Marion Baruch vive nella Haus Lange
Ha attraversato il Novecento, Marion Baruch, e il primo quarto degli anni Duemila. È nata nel 1929 a Timişoara, in Romania, da genitori di origine ungherese e ha intrapreso una formazione artistica a Bucarest. Lasciato poi il paese sotto la pressione del regime stalinista ha proseguito gli studi in Israele, a Gerusalemme, e da lì, dopo una prima mostra tenutasi a Tel Aviv, grazie a una borsa di studio ha potuto raggiungere Roma. Ha quindi vissuto in Italia, in Inghilterra, a Parigi soprattutto tra il 1993 e il 2010; infine, si è fermata con la famiglia a Gallarate.
Di origine ebraica, ha conosciuto gli sconvolgimenti politici e sociali del XX secolo; ma anche la nuova voglia di libertà e gli sviluppi culturali, sociali ed economici degli anni Sessanta; periodo in cui, tra l’altro, si trovava nella città che più di ogni altra stava vivendo un momento di slancio, Milano. Qui, appena approdata, aveva intercettato la grande, tangibile energia che stava trasformando la città nel nome di una feconda convergenza tra i diversi ambiti della creatività.
Le sue prime opere riconosciute nascono sotto questi auspici, e se già enucleano molti degli interessi destinati a svilupparsi in seguito, registrano anche questo senso di felice incontro tra arte, moda e design.
Si tratta infatti degli Abiti-Contenitore, a cui Baruch lavora insieme allo stilista AG Fronzoni: involucri-scultura abitabili, in tessuto, di taglio geometrico, che sanno accompagnare il corpo e al contempo lo nascondono, che lo riparano e insieme lo costringono, stimolando la riflessione sulla relazione tra corpo e ambiente.
Siamo nel 1969 e l’artista verrà vista girare per le vie della città celata dentro uno di questi indumenti. Alcuni giorni dopo le immagini di questo girovagare compariranno sulla copertina del settimanale Panorama, allora in auge.
Di lì a poco è la volta di Contenitore-Ambiente: questa volta Baruch utilizza il moderno plexiglas per realizzare una sfera trasparente sufficientemente grande da contenere un corpo umano. Di nuovo un microambiente che protegge ed espone; una sorta di cellula, un abitacolo alla costante ricerca di equilibrio, definito da fattori di movimento, dinamica e instabilità.
Anche in questo caso c’è la collaborazione di Fronzoni, e c’è pure quella di Berengo Gardin che scatta le foto.
Il Contenitore-Ambiente viene notato dal designer Dino Gavina, che lo vorrebbe produrre in serie, ma finisce per desistere per mancanza di fondi.
Gavina propone però a Baruch di contribuire alla sua Ultramobile, un’operazione avviata nel 1971, intesa a rinnovare l’idea di arredamento, introducendovi opere d’arte “funzionali”. Nasce così, nel 1971, Lorenz: un tappeto leopardato in pelliccia artificiale, dotato di occhi e di una lunga coda, che fa il verso ai tappeti-trofeo allora ancora tristemente diffusi. L’anno dopo è la volta di Ron Ron: un pouf, sempre in folta pelliccia artificiale, questa volta nera, anch’esso con la coda. Si tratta, insomma, di oggetti funzionali, ma in grado anche di rinnovare il paesaggio domestico guardando alla quotidianità con umorismo e con tenerezza; oggetti che nascono dalla volontà di demistificare la seriosità borghese e dalla capacità di immaginare nuove, più sciolte posizioni per il corpo, e modi non convenzionali di abitare lo spazio, anche a partire dalla sperimentazione di materiali di recente invenzione. In questo senso Baruch condivide una sensibilità che si sta manifestando trasversalmente negli ambiti di ricerca più avanzati; basti pensare alla poltrona sacco di Pietro Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro, o ai numerosi oggetti-scultura in pelliccia artificiale di Pino Pascali.
Pochi anni dopo Baruch farà progettare dall’architetto Carlo Moretti, allora esordiente, una casa per la famiglia nei pressi di Gallarate, la “casa di vetro”. Modernissima, anticonvenzionale, inglobata nella collina, nata per accogliere al proprio interno il verde circostante grazie alle pareti di vetro che la rendono trasparente, questa casa costituisce un punto chiave della sua biografia personale e testimonia della sensibilità per il tema dell’abitare e del suo interesse per la relazione tra interno ed esterno.
Essa diventa inoltre l’occasione per nuove esplorazioni artistiche. In quel periodo infatti l’artista si avvarrà, per le proprie opere, di barre di metallo: elementi portanti come quelli utilizzati nel cantiere aperto sotto i suoi occhi, ma destinati poi a scomparire modestamente sotto gli immancabili rivestimenti. Evocarli significa parlare di ciò che va al di là dello stile, che si trova sotto la superficie del visibile; di quegli elementi fondamentali a cui è demandata la stabilità della nostra esistenza; delle strutture essenziali del vivere, di ciò che realmente ci sostiene.
Baruch proseguirà poi il proprio percorso artistico in un intreccio indissolubile di arte e vita, mantenendo sempre al centro il tema del rapporto tra individuo e contesto.
Affronterà con ironica intelligenza e con una straordinaria indipendenza temi come il consumismo imperante e i meccanismi industriali e commerciali con le loro implicazioni socio-economiche e con il loro corollario di sovrapproduzione, scarto e spreco, a partire da quelli legati alla produzione di moda prêt à porter, che ha l’occasione di osservare da vicino.
