Chronorama
Immagini degli anni Dieci, degli anni Venti, degli anni Trenta, Quaranta … fino al 1979. Attraverso quattrocentosette fotografie di quasi duecento fotografi, in alcuni casi ormai iconici, in altri casi inediti, proposti a Palazzo Grassi nell’ambito della mostra Chronorama, scorre sotto i nostri occhi, diviso per decadi, quasi tutto il XX secolo.
Le stampe originariamente destinate alle riviste Vogue e Vanity Fair, rimaste fino a poco tempo fa negli archivi Condé Nast, oggi parte della Pinault Collection, che le ha acquisite nel 2021, sono mostrate con passepartout e cornice, avulse dal loro contesto editoriale. Il risultato è un flusso di immagini in cui immergersi, e dal quale trarre piacere a ogni passo; un distillato del secolo così come, nel tempo, lo si è voluto rappresentare su riviste dedicate all’élite – o all’aspirante tale.
A partire dalle prime sale, in cui illustrazione e foto ancora si alternano, a raccontare il sopraggiungere della fotografia sulla carta stampata e il suo progressivo sorpasso rispetto all’illustrazione: un vero e proprio passaggio d’epoca. Vediamo così che, dapprima nelle pagine interne, infine anche sulla copertina, i bellissimi disegni di George Wolfe Plank cedono il passo agli scatti di Adolf de Meyer, primo fotografo a ottenere un contratto con Vogue.
L’immagine della donna che emerge negli anni Dieci, sia dalle illustrazioni, sia dalle fotografie, corrisponde a un vero e proprio cambio di paradigma, e nello stesso tempo a questo cambiamento contribuisce.
Emblematico del percorso di emancipazione femminile in corso il ritratto di Mary Walker, la medica e chirurga statunitense che per prima aveva indossato i pantaloni in pubblico.
Audace e radicale, una vera e propria pioniera, Walker era una femminista, abolizionista e proibizionista. Era stata prigioniera di guerra, nonché l'unica donna ad aver ricevuto la Medal of Honor, la più alta decorazione dell'esercito americano.
Durante la Guerra di Secessione fu l'unica chirurga donna dell'Esercito dell'Unione.
In seguito fu autrice, tenne conferenze e sostenne le suffragette e i movimenti per i diritti delle donne. Con il matrimonio non prese il cognome del marito, Albert Miller. E anzi, la leggenda vuole che in quell’occasione abbia indossato giacca e pantaloni, e al momento dei voti si sia rifiutata di pronunciare la parola "obbedire".
Realizzato da Paul Thompson il suo ritratto apparve su Vanity Fair nel 1911; a riprova del fatto che in quegli anni, oltre a istituire un rapporto inscindibile con la carta stampata, la fotografia si stava imponendo come linguaggio della modernità.
Gli anni Dieci sono dunque il momento in cui tutto inizia; gli anni in cui il giovane, ambizioso uomo d’affari statunitense Condé Montrose Nast, che nel 1909 ha acquisito il modesto e semi abbandonato settimanale mondano Vogue, non solo lo rilancia, ma subito dopo, nel 1913 crea anche Vanity Fair, dedicato all’attualità culturale e politica. Da subito egli intuisce che occorre puntare sui massimi fotografi del momento. Per lui lavorano dunque non solo Adolf de Meyer, con le sue immagini di attrici e ballerine caratterizzate da un’estetica romantica e orientaleggiante e dalle linee sinuose e organiche dell'Art Nouveau, ma figure quali Edward Steichen, Berenice Abbott, Margaret Bourke-White, Cecil Beaton. Come dimostra l’esposizione, al principio di rivolgersi ai massimi professionisti in circolazione Condé Nast non derogherà mai.
Gli anni Dieci, benché ardui a causa della Prima Guerra Mondiale con le sue tragedie e con la conseguente recessione, sono dunque fondamentali.
Ma è negli anni Venti che inizia l’era dei grandi entusiasmi. In questi anni, all’insegna della prosperità e dell’edonismo, ad essere raffigurata è la Café society, il mondo spumeggiante delle feste, del charleston, del Grande Gatsby; la Belle Époque, insomma. Un concetto di lusso sofisticato e senza limiti abbraccia dapprima le curve dell’Art Nouveau, poi le forme più lineari del modernismo. Nel 1927, per esempio, dalle pagine di Vanity Fair sorride meravigliosamente Josephine Baker con i corti capelli lucidi e i grandi orecchini. Nel 1928, su quelle di Vogue, una fotografia di Edward Steichen ritrae alcune modelle sulla poppa dello yacht di George Baher: sullo sfondo del mare dominano le collane di perle, le cuffiette, i vestiti a vita bassa e le scarpe con il tacco curvo. Molta attenzione è dedicata all’arte, al teatro, al design e all’architettura; ma ci sono anche composizioni inaspettate: sempre di Steichen, nel 1927, ne viene pubblicata una a base di zucchero e naftalina: due prodotti il cui consumo, in quegli anni, è aumentato esponenzialmente.
