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Diario russo 3. Da Napoli all'Estonia
Giovedì 24 marzo ho iniziato la mia traversata di metà Europa, da Napoli verso Narva, per riprendere la mia famiglia in uscita dalla Russia. Circa 3200 km al volante, altrettanti al ritorno, attraversando l’Italia, l’Austria, la Repubblica Ceca, la Polonia, e poi i tre paesi baltici fino all’antica fortezza ora estone, già tedesca, svedese e russa, importante centro strategico distrutto quasi totalmente nel 1944 durante l’offensiva sovietica.
Si tratta di un tragitto a tappe forzate, perché devo arrivare di lunedì a destinazione, e con qualche rischio: in Europa settentrionale è tornato il freddo, e la mia cara vecchia automobile è abituata a climi più miti. Nel viaggio provo a mantenermi attivo, partecipando a iniziative e attività scientifiche, collegandomi dai posti più disparati: per una lezione in un liceo di Genova mi fermo all’area di servizio di Giove sull’A1, per un seminario del Centre d’analyse et prevention strategique e per una conferenza dell’Università della Tuscia sfrutto il wifi di un bar di un distributore Eni a un’ora di guida da Vienna, mentre faccio lezione il sabato mattina da Czestochowa, in un albergo a via Combattenti della Battaglia di Montecassino. Questa coincidenza risveglia in me un ricordo, quando nelle lezioni sulla Seconda guerra mondiale, parlando del contributo delle armate in esilio come quella del generale Wladislaw Anders, ho fatto vedere in aula e su Zoom i filmati di Wojtek, l’orso adottato dai soldati polacchi e distintosi nelle battaglie sulla Linea Gustav.
Per leggere ho deciso di portare con me La confessione di Lev Tolstoj, perché da qualche anno il gigante di Jasnaja Poljana accompagna alcune mie scelte, personali e pubbliche. Personalità controversa, il conte diventato maestro dei figli dei contadini e fustigatore dell’ipocrisia dell’aristocrazia e del clero della tarda Russia imperiale è ancora oggi un punto di riferimento etico, e considero una bella coincidenza vedere a Bologna, su una bancarella di Piazza VIII Agosto, una vecchia edizione di Resurrezione, forse il libro che ho più amato di Tolstoj, per le sue implicazioni su come e quando giudicare. Proprio a Bologna c’è il mio primo incontro, con L., già mia studentessa, autrice di una bella tesi quadriennale (in Russia vi è il sistema 4+2) sul ruolo socio-culturale del fumetto italiano, prendendo in esame Corto Maltese e la Pimpa. L. voleva occuparsi alla magistrale di studi di genere applicati alla società italiana, ma a Mosca non ha trovato come fare, ed è riuscita a trovare il suo posto a Bologna. Minuta, timida, ha degli occhi che esprimono una determinazione senza pari, e convinta delle proprie idee fino ad affrontare la famiglia: in casa, mi dice, è difficile parlare della guerra, perché i genitori più o meno sostengono Putin. Non è l’unico caso, e però oggi non abbiamo nessun Turgenev a spiegare al mondo questa spaccatura familiare.
La prossima tappa è Villaco, dove arrivo tardi. In una sosta dalle parti di Jesolo, dei camionisti bestemmiano in polacco contro il green pass richiesto dal cassiere dell’Autogrill, e dimostrativamente non indossano la mascherina. Si incontrano numerosi autobus vuoti, con il cartello giallo e rosso indicante la presenza dei bambini, e targati con le sigle ucraine; ad accompagnarli, tanti camioncini colmi di ogni bene di necessità diretti ad Est, chi in Polonia, chi dalle parti di Leopoli. Appena varcato il confine ceco, subito un punto di raccolta per gli ucraini, cartelli in lingua ucraina e russa diretti ai rifugiati dovunque, come le bandiere: sembrerebbe che tra gli slavi, almeno in Europa centro-orientale, non vi siano tanti dubbi al riguardo. Nelle stazioni di servizio vi sono annunci per raccolte fondi in sostegno dell’Ucraina, ma non è nulla rispetto a quanto c’è in Polonia.
