Edmondo Bruti Liberati / Delitti in prima pagina

10 Aprile 2022

I rapporti tra autorità giudiziaria e informazione sono sempre stati scivolosi, ondeggianti alla costante ricerca di un punto di equilibrio. Edmondo Bruti Liberati, in un libro colto e ricco di spunti (Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Cortina, 2022), riepiloga i termini del problema senza sconti verso l’istituzione di cui è stato autorevole esponente milanese negli anni successivi a Mani Pulite. Un libro anche coraggioso, perché segnala taluni comportamenti della magistratura non all’altezza del suo prestigio e delle sfide che la attendevano perché autoreferenziali e protagonisti, a scapito delle buone prassi che si registrano invece in molti uffici giudiziari.

 

La spigolosa relazione tra società, cittadino e giustizia è stata una cartina di tornasole, come dimostra la sua storia. Già nelle prime pagine del volume se ne parla, agli esordi dello stato liberale, quando nel 1872 cominciava la pubblicazione a Milano della "Rivista dei dibattimenti celebri", poi divenuta "Giornale dei Tribunali". Si delineava un complessivo disegno sociale che vedeva il passaggio dalle procedure segrete, inquisitorie, di stampo illiberale a quelle non solo pubbliche ma pubblicizzate e spettacolarizzate. Il saggio dà conto altresì delle distorsioni che iniziavano già allora ad affacciarsi, tanto che nel 1879 il Ministro della Giustizia ritenne di intervenire segnalando che la giustizia “si rende per soddisfare al primo dei bisogni sociali, non per appagare la curiosità degli oziosi". Quest'andamento come un’onda attraversa il fascismo, e l'Italia repubblicana dei primi anni inizia a conoscere la “nera” con firme illustri (cfr. doppiozero, La nera di Buzzati), non più circoscritta ai dibattimenti in aula, ma sempre più centrata sui fatti di cronaca, sulle investigazioni, sulla ricerca delle responsabilità individuali. Davanti a questo scenario il lettore del saggio si può porre una domanda: perché questo accade? Per il protagonismo e l’ambizione di qualche giudice (soprattutto se pubblico ministero) o vi è altro? E poi: quelle conseguenze negative possono essere arginate oppure sono nella sostanza un fiume in piena che addirittura si ingrossa travolgendo tutto e tutti?

 

Una risposta emerge dalle pieghe del “codice sommerso”, di quel reticolo materiale di rapporti e umori che si alimenta in parallelo a quello condensato nelle leggi. Così procedendo emergono due aspetti dello stesso problema, connessi ma non sovrapponibili. L’uno è il processo “esterno”, quello che si svolge fuori dalle scene giudiziarie, imbastito sulle informazioni, strutturato sulle notizie, pubblicizzato dalle inchieste. Il segreto istruttorio mostra non solo buchi ma voragini lasciando fuoriuscire dati che dovrebbero rimanere segreti, per di più protetti da sanzioni inapplicate o risibili. Per dirla chiaramente si tratta di un traffico illecito di informazioni e talora anche di documenti, un mercato nero che consente ai giornali, e non solo a loro, di infarcire i resoconti con rivelazioni (gli scoop) e al pubblico di soddisfare una spesso divorante curiosità. Con una diffusa, invadente abolizione delle distinzioni che invece la giustizia penale promuove. Il volano esiste, è ben oliato, e senza di esso ad esempio la stagione di Mani Pulite avrebbe avuto ben altri percorsi.

