La mostra alla Maison Rouge di Parigi / Manuale di volo
L’immagine sul monitor è granulosa, sbiadita; si intravedono una linea di colline, un lago, qualche cespuglio, un uomo ripreso di spalle, maglia e pantaloni scuri: stende le braccia, le batte come le ali di un uccello, fa un salto. L’atterraggio, un metro più avanti, è goffo, ridicolo. E ricomincia: salta, agita le braccia, ricade incespicando. La performance Tentativo di volo – filmata da Gerry Schum nel 1970 per il suo documentario Identifications – è tra le più note di Gino De Dominicis, figura quintessenziale del paesaggio artistico italiano dello scorso fine secolo. Lo slapstick è il modo con cui De Dominicis si appropria, rovesciandola comicamente, di una tenace mitologia artistica moderna, il superamento dei limiti fisici, l’elevazione verso uno spazio estetico-politico posto al di là dell’immediato presente.
Ma il Tentativo, come ha notato Michele Dantini, è anche la puntuale parodia di quel Salto nel vuoto (1960) con cui Yves Klein celebrava il suo singolare ingresso in uno “spazio” dell’arte tutto immateriale e mentale, così come un altro lavoro di De Dominicis, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1970) – uno scheletro umano steso al suolo con dei pattini a rotelle ai piedi, che con una mano porta al guinzaglio lo scheletro di un cane e con l’altra regge in bilico un’asta verticale –, espone il rovescio immobile e mortale del mito della velocità, abbattendo ironicamente il pattinatore dotato di paracadute impersonato da Robert Rauschenberg nella performance Pelican (1963).
Quest’ultima opera, come le prime due , è visibile ora in L’Envol, ou le rêve de voler, l’esposizione in corso (fino al 28 settembre) alla Maison Rouge, che conclude, dopo quattordici anni, le attività dello spazio parigino. Compendio degli interessi e del gusto che hanno segnato tutto il programma precedente, la mostra si presenta come un assemblaggio tematico, una campionatura eclettica più che un percorso storico. Il volo, in questa prospettiva, è anzitutto una piega dell’immaginario, un atto metaforico, un “possibile” da esplorare col corpo, i sensi, la tecnica, l’utopia, il sogno. L’allestimento si sottrae dunque a qualsiasi linearità cronologica, preferendo accostamenti e contrapposizioni spesso studiate per generare il massimo effetto sorpresa. Luna (1968), un ambiente chiuso e in penombra, dal pavimento ricoperto con uno spesso strato di granuli bianchi di polistirolo, in cui Fabio Mauri prefigurava lo sbarco sul nostro satellite, corona così un percorso in cui si possono incontrare l’improbabile macchina per volare di Gustav Mesmer, inventore e paziente psichiatrico ossessionato dal sogno del volo, il prototipo Letatlin (1929-32, ricostruito nel 1991), a metà strada tra invenzione leonardesca ed exploit tecnologico, del costruttivista sovietico Vladimir Tatlin, le inquietanti appendici piumate di Rebecca Horn, o i modellini volanti di elicotteri che sciamano come insetti nel video di Roman Signer 56 kleine Helikopter (2008).
I momenti più singolari e intensi di L’Envol sono quelli in cui il tema è sviluppato in sensi meno letterali, dove il volo diviene elevazione spirituale, o spiritista, delirio visionario, danza, allucinazione. In linea con la passione per l’art brut e le figure marginali e idiosincratiche che ha sempre caratterizzato il programma della Maison Rouge, questi passaggi sono spesso affidati a outsiders come Friedrich Schröder Sonnenstern (1892-1982), i cui pastelli colorati sono stati molto amati dai surrealisti, lo statunitense Henry Darger (1892-1973), con i fantastici acquarelli tratti dalla sua sterminata e delirante raccolta postuma In the Realms of the Unreal, o le multicolori evocazioni di apparizioni di UFO di Melvin Edward Nelson (1908-1992).
Altri autori di profilo similmente irregolare si situano in un territorio a cavallo tra delirio privato, utopia umanista e immaginario tecnologico. Come Karl Hans Janke (1909-1988) ad esempio, ospite per decenni di istituti psichiatrici tedeschi, eccentrico progettista di gigantesche e inverosimili macchine volanti destinate a trasportare centinaia di passeggeri, e autore di visioni cosmogoniche fissate in disegni e gouache di grande suggestione. O come Adolf Wölfli, una delle prime e più note figure dell’art brut – il suo lavoro fu fatto conoscere, tra gli altri, da Jean Dubuffet e da Harald Szeemann, che lo espose a documenta 5 nel 1972 –, i cui grandi disegni minuziosamente eseguiti, come in mostra la grande veduta a volo d’uccello di una città con mura e torrioni, fanno parte della sua sterminata e visionaria autobiografia immaginaria. Non mancano tuttavia opere di autorship più collaudata, come l’installazione How Can One Change Ourself (2010-18) di Ilya ed Emilia Kabakov, già vista di recente al MAXXI di Roma, teatro di un’esistenza sospesa tra progetto di fuga e rêverie, la performance in pallone di Otto Piene (Sky Kiss-Linz, 1982) o la molle e carnale massa sferica in caucciù di Nobuko Tsuchiya (11 Dimension Project 2, 2011).
