L’erede dei realisti francesi / Diavolo di un Lemaitre!

28 Luglio 2020

Diavolo di un Lemaitre! Scrive da cane, ma racconta da dio: facendo esattamente quello che, con espressione molto colorita ma efficace, si proponeva ai tempi belli della spy-story Frederick Forsyth e cioè prendere “il lettore per le palle e non mollarlo più”. Cosa che, detta in maniera urbana, vuol dire inchiodare il lettore al libro. Pierre Lemaitre (arrivato in Italia da Mondadori con Lo specchio delle nostre miserie, ultimo romanzo della trilogia storica della Francia dopo Ci rivediamo lassù e I colori dell’incendio nelle traduzioni di Stefania Ricciardi e, per il secondo e il terzo titolo, di Elena Cappellini) questo sa farlo appunto divinamente, risarcendo uno stile slavato, scipito, elementare, tutto grado zero e sarabanda di frasi fatte, dove abbondano gli aghi nel pagliaio, le pive nel sacco, le cuoia tirate, i cervelli bevuti, i brutti quarti d’ora nonché le braci e le padelle. 

 

Lemaitre non si può vedere, ma sentirlo è un’altra cosa. Già, perché un suo romanzo è ideale per una lettura a voce alta, talché è forse questo lo stile che lo scrittore francese si è dato: irriverente verso la punteggiatura, cosparsa più per scandire le pause che per ordinare le proposizioni, e letterariamente illeggibile, ma perfettamente udibile («Si voltò verso l’agente battendosi la mano sulla coscia, incredibile, ha sentito?») e portato a preferire i periodi paratattici, privi di coordinazione e molte volte anche di comprensione, come in questo esempio, che basta come paradigma: «Gabriel aveva confessato questa costante preoccupazione all’ufficiale medico, un uomo stanco, bianco come un cencio, sinistro come un becchino, che trovava tutto normale perché lì niente era normale, né l’attesa interminabile di chissà poi cosa, né la vita in un posto simile, nessuno sta bene, sentenziava con rassegnazione, distribuiva aspirine, torni a trovarmi, diceva, amava la compagnia».

 

Lemaitre racconta come se lo facesse oralmente a un giro di amici da immaginare non in un salotto ma in un bar e improvvisando, calato nei panni di un attore su un palco che reciti a soggetto o, forse meglio, in quelli di un contastorie che, con molta naturalezza, si fermi, non trovi le parole, infili anacoluti, inciampi in frasi tronche, divaghi con nonchalance («Vi racconto una storia che risale a molto prima della guerra, Édouard doveva avere undici o dodici anni» scrive in Ci rivediamo lassù), scelga le parole che gli vengono prima e poi si arresti sull’orlo di una dimenticanza o del superfluo («Il ministero doveva garantire che lo Stato spendesse a ragion veduta il denaro dei contribuenti per seppellire degnamente, e alle condizioni fissate dai regolamenti, i figli della patria che, eccetera eccetera» oppure «Merlin non era un tipo che piaceva. Taciturno, un po’ pedante, accigliato e di cattivo umore praticamente tutto l’anno, per scherzare con lui...» in Ci rivediamo lassù).

 

Sarà questo modello che conferisce ai testi – o copioni che siano – il senso che hanno di epico, di icastico e per questa via di cinematografico. Lemaitre ricorda Balzac e Dumas (senza il cinematografo): stesso genio inventivo, stessa rappresentazione luminosa e uguale piattume lessicale, ma con in più un fiero disprezzo per la costruzione sintattica – fatta la tara alla traduzione italiana nella quale lo leggiamo. Lemaitre non è scrittore di parole, ma di cose. Avere scritto per il cinema e la televisione lo ha educato nel romanzo all’essenzialità, al dromenon anziché al legomenon, l’azione al posto dell’introspezione. I suoi libri sono sceneggiature già pronte e come tali perdono di letterarietà e guadagnano in immediatezza. Non c’è scena che non sia descritta e affidata alla battuta ad effetto, quasi sempre a chiusura. Basti l’esempio offerto da Joseph Merlin, ispettore del ministero, in Ci rivediamo lassù: mentre verifica in un cimitero temporaneo che i caduti in battaglia siano stati regolarmente seppelliti, vede un cane; lo afferra, lo abbatte a calci e con la forza lo costringe ad aprire la bocca, finché sbotta: «Questo non è un osso di pollo», dimostrando finalmente le ragioni del suo incomprensibile e improvviso gesto.