Nasce in questo periodo anche la figura della modella professionista. Se all'inizio del
XX secolo le modelle erano spesso donne di origini nobili o dell'alta borghesia, oppure attrici o ballerine, Marion Morehouse, vissuta negli Stati Uniti tra il 1906 e il 1969, fu la prima modella riconosciuta come tale. Musa dei più grandi fotografi del tempo, e in particolare di Edward Steichen, Morehouse incarnò e contribuì alla diffusione dello stile flapper, grazie alla sua silhouette sofisticata, longilinea e slanciata. In mostra, in una fotografia del 1929, la si vede indossare un abito Patou.
Trascorre così questo decennio fastoso, mentre Condé Nast lancia l'edizione britannica di Vogue, poi quella francese, imponendosi come primo editore internazionale di riviste sia negli Stati Uniti che in Europa. Le fotografie di Florence Vandamm, Berenice Abbott, Suse Byk, Frieda Gertrud Riess, Florence Henri, Madame d'Ora o Steffi Brandl ottengono grande visibilità nei centri nevralgici del tempo: New York, Parigi, Londra.
Alla fine del 1929, però, con l'ombra del fascismo che incombe sull'Europa e la crisi economica dovuta al crollo della borsa di New York, tutto cambia.
Edna Woolman Chase, per molti anni caporedattrice della rivista dopo la scomparsa di Condé Nast, dichiara in questo periodo che "nel mondo che cercavamo di riflettere sulle nostre pagine, i più fortunati, colti e sofisticati erano morti e impoveriti proprio come tutti gli altri. L'angoscia non conosceva frontiere.” Il gruppo si interroga dunque su quale possa essere il suo posto. Comincia a collaborare con diversi fotografi impegnati sul campo. Invia inoltre su diversi fronti, come corrispondente di guerra, Lee Miller, che Nast già conosceva sia per il suo talento di fotografa sia per la sua straordinaria bellezza: Miller aveva infatti posato lei stessa per Vogue prima di passare dall'altro lato della fotocamera. La fotografa viaggia. Autorizzata dall'esercito americano, nel 1944, dopo lo sbarco in Normandia, segue le truppe e assiste all'assedio di Saint-Malo, sopporta l'inferno ghiacciato della battaglia di Alsazia, festeggia la liberazione di Parigi e osserva il crepuscolo del Terzo Reich. È tra le prime a entrare nei campi di sterminio di Buchenwald e Dachau dopo la loro liberazione. Di tutto questo fornisce testimonianze visive accurate, potenti, talvolta strazianti, oggi celeberrime.
Ma i suoi servizi non sono gli unici: per le pagine delle riviste patinate del gruppo editoriale Edward Carswell manda alla rivista l’immagine del sontuoso banchetto ospitato dai Vanderbilt nel 1941, poco prima che gli Stati Uniti intervenissero nel conflitto, Doisneau manda i reportage sulla resistenza parigina; Cecil Beaton le immagini di Londra devastata dai bombardamenti aerei tedeschi del 1944. In quello stesso anno sulle pagine di Vogue si alternano lo splendore e lo sguardo fiero di Lauren Bacall, e il volto umiliato di una donna a cui vengono rasati i capelli durante la liberazione della Francia, ancora una volta di Lee Miller.
La guerra, con i suoi duri colpi, ha provocato tra l’altro un esodo forzato di artisti, verso gli Stati Uniti.
Grazie a questo la città di New York è diventata un nuovo centro nevralgico delle arti plastiche e visive. Negli ultimi anni Quaranta e nei primi Cinquanta l’attenzione che i fotografi prestano al mondo dell’arte è sempre più forte. Così in mostra si trovano, tra l’altro, ritratti di Léger, Dalì, Hemingway, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright in posa o al lavoro, e il primo piano, realizzato da Beaton, quello della biondissima Marlene Dietrich dalla bocca rossa e dalle sopracciglia sottili.
Un’altra conseguenza di questo spostamento del baricentro è che la fotografia, da sempre influenzata dall’immaginario cinematografico, inizia ad assumere uno stile decisamente hollywoodiano. E le attrici americane, che compaiono sempre più spesso sulle copertine di Vogue e di Vanity Fair, contribuiscono a veicolare il nuovo modello di bellezza. Esemplari anche in questo senso le immagini di Cecil Beaton.