Arrivo a Czestochowa di notte, e c’è una rumorosissima festa al suon di Modern Talking nell’albergo. Alla reception una ragazza fasciata in una camicetta leopardata e in pantaloni di similpelle mi chiede se voglio qualcosa da bere, prima di andare a dormire. Accetto di prendere un paio di birre Tyskie, e ne approfitto per vedere l’albergo: un salvadanaio enorme spicca su una bandiera ucraina, e si invita a contribuire al sostegno ai rifugiati, ospiti nella struttura. In Polonia in questo momento vi sono 2 milioni e 336 mila ucraini fuggiti dalla guerra, e dovunque le bandiere gialloazzurre sventolano, dai balconi agli edifici pubblici, e nei centri commerciali vi sono pubblicità di solidarietà all’Ucraina, in alcuni esercizi una piccola parte del pagamento va a iniziative di sostegno. Diventa un problema parlare in russo, perché le reazioni possono essere poco piacevoli, nonostante la grande maggioranza dei rifugiati venga dalle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina, ma per il polacco medio l’associazione è diversa. Quando tornerò per queste strade, con la famiglia parleremo in italiano.
In Lituania ancor di più è visibile il sostegno all’Ucraina, e qui lo è prevalentemente in lingua russa. Nel paese vi sono dal 2020 tanti bielorussi rifugiatisi dalle repressioni di Lukashenko, e Vilnius è la meta preferita, assieme a Riga, per i russi provenienti dal mondo della cultura. Con R., storica dell’architettura conosciuta anni fa in archivio a Mosca, prendiamo un caffè in centro, in un posto aperto da bielorussi. Lei è andata via a fine 2019, per studiare alla magistrale dell’Università europea di Vilnius, e perché innamorata della città già sede di un importante governatorato dell’impero zarista. Per lei non vi son dubbi, tornare non serve, e mi racconta della sua esperienza lavorativa, durata qualche mese, in una biblioteca di un centro della regione di Mosca, da dove ha preferito licenziarsi per non sentirsi dire ogni giorno di essere “eternamente contro”. Passeggiando in un vento micidiale per raggiungere l’auto, penso alle memorie di Theodor Shanin, il grande storico sociale della rivoluzione russa e del mondo agrario, vissuto nella Vilno prima russa, poi polacca, lituana e sovietica, fuggito all’avanzata nazista e all’Olocausto, che ha distrutto la sua famiglia. Ecco, mi chiedo, cosa penserebbe Theodor, con cui ho avuto modo di scambiare due parole a una conferenza ormai troppi anni fa, di quel che sta accadendo alla Russia, del suo istituto sotto assedio dei siloviki, e del suo amato Sergey Zuev, suo successore alla guida dell’istituto, in galera.
Le radio in lingua russa in Lettonia e Estonia invitano, tra una canzone pop e un hit commerciale, a chiamare i propri amici in Russia, “questa è la vostra telefonata più importante, vi prego, fatela, raccontategli cosa succede”. Su un enorme acquedotto nella Lettonia centrale una bandiera ucraina garrisce al vento, e nei piccoli paesini decorazioni gialle e blu accompagnano il tragitto. Finalmente, dopo una tempesta di neve, Narva. Il mattino dopo, lunedì 28, devo liberare la macchina da una coltre bianca, e il motore per fortuna si avvia. Mi dirigo alla frontiera e aspetto dal passaggio pedonale. Finalmente si apre la porta, è mia figlia con il primo di una serie di enormi bagagli e Fed’ka, il nostro spitz (l’altro, Sanja, è in braccio a mia moglie). Fed’ka, piccolo com’è, “travolge” una guardia estone di passaggio, solleva l’acqua di una pozzanghera e mi salta addosso. Arriva poi mia moglie, con un’altra valigia mostruosa. Ci abbracciamo. Ce l’abbiamo fatta.
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