 

L’altro aspetto riguarda i “processi mediatici”, assurti a genere autonomo di spettacolo. Si è dilatato l’“appeal” per questo intrattenimento soprattutto per il legame con la procedura in corso, per l’intervento dei protagonisti reali che forniscono il timbro dell’ufficialità, per l’impressione elettrizzante di maneggiare le prove. In sostanza cresce la “suspence” non per una storia di finzione, ma per un fatto reale di cronaca di cui si è spettatori attivi, ovviamente attraverso i fatti distillati come merce rara dai media. Malauguratamente gli scenari, quello del salotto e quello dell’aula, sono infungibili tra loro. Nei salotti non esistono regole probatorie legali con cui costruire la verità processuale, l’orologio del tempo è regolato su ritmi diversi, il giudice è il pubblico verso cui il giornalista empatizza e non un soggetto terzo e imparziale. Il contraddittorio tra le parti è nozione scarsamente apprezzata, seppur di rango costituzionale, in quanto domina lo scontro verbale in un valzer di ospiti ed esperti, in uno scenario domestico lontano da quello rituale dell’aula, molto spesso incline a rappresentare quasi esclusivamente il dolore delle vittime, impostato sul binomio divisivo tra il buono e il cattivo. Permanente è lo scivolamento da circolo virtuoso a vizioso in cui la discussione soccombe a favore della consultazione di un pubblico che vuole giudicare e non essere informato. 

 

Queste manifestazioni si legano, in un rapporto quasi meccanico, con alcune variabili abbagliate dalla modernità: la società e l’opinione pubblica.

La società oggi è sempre più emotiva, punitiva come osserva di recente Violante (Senza vendette, Il Mulino 2022), irascibile, irriflessiva, binaria e manichea. Nel contempo è insicura, manifesta paura anche per la rappresentazione del fenomeno deviante come diffuso e imprevedibile, con crescente impotenza verso il lato oscuro della società. Di qui la sfiducia verso le istituzioni che dovrebbero essere protettive e che, per riacquistare credibilità, sono sollecitate a chiedere risposte punitive di tipo simbolico. 

La sensazione che si diffonde è così di un apparato giudiziario inefficiente, inefficace, che penalizza a sorteggio, che dilata gli spazi di impunità, che compie scelte di criminalizzazione non ponderate e votate al fallimento, che si muove sull’onda di istanze di tutela e dell’allarme attivato da certe devianze vivendo le assolutorie come sconfitte epocali e ingiuste. Come animato dal bisogno collettivo di contare su un effetto ansiolitico. È la crisi di un sistema in balia dell’opinione pubblica che viene fatta partecipare, e partecipa con slancio, al governo della giustizia penale. 

 

 

L’opinione pubblica dal canto suo ha subito un cambiamento radicale. Si sono scolorite le battaglie degli anni 60-70 in cui si propugnava il diritto di conoscere e il dovere di informare. L’opinione pubblica era il cavallo di battaglia che promuoveva l’accusa, di pasoliniana memoria, di essere circondati da un Palazzo dai vetri oscurati che impediva di apprendere per giudicare, erano gli anni in cui Habermas era una guida intellettuale autorevole di queste aspettative con la sua Storia e critica dell’opinione pubblica (Laterza, 1962). Nel frattempo la comunicazione mediale instaura nuove forme slegate dalla compresenza spazio-temporale tipica del dialogo faccia a faccia. Si trasforma la sfera pubblica in arena (non a caso una trasmissione serale di successo) privilegiata del dibattito pubblico mediato, in grado di influenzare attraverso la “virtualità”. Con la società digitale le informazioni sono eccessive, si affaccia prepotente il “pericolo della dismisura”, le TV sono onnipresenti e quindi per necessità spesso superficiali, invasive, implacabili. Del resto spesso si dimentica che giornali e TV, con l’eccezione sempre più nominativa di quella chiamata pubblica, sono aziende influenzate dai bilanci e dalla concorrenza.

 

Emerge nel contempo, una direttrice neppur troppo sotterranea: il disinteresse per il cittadino come singolo che invece di essere istituzionalmente protetto, come dovrebbe essere, è schiacciato dal bisogno dichiarato della trasparenza. È stato questo un credo promosso per consentire la partecipazione collettiva anche nel giudiziario dai lontani anni 70 (Giustizia e informazione a cura di Lipari, Atti convegno ANM, Laterza 1975), come oggi quando si afferma che essa è richiesta dalle società democratiche.

