Massimo Recalcati, la Bibbia e la psicoanalisi 

25 Luglio 2022

Il testo di Massimo Recalcati, La legge della Parola. Radici bibliche della psicanalisi (Torino Einaudi, 2022, pagine 400) verosimilmente diventerà un classico della saggistica, e questo per un motivo molto semplice: l’autore ci offre in maniera sistematica e approfondita una sorta di antropologia biblica della psicanalisi, una specie di fondale di senso dentro cui si riesce a rileggere non solo la pratica della psicanalisi, ma molti aspetti della nostra contemporaneità e dell’essere umano stesso.

Proprio per questo aspetto in realtà è molto difficile collocare lo studio di Recalcati in un ambito ben definito. Il potenziale di queste pagine è destinato a fecondare molti ambiti di molti saperi. Penso ad esempio a come si potrebbe ripensare un intero approccio teologico a partire proprio da queste intuizioni, o a come ci si ritrova disarmati, dopo la lettura di queste pagine, nell’accostare l’atea riflessione della psicanalisi in maniera vetustamente conflittuale con l’ambito religioso. 

Per stessa ammissione dell’autore la scrittura di questo testo non riguarda solo un periodo recente della sua produzione e della sua riflessione, ma comprende una parabola di tempo abbastanza lunga testimoniata dalla profondità di lettura di alcuni brani biblici e di alcune folgoranti intuizioni e relazioni concettuali che a mio parere non ci offrono solo una chiave di lettura nuova, ma insegnano un vero e proprio metodo di lavoro e di riflessione. 

Ciò che il libro non è.

C’è però bisogno di una doppia premessa che dica apertamente e fin da subito ciò che questo libro non è. 

Esso non è innanzitutto un tentativo di psicanalizzare il testo biblico, bensì esattamente il suo contrario. Il testo biblico è infatti preso come rivelativo e provocante proprio verso la psicanalisi, e Recalcati ne traccia una mappa già percorsa da grandi pensatori come Freud e Lacan, ma in alcuni casi spalanca sentieri che sono ancora tutti da percorrere e scoprire. 

La seconda premessa riguarda la ‘rinuncia ideologica’ che Recalcati fa fin dall’inizio del testo, infatti davanti a grandi pensatori come Freud e Lacan, o davanti alla grande tradizione biblica giudaico-cristiana si può stare con la postura fanatica del discepolo integralista che non ammette nessuna difformità al pensiero del maestro. Freud e Lacan possono essere idolatrati fino al punto da tradire proprio l’intuizione ‘eretica’ del loro pensiero, l’originalità del loro contenuto, la capacità di dire qualcosa di nuovo lì dove regna ripetizione o muro.

Lo stesso testo biblico può essere impugnato come una spada per ferire, dividere, uccidere, contrapporre, diventando uno strumento di morte e venendo meno a ‘quell’abbondanza di vita’ di cui è portatore. Recalcati vaglia, riporta alla memoria il pensiero dei grandi, considera le interpretazioni bibliche più tradizionali, ma esercita anche la libertà di contraddire, correggere o semplicemente indicare una lettura altra. Questo metodo è come l’alcol su una ferita: da una parte impedisce l’infezione del ripiegamento, ma dall’altra provoca il bruciore del narcisismo che è sempre nascosto nel cuore del discepolo integralista che leggendo i propri maestri e la propria tradizione in maniera ideologica, mal sopporta una differenza, interpretandola sempre come eresia. Ma ogni vero contributo è sempre attraversato da una ‘eresia necessaria’.   

Il primo tempo di un dittico.

La Legge della Parola è in realtà solo la prima parte di un doppio discorso che speriamo presto di vedere arrivare alla sua conclusione con la pubblicazione del secondo volume. Così come il testo biblico è diviso nell’Antico e nel Nuovo Testamento, così Recalcati in questa prima parte si concentra sul cuore dell’Antico Testamento, la Torah, mostrando come appunto il cuore della Legge è la Legge di quella Parola che taglia, che struttura nell’uomo una mancanza necessaria. È il tempo della riconciliazione con la propria creaturialità. 

È proprio la dimenticanza del proprio limite e della propria debolezza la radice di quel delirio di onnipotenza che ci fa aspirare a volerci fare Dio. I racconti della creazione e della prima fraternità fallita, quella di Caino e di Abele, ci mettono davanti all’evidenza che c’è qualcosa che precede l’amore ed è l’odio. C’è qualcosa che precede il legame di bene ed è la furia omicida che ci abita.

L’ammissione di questo buio atavico non dice un destino inesorabile a cui siamo condannati, ma riporta l’amore, il bene, la luce, i legami, nell’ambito di un’umanità che va conquistata e scelta e che non va mai data per scontata. Accanto a questa tremenda consapevolezza di avere radici che affondano nel buio possiamo rileggere l’azione di Dio come l’azione di una salvezza che più che liberarci da questo buio ci dà l’occasione di elaborarlo come un risvolto della luce, come la sua ombra, cioè in stretta connessione con la luce stessa.