 

 

Lemaitre è un narratore che si è dato a convertire le sceneggiature in soggetti prevedendo una voce narrante di fondo che si rivolga a quelli che sono per lui lettori in veste di spettatori. Opera nel campo della metanarrativa e lavora alla costruzione di un personale “lettore modello” con il quale scherzare come tra vecchi amici che si raccontino l’ultima “roba grossa”. Lo sorprendiamo in tale atteggiamento in Ci rivediamo lassù: il soldato Édouard Péricourt sta facendo di tutto per salvare il commilitore Albert Maillard rimasto sepolto in una fossa. Al culmine dei suoi sforzi, Lemaitre scrive: «Viene voglia di urlargli lascia stare, hai già fatto del tuo meglio, viene voglia di prendergli le mani, pian piano, di stringerle nelle nostre per farlo smettere di agitarsi così, di innervosirsi, viene voglia di dirgli quelle cose che si dicono ai bambini quando hanno una crisi isterica, di calmarlo fino ad asciugargli le lacrime. Di cullarlo, insomma. Solo che non c’è nessuno intorno a Édouard, non ci siamo né voi né io per indicargli la strada giusta e, nella sua mente, è affiorata da lontano quell’idea che forse Maillard non è davvero morto». Invece – molto cinematograficamente, forse troppo – il capitolo si chiude proprio con la morte di Maillard: che però, nella scena successiva, cioè nel secondo capitolo, ritroviamo moribondo e poi resuscitato a vita. Lemaitre è questo. Più di Balzac e di Dumas messi insieme in fatto di colpi di scena, ribaltamenti diegetici, paradossi e improbabilità. Sennonché è difficile, molto difficile, abbandonare un suo romanzo. 

La sua principale tecnica narrativa consiste nel volteggio delle scene, che si chiudono e riaprono in un vortice di analessi e prolessi. In I colori dell’incendio la cantante lirica Solange Gallinato si esibisce davanti a Hitler e al suo stato maggiore cantando brani vietati e Paul Péricourt, il bambino sulla sedia a rotelle, è lì a Berlino per godersi lo smacco al Terzo Reich. Scrive allora l’autore: «Poi il teatro sprofondò nel buio più assoluto e scoppiò un’immensa risata, quella di Solange Gallinato, una risata che sembrava ancora musica. Durante il viaggio di ritorno, Paul si sforzava di non dormire per timore che quel ricordo svanisse come un sogno: voleva trattenere tutto. Nella sala dell’Opéra di Berlino si erano spente le luci, provocando la protesta unanime dei pochi spettatori rimasti. Era riecheggiata la risata di Solange, terribile e disperata». Il prosieguo di quanto avviene a teatro è raccontato dunque attraverso il ricordo che successivamente Paul ne ha. Questa trovata non serve al romanzo, che perde il contatto diretto con i fatti, mediati da un personaggio. Serve però a un film perché rilancia la tensione di una scena gravida di pathos e interrotta sul bel meglio. E ancora. In Lo specchio delle nostre miserie il “signor Jules” viene lasciato morente sotto i bombardamenti mentre Louise scappa e lo piangerà per sempre, epperò nell’Epilogo (sofisticato côté presente nei tre titoli dove Lemaistre dà conto delle ultime vicende dei personaggi, dandoli per storici quando in realtà sono tutti immaginari o lontane trasposizioni di figure reali) si apprende che si è salvato ed è tornato alla vita di prima.

 

Metanarrativa, dicevamo. E in effetti – benché Lemaitre non scopra niente nella metalessi, modalità che porta l’autore a sedersi al fianco del lettore per chiarirgli gli sviluppi e molte volte a confondersi con esso – il suo dispositivo sente di una strategia oulipotica, alla Queneau e alla Calvino. Si legga in Lo specchio delle nostre miserie la descrizione di Henriette Thirion: «Aveva un viso dai lineamenti marcati, gli occhi spenti, le mani da pianista, larghe, “mascoline”. Quell’ultimo aggettivo colpì Louise, rendendola inspiegabilmente triste». Fenomenale. Nessuno in verità ha parlato di mani mascoline se non l’autore, sicché dobbiamo supporre che Louise concepisca da sé l’aggettivo osservando le mani di Henriette. Una verfemdrung brechtiana che integra anche uno dei virtuosismi narratologici di cui Lemaitre ama fare uso a piene mani (luogo comune che gli piacerebbe), scialandosela a fare commistione tra sé e i personaggi e a contaminare il testo di straniamenti. Ecco in tale prospettiva una significativa prova in Lo specchio delle nostre miserie, laddove Raoul riceve la lettera di agnizione della sorella Louise: «Aveva sempre considerato Henriette come una sorella, pur sapendo benissimo che non lo era. D’ora in poi avrebbe dovuto considerare come la sua vera sorella una donna che non aveva mai visto e che forse non avrebbe mai conosciuto?». In realtà le cose stanno nel senso – piuttosto contorto, a dire il vero – che Raoul sa di essere un figlio adottivo, ma il lettore è già a conoscenza del fatto che egli è figlio naturale del padre. Per salvare la sua brillante antitesi, Lemaitre assume la percezione del personaggio e prova a ingannare il lettore. Chapeau!