E tuttavia, benché suggestive, queste e altre scelte ancora appaiono in gran parte solo incidentalmente legate al tema, per lo più per via iconografica, ma senza che questo dia luogo a ragionamenti o indagini di ordine più generale, ad esempio in direzione di una migliore comprensione dei modi con cui l’immaginario del volo si è evoluto attingendo tanto alla tradizione artistica vera e propria che alle fonti della cultura popolare o all'illustrazione tecnica, oppure guardando con spirito più critico al peculiare fondo psichico e antropologico attivo nelle rappresentazioni, specie nel caso dei numerosi outsiders presenti in mostra. L’atteggiamento di fondo – in questa come in gran parte delle mostre che hanno segnato l'attività della Maison Rouge – è e rimane in effetti, con le sue virtù e i suoi limiti, quello della scelta idiosincratica, della predilezione collezionistica per l’eccentrico, il raro, l’inusuale. Un atteggiamento di cui Walter Benjamin fissò in un saggio famoso, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (1937), il profilo eminentemente moderno, che va alla ricerca di sempre nuovi oggetti nei «territori estremi» in cui le vecchie distinzioni (high art e art brut, colto e popolare, elitario e di massa, ecc.) perdono valore, e la collezione stessa, da tesoro privato diviene oggetto pubblico.
Come altre che l’hanno preceduta negli stessi spazi, L’Envol presenta in effetti il mondo, la sua storia, come una democrazia magica, anarchica, illimitata, senza conflitti e senza negativo, dove lo spettatore-consumatore si sente libero di cedere alla meraviglia, libero da ogni pedagogia, libero di immaginare, evadere, godere: si può guardare tutto e dimenticare tutto. Un confronto immediato è con un’altra mostra, di ben più ampie proporzioni e ambizioni, in corso a Parigi in queste settimane: UAM. Une aventure moderne (Centre Georges Pompidou, fino al 27 agosto), dedicata alle origini e alle vicende della Union des Artistes Modernes, il gruppo-faro del modernismo francese. Con i suoi nomi eccellenti, da Eileen Gray, Le Corbusier, Mallet-Stevens, a Charlotte Perriand e Jean Prouvé, la mostra è ricchissima di opere, modelli, immagini, documentazione, che misurano anno dopo anno l’evoluzione di architettura, design e arti decorative in Francia, dal gusto Art Nouveau del primo decennio del XX secolo al razionalismo modernista di cui il gruppo UAM, fondato nel 1929, fu tra i maggiori interpreti.
Nella mostra, il film di Man Ray Les Mystères de Château du Dé, girato nel 1929 nella Villa Noailles a Hyères, progettata da Robert Mallet-Stevens per la coppia di facoltosi mecenati Charles e Marie-Laure de Noailles, è forse l’inaspettato momento di sintesi tra le diverse sfaccettature del movimento moderno francese. Forse nessuno come il grande artista surrealista è riuscito infatti a catturare con più sottigliezza la singolare mescolanza di formalismo, lusso, erotismo ed ennui che in Francia segna molti aspetti del modernismo tra anni Venti e Trenta, un momento storico in cui le spinte alla trasformazione sociale e alla palingesi politica, la severità e frugalità connaturate al messaggio dell’avanguardia si stemperano in una versione al tempo stesso purificata ed edonista, in cui le linee raffinate degli edifici e degli oggetti di design si caricano di un’eleganza insieme fredda e sensuosa.
Forse per questo, pure con tutta la sua ricchezza di spunti storici e culturali, la presenza di rari e straordinari originali, la sua compostezza didattica, al di là della stessa indiscussa grandezza dei suoi protagonisti, la mostra non riesce a ripensare l’utopia modernista se non come celebrazione di se stessa. Resta freddamente racchiusa nelle proprie geometrie, nei pattern eleganti, nell’accumulazione delle superfici levigate di acciaio e vetro di oggetti e architetture, simili a splendidi, algidi testimoni di un tempo non ritrovato.
[VIDEO::https://youtu.be/V6bSygUuU9o]
Alla fine, pur con tutti i suoi evidenti difetti, occorre però riconoscere a L’Envol una qualità dolorosamente assente in troppe mostre recenti, piccole e grandi. La capacità cioè di attingere a immagini considerate come eventi in sé, più che come supporti di petizioni moraliste o di schedature erudite. Immagini che sembrano essersi imposte quasi già fatte a chi le ha realizzate, per quanto strane, perturbanti, impreviste, non evolute, e che a dispetto della loro sempre contingente, storica e dialettizzabile novità, appaiono pretendere da chi le guarda anzitutto il riconoscimento, sempre in bilico tra adesione irragionevole e clinico distacco, del loro essere impreviste e imprevedibili.
L’immagine che riassume tutto questo è anche la prima in cui si imbatte lo spettatore, la proiezione della celebre, folgorante sequenza iniziale de La dolce vita di Federico Fellini, in cui una grande statua di Cristo sorvola appesa a un elicottero la città di Roma, dalla campagna con i ruderi degli acquedotti romani ai nuovi palazzoni della periferia moderna fino a San Pietro, sintesi fulminante di una paradossale, insieme euforica e malinconica, transizione dal passato al futuro. La eccezionale densità simbolica dei fotogrammi felliniani, il loro potere di convocare in forma ambivalente, ossimorica, lo spessore di una contraddizione che è insieme politica e antropologica, privata e collettiva, materiale e poetica, è precisamente ciò che folgora quel presente e seguita a riproporcene l’appassionante enigma. Come scrisse un critico dell’epoca, Pietro Bianchi, Fellini riaffermò con La dolce vita una vecchia idea cara ai romantici; che cioè in epoche di crisi, di trapasso da una civiltà troppo conosciuta a un’altra che appena si intuisce, solo l’artista riesce a conferire coerenza vitale ai fatti immotivati della realtà che lo circonda. È probabile che si debba insieme sorridere di questa ingenua fiducia e continuare a ritenerla una indispensabile possibilità.