Massimo Fusillo. Feticci
È un itinerario zigzagante, frammentario, pullulante di immagini e riferimenti quello che Massimo Fusillo ci propone nel suo ultimo libro dedicato al tema affascinante e complesso del feticcio (Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, il Mulino 2011, pp. 224, € 20). Attraverso uno stile che dichiaratamente ricalca le caratteristiche dell’oggetto della sua ricerca, l’autore offre al lettore un ricco quadro di accostamenti che tiene insieme spezzoni di letteratura, arte e cinema, opere del passato così come del presente. Il tutto servendosi di una prosa che mescola volentieri la descrizione con la saggistica e la citazione.
Uno stile che richiama immediatamente quello di alcuni dei capolavori incompiuti del Novecento, primo tra tutti I Passages di Parigi di Benjamin, testo chiave, non a caso, come ricorda lo stesso Fusillo, per comprendere il ruolo che il feticismo svolge nella modernità. L’autore fa proprie alcune delle acquisizioni fondamentali di quella letteratura novecentesca che sfoceranno sul finire del secolo nella “svolta visuale” che contraddistingue molti degli studi culturali contemporanei. In cui il fatto di porre la dimensione del visuale al centro della propria indagine, fa saltare le gerarchie tra alto e basso, tra arti superiori e arti inferiori, immagini artistiche e immagini tout court, a favore di un approccio intermediale oltre che interdisciplinare (W.J.T Mitchell).
Tenere assieme Goethe con Pamuk e Boltanski, o Flaubert con Elia Kazan, per citare solo alcuni dei begli accostamenti che l’autore propone, significa, allora, per Fusillo molto di più che fare della comparatistica. Significa promuovere uno stile di ricerca che tenga conto della complessità e del polimorfismo che contraddistinguono la realtà culturale e immaginaria della realtà attuale, in cui i confini tra le varie discipline non smettono di contaminarsi, costringendo lo studioso a confrontarsi con i più svariati ambiti dell’esistenza (moda, design, pubblicità). Da questo punto di vista la scelta del feticcio come oggetto di analisi conferisce a quest’ultimo un valore di concetto metaletterario.
Non è tanto il feticcio in qualità di singolo oggetto che interessa qui all’autore esaminare, quanto piuttosto il tipo di sguardo che questo implica. Una tipologia di sguardo che, sottolinea Fusillo, ha molto a che fare con la creatività artistico-letteraria e che troppo facilmente, invece, si squalifica come fenomeno perverso individuale. Letteratura e feticismo, così com’è stato pensato da Freud, hanno in comune la capacità di focalizzare ed infinitizzare il dettaglio, creando – afferma Fusillo – attraverso investimenti emotivi e affettivi, dei mondi alternativi. Da qui anche la forza dell’immagine fotografica che si fonda sulle stesse dinamiche (Baudrillard) e che non a caso oggi conosce un’enorme diffusione.
È alle radici antropologiche della pulsione scopica che questo lavoro sul feticcio e sul feticismo ci vuole ricondurre, nella consapevolezza che non vi è più un primato degli studi umanistici sulle altre discipline. Cinema e psicoanalisi, da questo punto di vista, rimangono delle discipline ancora tutte da indagare.
L’originalità del lavoro di Fusillo sta nel superare le “valutazioni troppo ideologizzate e talvolta moralistiche del feticismo che hanno dominato il Novecento, come sono in parte, pur nella loro vitalità, la teleologia marxiana, il determinismo freudiano e anche una certa apocalitticità benjaminiana” (Ivi, p. 29). Così come il tentativo di leggere come speculari, e non come antitetici, i fenomeni dell’oggetto-feticcio e quello dell’oggetto desueto. Se per Francesco Orlando (1993), infatti, l’oggetto desueto incarna l’emblema dell’“antimerce” a cui molti scrittori si sono rivolti in opposizione all’atteggiamento più generalizzato di attrazione e sacralizzazione delle merci; per Fusillo si tratta piuttosto di individuare nella fascinazione per l’inorganico l’elemento che accomuna l’oggetto non funzionale e il feticcio. Indicativi, da questo punto di vista, sono il sex-appeal dell’inorganico di cui parla Benjamin e l’attrazione per l’inanimato che si trova espressa ne Il perturbante freudiano. Dove in entrambi emerge chiaramente un elemento d’inversione tra persone e cose e dove una certa tendenza, tipica del flâneur, a valorizzare gli oggetti nella loro autonoma e bruta materialità non può che coesistere con la tendenza opposta a proiettare sugli stessi valori affettivi ed emotivi (Hoffmann, L’orco insabbia).
