Marco Petrus. Atlas

20 Maggio 2014

Scorci prospettici vertiginosi, colori brillanti, pastosi bianchi e neri, mobili geometrie: al primo impatto, i quadri di Petrus (Marco Petrus, Atlas, Triennale di Milano, 29 aprile-2 giugno 2014) sono una festa per gli occhi, celebrazione incondizionata dell’architettura, sua felicissima, appassionata illustrazione. Nuovo lustro, nuova gloria le facciate ricevono sulla tela; senza nulla perdere del proprio rigore compositivo si fanno fantasmagoria,  lampo caleidoscopico. Eppure, a uno sguardo successivo, qualcosa ci inquieta. Qualcosa manca, in queste scene urbane. Queste visioni sono innaturalmente nette, nitide, pulite. Viene alla mente il Rêve parisien di Baudelaire, sogno di una città di pure forme di metallo e marmo, da cui è stato rimosso l’elemento vegetale, bollato dallo splenetico  sognatore come irrégulier. Ecco: nei quadri di Petrus mancano quegli elementi “irregolari” che nella vita di ogni giorno offuscano, spezzano, “sporcano” la nostra visione degli edifici: alberi appunto, insegne, cartelloni, semafori, trame di cavi, lampioni, traffico, auto in sosta. La città viene ricondotta alla sua forma pura. Ma appunto questa purezza è sottilmente perturbante.

 


Penso ai paesaggi urbani di Sironi, alle piazze di De Chirico. In Sironi, l’architettura è dramma. Le sue forme –ciminiere, viadotti, anonimi casermoni periferici- incombono grandiose e fatali sui rari passanti come una severa necessità, un destino. L’abitare ci interpella come una questione morale. In De Chirico, l’ambigua familiarità dei portici, dei castelli, delle spianate rinvia a una dimensione ulteriore, arcana. Persino i treni, faticosamente sbuffanti sotto cieli giallo-verdi, diventano larve fantastiche. Per quanto straniati, comunque, gli edifici di Sironi e di De Chirico si collocano in uno spazio “naturale”: gravano su una terra, sono sovrastati da un cielo. Nei quadri di Petrus, invece, la terra è rimossa; il cielo è un fondale senza profondità, un fondo-oro (ocra, blu, rosso) come quello delle pale d’altare. Facciate come madonne, come icone di santi. Ciechi totem. Dalle infinite finestre in fuga nessuno si affaccia. Non ci sono abitanti, né passanti. L’architettura è sola. Alto e basso si rovesciano, si scambiano (vedi la serie upside-down), le case fluttuano nel fluido di prospettive rotanti, come in una simulazione al computer.

 


Che ora è, in queste chiarissime allucinazioni? Nei titoli di De Chirico (Enigma di mezzogiorno, Pomeriggio d’autunno, Meditazione mattutina) l’ora del giorno entra nel gioco della rappresentazione. In Petrus non c’è alba, tramonto, non c’è notte, non ci sono stagioni: la luce è un chiarore fisso d’Olimpo, d’Iperuranio.
In De Chirico, in Sironi, la Storia grava sugli scenari urbani: li trasfigura, li deforma, li spasima. Nell’atlante di Petrus, a dispetto degli occasionali riferimenti nei titoli, spazio e tempo restano fuori scena: date e nomi dileguano, Helsinki Milano Napoli sono lo stesso, unico luogo. Nelle immagini della serie Dalle belle città, i monumenti di un Novecento favoloso si ammucchiano come vecchi balocchi nella stanzetta di un bambino disordinato (qui viene in mente Savinio). Il loro monére, i loro gloriosi spigoli si incrociano e si oppongono come artigli, come aculei; le acute ragioni che li hanno generati urtano l’una contro l’altra come passeggeri in un autobus gremito. La Storia è questo solenne sgomitare, questa catasta altamente formicolante. Eppure, nel silenzio e nel gelo di una dimensione post-umana, le geometrie di Petrus sembrano ancora, disperatamente, voler dire.

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