È ben vero che Freud, nell’indagare sul disagio della civiltà, aveva sottolineato la tensione strutturale che si produceva con l’ingresso dell’uomo nel legame sociale, le “perdite di godimento” per poter fruire delle garanzie sociali. Oggi però la trasparenza si è affermata come diritto e nel contempo come obbligo, collocando l’uomo come funzionale di un sistema. In questo senso alcuni parlano della “violenza della trasparenza” (Han, La società della trasparenza, Nottetempo, 2012) in cui il soggetto si crede, o gli viene fatto credere, di essere libero, ma in realtà non lo è, se per libertà si intende il modo di rapportarsi anche alla sfera profonda della propria intimità.

 

Egli invece è obbligato a mostraremostrarsi, a sapereessere saputo, tutto e per tutta la verità. In sostanza si dilata un nuovo approccio all'informazione segnato dalla richiesta alla verità ad ogni costo, lasciando trasparire in filigrana un’umanità in cui tutti sono giudici e pubblici ministeri, una folla anonima di forum e social network che pretende di sapere tutto di tutti, sempre e in ogni momento. In nome dei valori di libertà che la rete esporta appiattendo le coordinate spazio-tempo, tutto cade sotto l’occhio, tutto è spettacolo perché lo sguardo è senza confini nella trasparenza della grande piazza globale. Con questa prospettiva viene oscurata la riservatezza e minacciata, talora in termini irreversibili, la reputazione individuale, in ogni campo e nello specifico nelle vicende giudiziarie. 

 

Esiste in realtà un’esigenza forte, quella di mantenere i segreti, nella consapevolezza che il raccontare determini la deformazione. Come osserva Magris “c’è intimità inviolabile tanto più nell’epoca del nudismo psicologico e della registrazione universale di massa” (Segreti e no, Garzanti, 2014). E alcuni studiosi francesi ribadiscono: “Difesa del segreto, aziendale, dell'istruzione, professionale, della confessione, segreto: tutti hanno vocazione a cedere davanti al diritto alla conoscenza sempre più concepito come diritto assoluto… Nata dalla sorveglianza del potere da parte dei cittadini e quindi dall'ideale democratico, lo minaccia oggi con i suoi eccessi, divenuta ora ideologia.” (Olivennes e Chichportich, Mortelle transparence, Albin Marcel, 2018 ). Una trasparenza degenerata descritta da Orwell nel suo 1984, dove la "polizia del pensiero" o psicopolizia spinge le indagini all'onnisciente conoscenza degli abitanti dell'Oceania. Tutti sono permanentemente esposti, gli atti, le parole, le opinioni, ed essendo scrutati continuamente scompare la libertà. 

 

Orbene, la situazione ora descritta è riparabile? Esiste una medicina efficace per superare il problema e renderlo nel futuro più accettabile? Bruti Liberati riconosce con franchezza come siano ciclici i problemi della giustizia con proposte di riforme che si ripresentano pur con vesti diverse. Con altrettanta onestà occorre sottolineare che la rassegna delle spinte riformatrici è deprimente. A tentativi nobili e coraggiosi, come la proposta espressa dalla ricerca dell’Università di Macerata su “Processo penale ed informazione” nel 1998, si sono affiancate indicazioni futuribili come le sanzioni interdittive o disciplinari verso le testate colpevoli proposte dal francese Soulez nel suo noto libello (Il circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, 1994). Non si può dimenticare il Codice di autoregolamentazione giornalisti AGCOM del 2009 che richiamava al rispetto dell’accusato, ma neanche la discutibile ma simbolica iniziativa del presidente Napolitano.