Oggetti ammantati di valori magici, rituali e sacrali svolgono, sin dagli albori della letteratura, un ruolo determinante all’interno delle trame narrative. Dalle prime forme di ekphrasis che troviamo nell’Iliade, dove tuttavia l’elemento narrativo prevarica su quello descrittivo. Alla poetica dell’oggetto che viene espressa dall’epica alessandrina di Apollobio Rodio (Argonautiche). Passando infine, per la pastorella medievale e il più tardo teatro goldoniano dove l’oggetto-feticcio viene valorizzato come simbolo sociale (Il ventaglio). Fusillo dipinge un quadro che prepara l’avvento del feticismo come vero e proprio fenomeno della modernità. Frutto della rivoluzione industriale e del suo accumulo di merci (Marx). Di cui Flaubert e Baudelaire saranno i cantori.
Di feticci si era già cominciato a parlare nel Settecento a seguito delle prime esperienze colonialiste, da cui era scaturita una concezione pressoché negativa dell’utilizzo dei feticci, quali espressione di una religiosità primitiva, incolta (Charles de Brosses, Sul culto degli dei feticci). La parola latina facticium rimanda, infatti, all’idea di contraffazione, artificio. Legato a credenze antiche e magiche ritroviamo più tardi questo tipo di oggetto, all’interno di alcuni dei capolavori che appartengono alla grande stagione del romanzo europeo. Dal Goethe delle Affinità Elettive al Dickens di Grandi Speranze l’oggetto posto al centro delle dinamiche narrative assume il ruolo di oggetto-memoriale, attraverso cui vengono messi in atto meccanismi di sostituzione fantasmatica o con cui al contrario i personaggi si identificano, secondo un’accezione mortifera dell’identificazione con gli oggetti non (più) funzionali.
L’oggetto-feticcio pensato in termini di oggetto-memoriale conoscerà infine una grande fortuna anche nella contemporaneità. Pensiamo, per restare in ambito letterario, alla sputacchiera de I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, o alla collezione di oggetti dell’amata che diventa museo ne Il museo dell’innocenza di Pamuk. L’oggetto come accumulo fisico e contemporaneamente memoriale trova però la sua massima espressione, nel corso del Novecento, nelle arti visive. Da Duchamp (Étant donneés) a Sophie Calle e Louise Bourgeois le cui opere si contraddistinguono per il carattere autobiografico e memoriale, in cui gli oggetti svolgono il ruolo di tracce personali, frammenti di vita. Per arrivare ai lavori di Boltanski in cui l’accumulo di oggetti, si fa anche in alcuni casi accumulo di immagini fotografiche nel tentativo utopico, scrive Fusillo, di “conservare ogni piccola traccia di vissuto, ma anche allo stesso tempo, [nella] consapevolezza bruciante di quanto il recupero sia in fondo vano, e di quanto l’esistenza umana sia intrinsecamente effimera” (p. 71).
Il tragitto di Fusillo che parte dall’animazione degli oggetti, attraversando la loro forza mitopoietica e la loro teatralizzazione, culmina con l’accentuazione nella contemporaneità dell’alterità della materia bruta. Il modernismo di Proust, di Virginia Woolf e di Mann. La poesia di Montale. Il cinema di Marco Ferreri. Seppur nello loro diversità questi autori esprimono per Fusillo il punto di vista di una “discrasia fra il linguaggio e le cose, l’impossibilità per l’artista di cogliere la loro essenza nascosta, se non attraverso lampi rari e improvvisi” (p.142). È alle acquisizioni della fenomenologia di Husserl prima e di Merleau-Ponty poi che si rifanno molti di questi artisti, spostando ora l’attenzione che prima si rivolgeva direttamente agli oggetti, sulle dinamiche soggettive della percezione e della visione. Visione che costretta a rinunciare alla totalità non può che procedere per dettagli.
Sulla scia dell’esplosione della soggettività e del tempo emersa nella modernità si colloca infine la letteratura postmoderna. La quale, però, non rinuncia al grande affresco epico secondo una logica, non lontana da quella di un certo cinema (Robert Altman, America oggi), che fa assurgere il frammento a sistema. La letteratura massimalista (Foster Wallace, Philip Roth) si contraddistingue, infatti, per la contaminazione dei codici con un riferimento costante alle arti visive. Underworld di Don DeLillo ne è un emblema con il suo immediato richiamo sin dal titolo ad un film di Ejzenstein (Unterwelt). In quest’opera troviamo da una parte un riferimento ai rifiuti e alla discesa mortifera negli inferi. Dall’altra, invece, l’elevazione di un oggetto-feticcio, una palla da baseball, a icona spettacolare. A riprova ancora una volta di come le due anime del feticismo non possano mai essere scisse l’una dall’altra.
Interposta tra la superficie smagliante degli oggetti, che la letteratura postmoderna e la Pop art ci mostrano nella loro infinita riproducibilità e serialità, e l’abisso memoriale degli oggetti desueti, è come se ci fosse una pelle. La stessa pelle che è la materia delle immagini. Una fotografia, verrebbe da dire, ma qui, prima di aprire un’altra immensa questione, ci fermiamo.