Un quadro / La Resurrezione di Piero della Francesca
C‘è quest’uomo in piedi in un sepolcro, con in mano il vessillo dei crociati e un piede sul bordo del sarcofago scoperchiato, e poi quattro soldati che dormono in diverse posture, e sullo sfondo una campagna che ti dà l’atmosfera e l’ambiente ma sulla quale al momento non ti soffermi.
La rappresentazione è leggermente di sotto in su, accentuata, per lo spettatore dal suo stagliarsi sopra la sua testa, così che anche lo sguardo dell’uomo nel sepolcro, dritto, che si rivolge lontano e sembra non guardare niente per avere già visto tutto, gli passa sopra la testa, si dirige oltre di lui ma insieme lo comprende, nel senso che lo capisce e lo tiene nel suo spazio visuale, ma non gli si rivolge direttamente. Semmai sarà il suo, di sguardo, a essere attratto e non potersi distogliere da lui e dalla sua figura per un tempo incalcolabile, prima di vedere il resto. Ma può anche essere che lo spettatore distolga subito lo sguardo, spaventato, per placarsi perdendosi nel resto, sugli altri protagonisti, nel mondo sullo sfondo, prima di potervi tornare e affrontarlo.
La scena è silenziosa, quasi incantata, come un attimo sottratto al tempo, in lontananze infinite, eppure qui davanti a noi, con un paesaggio e un cielo simili a quelli che si vedrebbero se si sfondasse il muro e si vedesse la campagna e le colline circostanti. È il momento zero, un momento che fonda il tempo, una forma particolare di tempo, quello lineare, con un’origine e una fine, e che appunto per questo vi si sottrae. La resurrezione, come affermava san Paolo, è il momento su cui poggia tutto l’edificio cristiano: se Gesù non fosse risorto la fede sarebbe vana; non è l’incarnazione, il mistero fondamentale da cui tutto origina, ma la resurrezione dalla morte, che certo presuppone l’incarnazione ma le dà il suo senso (altrimenti sarebbe una nascita come tante), lo spartiacque del tempo. A partire da quel momento c’è un prima e c’è un dopo. Il corpo risorto è la colonna che regge l’edificio della chiesa e del tempo, che separa lo spazio: il mondo morto, brullo alla sua destra, da quello vivo alla sinistra, che rinasce, ma non è (ancora) il giardino, l’eden, e anzi deve essere conquistato con la fatica che spetta all’uomo, che deve lavorarlo, ma sa che la fatica darà i suoi frutti.
La promessa di resurrezione che l’opera rappresenta e rende visibile, e direi quasi tangibile per il fedele, è l’opera stessa a mantenerla. Il corpo glorioso, perfetto, spirituale e insieme carnale, è lì, davanti a chiunque lo voglia vedere, trionfante nella sua pura presenza, immortalato nella sua evidenza inconfutabile, potentissima. Il vessillo è tenuto saldamente, ma non in modo trionfale. Poggia a terra, tra il sarcofago e la schiena del soldato senza elmo dalla testa riversa all’indietro in cui si vuole vedere un autoritratto di Piero, come a trasmettergli sostegno, ispirazione anche nelle mansioni politiche e amministrative a cui più di una volta è stato eletto, oltre che la forza della fede, anche se al pari degli altri soldati al momento è ancora addormentato, non risvegliato alla rivelazione definitiva. Il momento essenziale lo manchiamo sempre, molti non credono che sia nemmeno arrivato né mai arriverà; altri, a posteriori, credono invece che ci sia stato, lo deducono dagli effetti, risalgono ad esso, ne ricavano fede e conforto.
Spetta a ciascuno scegliere, se continuare a dormire o svegliarsi alla luce più perfetta che sia mai stata dipinta, in quella luce ultraterrena e realissima che prima ancora del paesaggio alle sue spalle, avvolge morbidamente il corpo del risorto provenendo da esso, dalla sua compiuta, ineccepibile, indefettibile, assoluta immanenza.
Diversamente dalla maggior parte delle altre rappresentazioni infatti, nessun alone lo circonda, nessuno sfolgorio miracoloso l’uomo di questa Resurezione trasfigura, nessuna apertura celestiale viene a sublimarlo, a sollevarlo da terra, a farlo levitare sul mondo. Il corpo di Cristo è invece interamente umano, sembra quello di un robusto contadino, come nel Battesimo di Cristo, con il volto abbronzato dal lavoro all’aria aperta e il torso bianco perché di solito protetto da una tunica o da una maglia, come quella che si toglie il battezzando nello stesso Battesimo; ma è perfetto, muscoloso e di classica misura; mentre il volto, a ben guardare, richiama più ancora che l’essere “silvano e quasi bovino” di Roberto Longhi, quello tradizionale del Mandylion, la sacra icona del Santo Volto acheropita, non fatta da mano umana, impressa sul velo della Veronica o sul telo del re di Edessa secondo un’antica leggenda.
In questo volto io non scorgo quella tristezza, lo “sconforto” che ci hanno trovato alcuni, non riesco a scostare, uno dopo l’altro, veli metafisici o teologici, vedo solo un uomo che ha vinto la morte, che ha sofferto e visto ciò che nessun altro ha visto e sofferto, e ora è tornato, e non c’è nessuno ad accoglierlo. Ma lui nemmeno se lo aspetta. È lì, e tanto basta. Quanto ha passato è dentro di lui, nella sua stessa carne che ancora ne conserva i segni, ma è come se lui nemmeno lo avvertisse, il suo sguardo non ne conserva traccia, è tutto alle sue spalle. È tutto in lui e non chiede di essere contemplato né condiviso. Ha vinto. Indossa il sudario trasformato in una toga, rosea, bellissima, marmorea, mentre la gamba sinistra si è alzata e ora poggia salda sul bordo del sepolcro senza rilievi o ornamenti, dalle linee purissime come tutto l’equilibrio geometrico della composizione.
