Marco Franzoso. Il bambino indaco

27 Febbraio 2012

Il titolo del nuovo libro di Marco Franzoso, Il bambino indaco (Einaudi, 16€, 132 pagine) ha qualcosa di esotico e insolito; esso fa riferimento a una teoria emersa nella cultura New Age che sostiene l’esistenza di bambini speciali, riconoscibili dall’aura di colore indaco e caratterizzati da un’intelligenza superiore e originale capace di indicare la via per una rigenerazione salvifica del mondo. La citazione sulla copertina “Chi sei? Chiedo silenziosamente. Qual è il tuo segreto? Perché non ti conosco?”, che sembra dialogare con il volto rotondo del bambino in primo piano, rinforza la fascinazione; ciononostante, a libro terminato, la delusione che segue a tanta aspettativa, che aveva avuto sin da subito un vago sapore di falsità, è forte.

 

Il libro comincia con la descrizione della scena di un delitto: il corpo di una donna disteso sul tappeto di un salotto, il petto forato da numerosi colpi di pistola. Le immagini e le voci ci arrivano filtrate dalle sensazioni convulse di Carlo, protagonista/narratore e marito della vittima; un bambino, secondo le parole del maresciallo, sembra essere “in salvo”; la madre di Carlo è in camera, sedata dai farmaci perché in stato di shock. Come si è arrivati a quella “disgrazia” definita come “perdita totale del senso”? Quale il ruolo della madre di Carlo? Perché il corpo di Isabel, la moglie, pesa trentotto chili e mostra i dettagli di una “magrezza impressionante”? E qual è la funzione del bambino che, a partire dal titolo, ci figuriamo circondato da un alone magico e azzurrato?

 

“Ora il mistero di questo corpo sta davanti a me e mi chiede di ricostruire una storia, la mia e quella di Isabel”: con queste parole la narrazione assume la struttura di un flash-back intervallato da salti ricorsivi al presente, dando origine a due serie temporali parallele che si ricongiungono alla fine nella comprensione dell’evento.In questo modo il lettore ridisegna la curva vertiginosa di ciò che è accaduto: la prima cena al ristorante, i fine settimana appaganti nella dimensione sospesa del candido appartamento della ragazza, l’apparire del pallino blu nel foro del test di gravidanza. La notizia dell’arrivo di un figlio, che secondo le previsioni di una chiropratica sarà indaco, muta l’atteggiamento di Isabel in modo repentino, troppo repentino, e in poche pagine la donna si trasforma in un’altra creatura: i tratti e gli stereotipi che comunemente descrivono l’anoressia si concentrano grossolanamente in una nuova personalità terrorizzata dal cibo, dall’inquinamento e ossessionata da una necessità di purificazione assoluta che non riesce a trovare soddisfazione.

 

A questo punto il romanzo si trasforma in un racconto horror: l’intruso è in casa, la follia si è impossessata di tutti gli aspetti della vita della coppia e del nuovo nato, Pietro, che viene nutrito esclusivamente di cetrioli, succhi di fico e pappine ipocaloriche. Parlo di horror perché è proprio questo l’effetto suscitato: la presenza del male assoluto, senza cause e senza storia, irrompe nella scena lasciando il lettore incredulo e disorientato. La violenza raggiunge il suo culmine quando Isabel somministra di nascosto dei purganti a Pietro causandogli un evidente ritardo nello sviluppo. L’atmosfera mi ha fatto ripensare al film di Haneke, Funny Games, in cui il tema era proprio lo scatenarsi della violenza nella vita dell’uomo, senza che questa abbia padre, storia, origine. Non è purtroppo il caso del romanzo di Franzoso che non riesce a cancellare nel lettore la sensazione di gratuità di alcune immagini e scelte narrative.

 

La reazione di Carlo è ambigua e difficilmente interpretabile: egli non riesce a fare di meglio che assecondare Isabel nel tentativo di sottrarle il bambino prima che lei possa nuocergli definitivamente; ma la soluzione finale non viene da una qualche trasformazione interiore del protagonista che possa fornire il senso di tutto questo scrivere, ma dalla madre di Carlo, personaggio senza ombre, che si prende la responsabilità di dare la morte a Isabel, come se fosse l’unica via percorribile di fronte a una mente tanto sconvolta.

 

Lo stile è conciso, i periodi brevi, sincopati, simili a singhiozzi, che all’inizio possono trovare giustificazione nello stato di ansia e precarietà del protagonista; tuttavia questa scansione ritmica attraversa tutto il romanzo e fa della giustapposizione di frasi e immagini la propria cifra stilistica, forse per significare ancor di più la volontà, da parte dell’autore, di non fornire una comprensione definitiva e completa. Peccato che non vi siano altri elementi a compensare questo vuoto, lasciando chi legge con la strana sensazione di aver divorato un libro e di avere ancora una fame tremenda.

 

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