 

Questi nel 2012 graziò il giornalista Sallusti, colpevole di diffamazione con sanzione detentiva ma senza sospensione condizionale della pena perché già utilizzata. Scontava pertanto la misura in modalità non detentiva in regime domiciliare, cioè a casa, ospitato. Il Presidente annullò la sanzione commutandola in pena pecuniaria, rincuorando così l’opinione sempre più diffusa che ritiene sufficiente il denaro per punire chi diffama a mezzo stampa danneggiando la reputazione del cittadino. Vi sono poi le leggi purtroppo inascoltate, inapplicate e dimenticate, come il dlgs n. 106 del 2006 che stabiliva la punibilità disciplinare dei magistrati che ledono i diritti altrui con “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria” (articolo 2, 1, lett. v). Sono comparsi all’orizzonte altri timidi ed inefficaci propositi, come quello sulla riforma delle intercettazioni telefoniche (Dlgs n. 216 del 2017), tentennante tra mantenere o limitare il segreto istruttorio. Si arriva così al messianico Dlgs n. 188 del 2021 sulla presunzione d’innocenza, applicativo di direttive comunitarie.

 

Esso in realtà riguarda solo le autorità pubbliche (e quindi non i giornali e la TV), consente la conferenza stampa durante le istruttorie solo se autorizzate, prevede comunicati formali sempre soltanto se vagliati dal procuratore, non sfiora i processi mediatici. Presagi oscuri perché di scarso conforto si intravedono nelle reazioni di magistrati autorevoli a questa legge. Il PM vicario di Milano, Riccardo Targetti, è critico perché si instaurerebbe il rito delle ‘veline’ di pessima memoria. Mostra invece propensione a che i PM possano dire tutto su tutti, quando lo ritengano (Fatto quotidiano 24.2.2022). Avremmo preferito ricordarlo per la brillante produzione giallistica iniziata con La città dei segreti (Proedi editore 2005), come segnala anche il suo sofisticato sito intestato al ‘magistrato-scrittore’. Un mese dopo un esponente del CSM, il togato Giuseppe Cascini, censura la riforma anche per “l’estensione dell’illecito disciplinare alle violazioni delle disposizioni in materia di rapporti con la stampa”. Si finirebbe col sindacare “scelte di natura discrezionale che dovrebbero essere riservate al procuratore della Repubblica” (Il dubbio, 17.3.2022). Ovvio, e quasi banale, replicare che secondo le nuove norme non esiste (né esisteva prima) il diritto di danneggiare l’immagine di un presunto innocente. Neppure per un PM cui non spetta di decidere se distruggere la reputazione di un indagato. 

 

Progetti, riforme, pronunciamenti si succedono carichi di aspettative, un permanente cantiere in cui si diffondono messaggi simbolici per rafforzare leggi a tutela del cittadino esangui. Lo stato della questione, così rappresentata, farebbe ritenere che la giustizia è un’istituzione affetta da una malattia grave, permanente, sensibile agli agenti esterni, non guaribile come una semplice influenza, esposta alla bufera del discredito per buona parte alimentato da lei stessa ma non solo. Scorrere i giornali dei secoli scorsi, come propone il saggio, è istruttivo anche perché consente di cogliere quel dato in evoluzione prima segnalato. La società prima era spettatrice, osservava collocata ai margini, mentre oggi è presente sul campo di gioco, giocatrice lei stessa, animata da un agonismo irriducibile. Il vero protagonista, il cittadino imputato, è invece in panchina, in attesa, muto, con il rischio prevedibile di prendersi le pallonate in faccia. Il saggio è una lettura necessaria per non abbassare la guardia e non subire passivamente quanto accade. Fornisce soluzioni possibili, forti, auspicabili, forse di problematica efficacia in un contesto globale da osservare con attenzione, senza suggestioni, senza concessioni, senza benevolenze partigiane. Potrebbe essere, questo, pessimismo, ma in realtà è soltanto realismo, per dirla con Flaiano.

 

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