A questo proposito la scelta di mettere in copertina un dettaglio di Il sacrificio di Isacco di Caravaggio è ben spiegato nelle pagine iniziali, ma a mio parere la scelta caravaggesca è essa stessa una scelta ermeneutica, una chiave di lettura della tesi del testo di Recalcati: Caravaggio dipinge la luce ma lo fa sempre a partire da un evidente buio. Il buio è la profondità della luce non la sua semplice negazione.

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La salvezza di Dio non è il disfacimento del buio ma la sua nuova finalizzazione. Il Dio biblico non cancella la debolezza, il limite dell’uomo, ma lo trasforma in un punto di forza, esattamente come la pratica psicanalitica ha la pretesa di risignificare ciò che patologicamente vorremmo scomparisse dalla nostra esistenza, e proprio perché ciò è impossibile esso diventa angoscia, rimozione, patologia, trappola, vicolo cieco, esperienza di morte. Recalcati ripercorre la fragilità umana risignificandola, e mostrando come i racconti biblici gettano luce proprio su questo aspetto particolare.

Egli sembra difendere laicamente Dio dalle immagini distorte che nei secoli si sono sedimentate su di Lui, stravolgendo la verità di un messaggio che non si struttura sul culto del sacrificio bensì dal suo radicale affrancamento. Il Dio biblico libera l’uomo da se stesso, dall’ingombro del proprio io, ma paradossalmente lo libera anche da Dio stesso. Infatti solo l’assenza di Dio è la condizione in cui possa emergere l’uomo libero.

È l’assenza di chi ama e che proprio perché ama sa fare un passo indietro. È la conversione di Abramo con il figlio Isacco. È il crollo della torre di Babele. È il coraggio di osare la vita dopo il diluvio attraverso la vigna piantata da Noè. È la rinuncia a voler significare il dolore innocente così da giustificarlo, e che in Giobbe sembra domandare una nuova postura, un nuovo atteggiamento realizzato poi in pienezza nella testimonianza di Gesù. È il realismo urticante di Qoelet, è la forza dell’amore cantata nel Cantico dei cantici.

È l’umanissimo Giona che sembra venuto fuori da uno dei dipinti di Michel Ciry (1919-2018) dove l’eroicità delle figure lascia completamente la scena a corpi di uomini segnati dalla fatica di essere solo uomini. Recalcati attraverso questo suo testo non ricostruisce solo l’immaginario antropologico della psicanalisi ma dissoda dai calcinacci e dall’usura del tempo un affresco di Dio e dell’uomo che per troppo tempo sembrava ormai ostaggio dell’incrostature di quei fumi di riflessioni e religiosità che sembrava avessero avuto la meglio sui colori, restituendo solo la macchia di un grigio inutile alla vita concreta dell’uomo e alla contemporaneità.   

Lo stile come contenuto.

Un’ultima riflessione la vorrei riservare alla scrittura di Recalcati. Solitamente la parola è strumentale a un messaggio, a un pensiero, e proprio per questo siamo soliti pensare alla sua efficacia solo a partire dalla sua immediatezza. In realtà Recalcati sembra servirsi della parola non solo per mediare una riflessione ma per trasformarla in esperienza. In questo senso mi sembra di poter dire che ci sono due registri nella sua scrittura: la poesia e la ripetizione. 

La poesia si manifesta in Recalcati con la capacità di scegliere una parola che non sia solo formalmente corretta ma che sia portatrice di una suggestione più grande. Non è la semplice trasmissione di una nozione ma anche la sua consistenza più concreta, più esistenziale. Anche la Verità ha un sapore, un colore, un odore, uno splendore, e si può parlare di cose molto difficili che sfiorano la logica matematica e allo stesso tempo umanizzarle fino al punto da suggerire che esse non sono solo idee corrette, ma idee vere in quanto verificabili da tutta la nostra esperienza umana. Mi sembra il medesimo contributo che ci è stato donato dai testi del neurologo e scrittore Oliver Sacks (1933-2015). 

Alla poesia c’è da aggiungere la ripetizione: molto spesso si ha come l’impressione che Recalcati indugi più e più volte sulla stessa affermazione, ma in realtà ci si accorge che essa è come lo scavo in profondità di ciò che non può e non deve rimanere in superficie. Allora la ripetizione è come lo sfogliamento di un carciofo che pezzo dopo pezzo ci conduce al suo cuore oscuro. 

In questo senso vorrei riprendere ciò che dicevamo all’inizio: il lavoro di Recalcati non aggiunge solo contenuti ma sembra dettare un metodo, uno stile di ricerca e una modalità di trasmissione che esulano anche la semplice questione biblica e psicanalitica. Un testo così non ha facile scadenza, è destinato a durare. 

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