È così che nasce l’operazione NAME DIFFUSION, un'etichetta sotto il cui nome rientrano interventi di diverso genere, tutti riferiti ai meccanismi di promozione dei prodotti di consumo, dalla realizzazione di dispositivi espositivi e commerciali, come l’etichetta stessa e le insegne luminose, alla creazione di tessuti, presentati appesi su stand di metallo in forma di campionario o proposti in rotoli come fossero in vendita, a molto altro.
La sua riflessione sull’abitare, d’altra parte, si estenderà a considerare il controcanto, la mancanza di casa e la migranza, con le disparità politiche che le accompagnano. Baruch si esprimerà a proposito a più riprese. Tra l’altro organizzerà, soprattutto nel periodo parigino, interventi artistici collettivi di carattere spesso esplicitamente sociale. A favore dei sans papier, per esempio, arriverà a mettere a punto un sistema di connessione grazie all’utilizzo di internet, allora ai primordi. Mentre pensando agli immigrati, “stranieri” come lei, nel 2009 aprirà la propria casa, svuotata delle infinite e in fondo inessenziali cose di cui si tende a circondarsi, a piccoli gruppi di persone, proponendo loro momenti di incontro e di contemplazione condivisa.
Questo e altro commenterà con la sua visione, critica ma generativa, a partire da un interesse costante per il tessuto sociale e da una prospettiva femminista più o meno esplicita, ma sempre presente.
Coerentemente con la sensibilità per tutto ciò che può rappresentare il margine e con l’interesse per il tessuto che l’hanno sempre accompagnata, negli anni Duemila Marion Baruch ha cominciato a creare una nuova ampia serie di opere utilizzando scarti della produzione di moda prêt-à-porter. Più in particolare, è stata attratta dai cascami di tessuto, ossia dai residui della lavorazione industriale: frammenti di prodotti di lusso, ma in eccesso, destinati quindi al macero. Queste configurazioni, insiemi di materia e di vuoto che si determinano intorno alle sagome dei capi realizzati, si presentano come un insieme di forma e di assenza, di estensione libera e di confini spaziali. Baruch non le taglia, non le cuce, le presenta per ciò che sono, nella loro unicità, distese, in verticale, contando su null’altro che la forza di gravità, di solito a parete, talvolta all’interno di lineari strutture, realizzando delle sorte di teatrini. Leggere e delicate, irripetibili, frutto di una visione che tende ormai a concentrarsi sull’essenziale, al loro centro c’è un vuoto che siamo invitati a leggere come possibilità sempre in essere, come sorgente di valore.
Una connotazione intellettuale o emotiva viene conferita a queste forme dai titoli poetici anche se precisi, talvolta dediche ad artisti che l’hanno preceduta, più spesso allusivi o personali, come memorie distillate di una lunga vita; basti pensare a La frenesia della mia amica Céleste, con cui Baruch rievoca un’amica dei tempi parigini.
Oggi i Kunstmuseen di Krefeld, non lontano da Dusseldorf, presentano il lavoro di Marion Baruch in una delle loro sedi, la Haus Lange. La situazione non potrebbe essere più felice. Haus Lange è una casa di famiglia di due piani commissionata tra il 1927 e il 1930 da Hermann Lange, importante industriale nel campo dei tessuti di seta, a Mies van der Rohe, architetto tedesco allora già noto che proprio nel 1930 sarà designato da Gropius a direttore del Bauhaus.
Lineare, spaziosa, Haus Lange si presenta in simmetrica armonia con una casa gemella, costruita contestualmente, sempre da Mies van der Rohe, e affaccia su un giardino con il quale vive in simbiosi in virtù delle numerose finestre e vetrate. Progettata sin nei minimi dettagli e immaginata per una vita quotidiana di cui le opere d’arte fossero una componente immancabile, al suo interno la dimensione di casa e un senso di cultura sono tutt’uno.
Decenni dopo la costruzione le due case sono state affidate alla città di Krefeld come sedi espositive per l’arte contemporanea; condizione rispettata: da allora gli appuntamenti si susseguono, con momenti di rilievo; basti pensare che già nel 1961 a Haus Lange esponeva Yves Klein; ne testimonia la piccola stanza interessata dall’opera permanente Le Vide, conservata come lui la lasciò.
Grazie alle caratteristiche del luogo e a una curatela di grande attenzione le opere di Baruch vivono in questo luogo nel modo più consono, istituendo correlazioni semantiche significative e relazioni spaziali di grande equilibrio. Lorenz il tappeto e Ron Ron il pouf sembrano aver trovato il loro ambiente ideale; le sensibili opere realizzate con gli scarti di tessuti industriali sono in alcuni casi sospesi a segnare il passaggio tra una stanza e l’altra o a incorniciare la veduta del giardino che si presenta attraverso le grandi finestre; altre, accostate al muro, vibrano nella luce naturale che inonda ogni spazio e illumina le pareti bianche. I lavori legati all’industria tessile risuonano rispetto alla storia dei committenti alla cui scelta si deve la bellissima casa.
Se il confronto con la casa e con il giardino non avrebbe potuto essere più felice, il lavoro si conferma nella sua forma variegata, stratificata, e nella sua coerenza, nella sua poesia, nell’ironia demistificante ma mai canzonatoria, nell’impulso e nell’impegno costante e inflessibile che accompagna da sempre quest’artista che non ha mai smesso di sperimentare.
Marion Baruch
Tessuto sociale
Haus Lange, Kunstmuseen Krefeld
Fino al 9 febbraio 2025