Mare e Sardegna

30 Ottobre 2016

“Finalmente ti sei organizzato delle belle vacanze”. L’approvazione di mia madre è il viatico a un’estate meno on the road del solito, con alcune giornate dedicate al mare, ai bagni, alla famosa “aria buona”, così rara quando si torna in città. E così, dopo un breve volo notturno Pisa-Alghero, eccomi sulla Carlo Felice in una Sardegna dove la notte coincide col buio. Sento soprattutto le buche della strada che mi conduce verso Riola Sardo, in mezzo al Campidano, a pochi chilometri dallo stagno di Cabras, dove un’amica milanese ha ristrutturato con garbo e rispetto una casa di paese e vi trascorre molti mesi all’anno. Attraverso di lei conoscerò una piccola, informale, comunità di sardi e di continentali che vivono un po’ fuori dagli schemi e amano questa terra di cui sono giustamente orgogliosi. Anch’io amo la Sardegna e riprendo qualche pagina di Mare e Sardegna, il bellissimo reportage che D.H. Lawrence scrisse dopo aver trascorso qualche giorno nell’isola nell’inverno del 1921.

 

Lo scrittore inglese la paragona a Malta, lost between Europe and Africa and belonging to nowhere. L’unicità della Sardegna, left outside time and history, è data prima di tutto dalla conformazione geografica: il drammatico, magico, senso dello spazio che manca nel Continente, le montagne che cadono in mare (io me ne accorgerò a Lanusei che precipita sul golfo di Arbatax) le pietre millenarie, i volti, i corpi, che spesso sembrano scavati in quella pietra.

D’estate in Sardegna si va per andare al mare. Quasi una colonizzazione. Ora però lo fanno anche i Sardi. E così attorno al ferragosto un intero popolo prende d’assalto le meravigliose spiagge del Sinis, Putzu Idu, Is Arutas, S’Archittu e tante altre. Viene in mente il collezionista di sabbie, quel personaggio di cui racconta Italo Calvino: qui in pochi chilometri avrebbe arricchito la propria collezione di granellini di quarzo bianchi, rosa, blu. Meraviglioso è anche il colore dell’acqua, la sua trasparenza, con buona pace dei Caraibi. 

 

Ph Henri Cartier-Bresson.

  

Io però dopo qualche giorno al mare mi rompo le scatole e allora organizzo una giornata di visite nell’interno: il bel museo di Costantino Nivola a Orani, un artista che trova la sua fortuna negli Stati Uniti ma non smette di rielaborare la memoria della Sardegna nel suo lavoro; l’incredibile vicenda di Maria Lai, la tessitrice di comunità, a cui Ulassai, paesino in mezzo all’Ogliastra con una spettacolare strada scavata nella roccia che la raggiunge, ha dedicato una Stazione dell’arte dove si vedono i telai rielaborati e, sparsi per il paese, una serie di interventi site specific che l’artista ha voluto dedicare partendo dai luoghi della comunità (il lavatoio comunale). In una giornata che sembra non finire, con Caterina visitiamo anche Fonni, Gavoi, la Sardegna dell’Ogliastra, della montagna attorno al Gennargentu, e utilizziamo l’ultima, magica, ora di luce agostana per raggiungere, attraverso una strada poderale, Silanus, il cuore della mia Sardegna.

 

Le strade in Sardegna sono state costruite, l’isolamento è stato spezzato, ma come accadde nell’Appennino del dopoguerra, quando servirono per scendere in pianura e trovare lavoro nelle fabbriche, sono oggi utilizzate per raggiungere gli aeroporti dell’Isola ed emigrare. Chi resta aspetta un concorso, vive di una pensione. Prima di partire ho letto Addio, il bel reportage che Angelo Ferracuti ha dedicato al Sulcis, dove i minatori non solo hanno perso il lavoro, ma anche la speranza di un futuro possibile; ho visto anche Capo e Croce, il documentario che Paolo Carboni e Marco Antonio Pani, hanno dedicato alle ragioni dei pastori, alla precarietà di un lavoro che fu fonte di ricchezza e che oggi è svolto con sempre maggior precarietà.

 

If one travel, one eats. Come non essere d’accordo con l’icasticità di Lawrence e così dedichiamo qualche ora all’esplorazione della Marmilla (l’etimo deriva da mammella), una serie di colline tondeggianti, geologicamente più recenti rispetto al resto dell’Isola, un’area ricca di nuraghe, giare, spesso non segnalati. C’è la possibilità di sentirsi dei piccoli Ceram (da bambini volevamo fare tutti gli archeologi dopo aver letto i suoi libri), ma la nostra destinazione è Sinni, un paese di qualche centinaia di anime (Lawrence forse avrebbe scritto: in the middle of nowhere) dove Roberto Petza, dopo esperienze in giro per il mondo, ha aperto un piccolo, elegante, ristorante, con qualche stanza per soggiornare. Suo scopo è valorizzare non solo la cucina del territorio (s’è meritato una stella Michelin), ma proprio il territorio. La sua è una scommessa coraggiosa, difficile, che dà lavoro a 25 persone.

 

Dopo un pranzo memorabile, semplice e raffinatissimo – lo chef è un sostenitore della cottura a bassa temperatura per mantenere intatti i sapori (la dimostrazione è una sua versione dell’uovo in camicia) – esce dalla cucina e con simpatia ci racconta un apologhetto in campidanese (poi tradotto in italiano e francese per rendere edotti tutti gli astanti) sulla natura invidiosa dei sardi e ci invita a tornare in autunno, quando organizzerà corsi di cucina

E così ora, tornato in città, penso a cosa farà Francesca , che ha sette vite come i gatti, a Daniela innamorata “di terra”, a Daniela “di mare” con la sua barca a vela, al misterioso Jean Claude, comandante del Calypso di Jacques Cousteau, che ora, eremita con uso di mondo, vive in un bosco, penso alla luce più dolce che accarezza una terra dove voglio presto tornare.

Un menu completo, dall’antipasto al dolce, con molti assaggi e divagazioni di giornata, costa 65 euro a cui è da aggiungere il vino, con una ricca carta che tiene conto dei grandi progressi dei vini dell’Isola. Fantastico il dolce di more, ma tutto oscillava tra il buono e il buonissimo. Ci si alza da tavolo non appesantiti. Ristorante S’Apposentu, Siddi, tel.0709341045 (meglio prenotare, i tavoli non sono molti).

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