Il Cristo risorto con il piede sul bordo del sepolcro non è un’iconografia originale, uno che certo Piero ha visto è anche nel “polittico della Resurrezione” di Niccolò di Segna, del 1348, ora sito sull’altar maggiore della cattedrale di Borgo Sansepolcro. Altri l’hanno usata o la riprenderanno, anche se nessuno con l’ineguagliabile serenità, forza e sicurezza di Piero. Non è il gesto tracotante del trionfatore che si rivale sugli sconfitti: è quello di chi aveva un compito da eseguire, sia pure per tutti gli altri uomini inaudito, e l’ha fatto. Il dolore e l’angoscia sono dimenticati, anche se restano le tracce delle stigmate sulle mani e i piedi, e la ferita al costato ancora sanguina.
Il corpo non è librato in aria, nessuna luce divina lo trasfigura; è ben saldo sul fondo del sepolcro, con la destra e l’asta a dare stabilità e il piede ben piantato, in scorcio mirabile, sul bordo del sepolcro, di cui si scorgono, occhieggianti tra i corpi dei soldati, parti dei pannelli marmorei laterali, degli stessi colori bruno-rossastro e verdeazzurro delle armature e degli elmi degli addormentati, in un alternarsi variato che contribuiscono a creare l’armonia diffusa, discreta, non meccanica, che emana dall’opera. La stessa del paesaggio dietro di lui, dove, leggendo la composizione come un libro, a sinistra la natura si presenta brulla, con gli alberi spogli e le mura bianco-grigie di edifici che sembrano ciechi, disabitati, a cui corrispondono, passando alla destra, alberi e cespugli frondosi e un borgo con una torre e delle mura dallo stesso colore del sudario, che sembra abitato e si direbbe pronto ad accogliere dei nuovi ospiti, i redenti. Gli alberi e l’asta scandiscono lo spazio, danno un ritmo alla profondità della natura, in una prospettiva dissimulata, ma calcolatissima, con al centro l’asse del mondo, albero lui stesso, colonna, il corpo del Risorto, come quello del Cristo del Battesimo e come l’albero che gli sta accanto, vero protagonista del quadro, a mio parere, il primo albero protagonista, in quanto albero nella sua singolarità e non solo come simbolo, di un quadro, questo sì il più bello della storia della pittura. Ora tutto è in ordine. Stabilito. “And death shall have no dominion.”
Della Resurrezione in sé, però, io non so cosa dire. Non so se augurarla a me stesso, e in che forma. So che l’opera di Piero mi appaga e sgomenta come se la Resurrezione fosse già qui, sempre sotto i nostri occhi, che si produce, che lo sappiamo o meno, ogni momento della nostra vita.
Poi chissà, forse da qualche parte, nelle banche dei cieli, viene conservato il dna di tutti, depurato del piccolo difetto della morte, il nostro di noi uomini e quello di tutti gli animali, e di tutti gli insetti, e di tutte le piante e le alghe e i licheni e i microrganismi e i virus, e verranno riesumati nei miliardi di dimensioni del tempo senza tempo, e tutti staranno accanto agli altri, forse felici, forse no, più probabilmente oltre la dimensione della felicità e dell’infelicità. A fare cosa, poi, non si sa. Forse lo stesso che abbiamo fatto qui, in infinitesime variazioni, inutili, meravigliose.
Un’amica mi ha detto che l’affresco di Piero è una delle poche opere che potrebbero indurla a credere. Ci sono creazioni umane che suscitano reazioni come questa, che innescano cambiamenti che sembrano repentini e in realtà covavano chissà dove chissà da quando: dall’infanzia probabilmente, per poi risorgere nella seconda infanzia della vecchiaia, quando ci si stanca di porre barriere alle emozioni e di ingabbiare tutto nella dittatura della ragione, delle dimostrazioni, del dubbio per ogni cosa che ad esse si sottrae. Quando la stanchezza che induce il desiderio di sparire lo sovrappone e confonde con quello di durare, e di durare per sempre. Non so davvero quale sia più auspicabile, e quale dei due desideri più aiuti la vita che ci resta. Ora che la morte invisibile ci avviluppa da ogni lato e ha un nome, il desiderio propende per la durata, tanto più sapendo quanto atroce è l’agonia. Vien da chiedersi, ripetendo una delle fasi più drammatiche della nostra storia, perché siamo stati abbandonati. E poi, però, anche perché non siamo capaci noi, di abbandonarci.
Ma in genere, più modestamente, non è alla resurrezione, alla vita eterna, alla vita dopo la morte vinta per sempre, che si ambisce, ai più basta un ritorno alla vita tra la gente, a guardare da vicino negli occhi, a toccare un braccio, una spalla, delle mani, un volto, a carezzare la pelle, i capelli, a guardarsi senza sospetto, a togliere dal mondo la patina di paura che aderisce a ogni cosa, a guardare la sua grana, sentire il suo umidore e il suo odore, la sua morbidezza e durezza, stringerlo. Reggere il suo vessillo, poggiare il piede, guardare avanti, senza sfida, senza aspettativa, senza rammarico. Semplicemente avanti. Con quieta sicurezza, con forza consapevole che vuole solo agire senza bisogno di essere esibita.