usi di “maestro” che si son detti nobili, le due parole hanno invece avuto la storia che hanno avuto. E tra “fare il maestro” e “fare il ministro” c'è la differenza che tutti sappiamo. Col tempo, “er Più” (“maestro”) è passato a designare professionalmente un poveraccio che si guadagna la vita badando a torme di indisponenti mocciosi e che può solo sognare di avere in società la considerazione e le prebende destinate a “er Meno” (“ministro”), cioè a uno che, con la scusa di servire, si trova tra coloro che il ruolo autorizza a (fingere di) contare qualcosa. Quaranta anni fa, prospettò criticamente proprio questa circostanza uno scritto di Natalia Ginzburg che, ancora attuale, è riapparso in rete di recente. Il suo titolo è “Pagate i maestri come i ministri” e l'accostamento delle due parole, quanto etimologicamente consapevole è difficile dirlo, vi fa scintille, per chi sa coglierle. La vicenda di “maestro” e “ministro” è del resto esemplare dei mai scontati rapporti tra lingua e mondo. Essa mostra come tali rapporti siano ben lungi dall'essere fissi. La gente crede in genere che proprio la lingua che le è capitato di parlare e solo nel preciso momento in cui le è capitato di parlarla sia quella che definisce le cose esattamente come esse stanno nel mondo. Crede inoltre eterno e immutabile tale ordine. Si sbaglia e di grosso. Lo dice (non da solo, ovviamente) il caso del bizzarro capovolgimento dei valori di “maestro” e “ministro”. Se a udire chi proferisce queste parole ci fosse oggi, per incanto, chi proferiva un dì le loro antenate dirette, avrebbe il sentimento di una catastrofe e l'impressione di un mondo e di una lingua ormai a soqquadro. Evenienza di cui, siano o no (eternamente) a soqquadro il mondo e la lingua, è bene si custodisca sempre nel cuore e nella mente almeno un briciolo di compassionevole consapevolezza.