A ciò va aggiunto che si stava imponendo il sogno americano, con il relativo codice di vita: coppia bianca proveniente dalla classe media, sposata e con figli, il marito lavora e la donna bada alla casa. Il gruppo editoriale, con la direzione di Alexander Liberman, non si discosta da questo modello, anzi si conforma. Anche grazie a questo le sue riviste, a cui nel 1939 si aggiunge la neonata Glamour dedicata alle giovani donne in cerca di consigli di bellezza e moda a buon mercato, raggiungono un pubblico sempre ampio.
Le uniche eccezioni a questi modelli sono rappresentate, per ora, da esponenti del mondo sportivo e di quello musicale: in mostra si trovano la fotografia in cui Sid Grossman nel 1947 ritrae il cantante folk Josh White, e più avanti il ritratto scattato nel 1954 per Vogue da Irving Penn a una leggenda del baseball americano, l’afrodiscendente Willie Mays, con il corpo proteso in un salto verso l’alto.
Certo, il periodo è cruciale. Proprio nel 1954 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha dichiarato incostituzionale il principio che consente la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Ciononostante per quanto riguarda la copertina delle riviste, per andare oltre un modello prettamente occidentale bisognerà aspettare ancora a lungo. Solo nel 1968 quella dell'edizione britannica di Vogue presenterà il ritratto, realizzato da Patrick Lichfield, dell’attrice Marsha Hunt, con i bei capelli ricci al naturale.
A cambiare le cose era arrivata, nel frattempo, la rivoluzione culturale. Sono gli anni Sessanta, con la loro l’energia, con il tema dell’emancipazione che stava contribuendo a scardinare l’idea di una conforme, necessaria “normalità", e quindi, naturalmente, l'ideale di bellezza accreditato: una vera e propria rivoluzione, che la moda fa subito propria.
Con Diana Vreeland nuova vicedirettrice di Vogue, a essere fotografate sono donne che si vogliono indipendenti ed emancipate, che seguono le ultime tendenze perché vivono lo spirito del tempo e guardano al futuro. Si ammicca alla controcultura, alle posizioni femministe, ai movimenti contro la guerra.
Anche l’alta moda si allinea. Basti pensare alla modella in abito da sposa Balenciaga fotografata da dietro nel 1967 da David Bailey: l'abito a mantello e la versione stilizzata del velo, creati da Cristóbal Balenciaga, si ispirano sia alla conquista spaziale sia ai cappelli indossati dai pescatori del paesino spagnolo dell’infanzia dello stilista. Ma, soprattutto, con la sua forma apparentemente semplice di bozzolo formatosi attorno al corpo della donna, l’abito, mantenuto da un'unica cucitura, è ampio, non costrittivo. In realtà la tecnica necessaria a sorreggere tutto con un unico filo è complessa, ma la tenuta stilistica è eccezionale, così come il significato: per Balenciaga l'abito della donna libera del domani si adatta al corpo, e non viceversa.
Anche in questi anni, oltre alla moda e al cinema, sulle pagine delle riviste del gruppo continuano ad apparire gli artisti e i pensatori d’avanguardia. La mostra lo testimonia, per esempio, attraverso una foto del grandissimo sperimentatore della fotografia Ugo Mulas. Vicino alle figure più aggiornate e interessanti dell’ambiente culturale del tempo, Mulas registra qui una delle installazioni della mostra Lo spazio dell'Immagine, tenutasi in Italia, a Foligno, nel 1967. In particolare si tratta dello Spazio di Eliseo Mattiacci.
Sempre su Vogue, Horst Tappe ritrae Picasso, Irving Penn ritrae Josef Albers insieme a Jasper Johns, e poi Susan Sontag, scrittrice e attivista statunitense, insieme al figlio.
Detto questo, rivoluzione o meno, Condé Nast continuava a rivolgersi soprattutto alle élite, vecchie e nuove.
Lo si percepisce più chiaramente che mai quando, nelle fotografie degli anni Settanta, avviene uno slittamento dalla sovversione al glamour, dalla grinta all’edonismo. L’ideale che si andrà rafforzando sarà quello di un’eleganza raffinata, venata di erotismo. Non è un caso che tra i fotografi più emblematiche degli anni Settanta ci sia Newton.
La mostra chiude così, con molte pellicce, con le donne sfrontate del berlinese Helmut Newton e l’uomo di acciaio, Schwarzenegger, fotografato da George Butler; come controparte un elegantissimo Marcel Duchamp fotografato a New York da Ugo Mulas.
La scelta delle opere da esporre per comporre questa storia del XX secolo è di Matthieu Humery, consulente di François Pinault per la fotografia; lo stesso che ha selezionato dall’archivio Condè Nast le opere destinate a entrare nella collezione.
In copertina, FRANCO RUBARTELLI, Veruschka, head-to-head with a cheetah, 1967, Vogue © Condé Nast.