 

Ma ecco un altro esercizio in Ci rivediamo lassù nell’occasione in cui Madeleine riflette sui tradimenti del marito che va a letto con le sue amiche: «Suo fratello, Léon, era troppo basso per essere un uomo, ma lei, Yvonne, era piuttosto bella. Certo, quando piacciono le puttane, aggiungeva Madeleine mentalmente. Una bocca grande, volgare, impaziente, che faceva subito immaginare delle porcate inaudite, gli uomini vedevano giusto, a venticinque anni, Yvonne aveva mandato in estasi mezzo Rotary. Madeleine esagerava: mezzo Rotary era un po’ eccessivo». Lemaitre tiene molto a fare spirito, assecondando un gusto tipicamente francese per la battuta tranchant, il witticism salace e saputo che recupera una nobile tradizione ottocentesca fondata sulla comédie e sorretta dal magistero dei narratori d’Oltralpe: non solo Balzac e i Dumas, ma anche Hugo, Flaubert, Stendhal e Zola. Ci sono tutti nella galleria di Lemaitre, che peraltro non ne nasconde i debiti, soprattutto con Dumas, che chiama “il mio maestro”. Édouard Péricourt, costretto a portare una maschera dopo aver avuto il volto sfigurato da una granata, non è che “l’uomo che ride” di Hugo; Madeleine Péricourt un saldo di Emma Bovary e Margherita Gautier; André Delcourt di I colori dell’incendio il calco di Lucien Chardon delle Illusioni perdute; d’Aulnay-Pradelle una copia sbiadita di Javert dei Miserabili e Albert Maillard di Jean Valjean. Non c’è insomma personaggio in Lemaitre che non risvegli uno del grande repertorio del realismo ottocentesco, riadattato alla prima metà del ventesimo secolo e portato a interpretare non più il genere del romanzo sociale ma quello del thriller circonfuso nella saga familiare e generazionale di tipo historique

 

 

Al polar, frequentato in particolare con la trilogia del commissario Verhoeven (l’investigatore di elevato acume che è alto appena un metro e quaranta, elemento quello della bassa statura alquanto ricorrente in Lemaitre), lo scrittore francese ha nel tempo preferito il dramma storico a sfondo politico-istituzionale, scelta già evidente nei tre titoli: “Ci rivediamo lassù” evoca infatti le ultime parole alla moglie di un condannato per tradimento poi riabilitato nel 1921, cupa metafora dell’ingiustizia in tempo di guerra, mentre “I colori dell’incendio” e “Lo specchio delle nostre miserie” sono chiaro riferimento all’incendiaria e infelice epoca nella quale la trilogia è ambientata. Entrambi i titoli ricorrono subliminalmente nei testi: «Il governo osservava con apprensione i colori di quell’incendio che non smetteva di guadagnare terreno»; «la macchina sobbalzava lentamente in quel flusso di fuggiaschi che era l’immagine di un paese in ginocchio, allo sbando. Volti, volti ovunque. Un immenso corteo funebre, pensò Louise, diventato l’agghiacciante specchio delle nostre miserie e delle nostre sconfitte». La Francia dal ‘18 al ‘40 è un Paese provato e stremato. Lemaitre vuole ricordarlo e processarlo, non esitando a servirsi di un’espressione, “nostre miserie”, che spiega la natura della trilogia e quindi il successo che essa ha avuto in Francia, denotando una condizione storica e sociale che è quella di una nazione colta nella lunga stagione tra le due guerre, una vinta e l’altra persa. 

 

Così, se Ci rivediamo lassù narra gli splendori e le miserie di una famiglia di banchieri all’indomani della Grande guerra sulla intrapresa di un ricco rampollo e di uno spiantato idealista che truffano tutta la Francia, proponendo monumenti ai caduti per incassare gli anticipi, quando un tracotante membro della stessa insigne famiglia fa mercimonio e strame degli stessi caduti sotterrandoli, con i fondi governativi, in bare piccole o destinate ad altre salme, I colori dell’incendio (remake in nuova cotta del Conte di Montecristo) ricostruisce gli anni della Grande crisi fino all’insorgenza nazista attraverso la vendetta che Madeleine Péricourt consuma contro quanti l’hanno deliberatamente ridotta in rovina e Lo specchio delle nostre miserie racconta i giorni dell’invasione nazista della Francia nel parallelo con le storie, che alla fine si intrecciano, di Louise Belmond (una ragazzina di dieci anni al tempo di Ci rivediamo lassù), Raoul Landrade, soldato disertore e sregolato, e Désiré Migault, funambolico impostore ora avvocato ora prete ora portavoce ministeriale, pilota e chirurgo. 

Lo specchio delle nostre miserie è il romanzo più autonomo e slegato, figurando la sola Louise, cosicché Lemaitre si ritrova a fare sforzi di collegamento per tenere unita la serie, ma non può andare oltre alcune citazioni. Spia di tale sforzo è l’incipit: «Chi pensava che la guerra sarebbe iniziata presto si era stancato da tempo, il signor Jules per primo». Esso richiama quello pressoché identico di Ci rivediamo lassù: «Chi pensava che quella guerra sarebbe finita presto era già morto da molto tempo. In guerra, per l’appunto». Un gioco a riconoscersi, più esattamente.

 

Nello stesso tempo Lo specchio delle nostre miserie è forse il romanzo più bello, il più avvincente (non si può chiedere altro a Lemaitre) e mosso, probabilmente perché concentrato nell’arco di qualche settimana a metà del 1940: le rocambolesche avventure dei tre principali personaggi appaiono concitate e febbrili, sospese in un continuo braccio di ferro tra la sfera pubblica che riguarda gli orrori della guerra e quella privata che comprende l’affannosa ricerca di Louise del fratello, la fuga di Raoul dal fronte e la peregrinazione di Désiré sempre in cerca di nuove identità. Mosso, abbiamo detto: perché è il romanzo dell’en plein air quando i precedenti sono stati quelli dei salotti, delle mansarde, delle caserme, dei circoli e dei ministeri, tenuti al chiuso (come le tombe dei cimiteri) e profilati in un verbiage che fa saltare voci e perfidie da un salotto all’altro. Le storie di Louise, Raoul e Désiré si svolgono invece all’aperto e si intramano lungo l’asse Parigi-Orleans per sciogliersi nella Franca Contea, avvalendosi di un’allure di avventura odeporica che manca nei primi titoli. Ma Lo specchio delle nostre miserie rimane parte costitutiva della trilogia perché è la Francia a fare da collante. In realtà la trilogia è troppo francese per piacere allo stesso modo a un pubblico diverso, per modo che Pierre Lemaitre rimane un autore poco noto anche in Italia. È pur vero che anche i romanzi che gli hanno fatto da sussidiari, a cominciare da I Miserabili, citato tre volte nel terzo titolo, sono stati concepiti per essere francesi, ma il carattere sociale che li distingue conferisce loro un’intramontabile etichetta di universalità mentre quello storico-politico voluto da Lemaitre pavesa i suoi di una guazza nazionale e circoscritta, mitigata tuttavia dallo spirito di thriller che li anima e che li porta oltre frontiera. 

 

Oggi Lemaitre appare come un autore in cerca di un genere, nel rischio che sia quello dell’evasione. Vuole fare del realismo, ma le cose che racconta non si vedono nella realtà, bensì al cinema: dove solo è possibile che un padre voglia erigere un monumento ai caduti in memoria del figlio che è invece vivo e intende speculare proprio sui monumenti ai caduti, finendo poi per suicidarsi andando incontro all’auto guidata dal padre che non sa che è vivo; e dove solo è anche possibile che un uomo scappi dai bombardamenti in pantofole e poi debba rinunciare a fuggire preferendo farsi mitragliare. L’improbabilità e la coincidenza presiedono l’intrattenimento e Lemaitre non è lontano dal cascarci dentro. Ma noi, pur in traduzione e fuori dalla Francia, lo leggiamo senza chiederci quale sia il suo genere o quello che sta cercando. Finché racconterà storie così, belle e impossibili, avrà sempre un posto tra gli aedi e gli affabulatori. In fondo, cosa occorre chiedere al romanzo che non sia di farci assistere, anche in anteprima, a un bel film?

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