Biennale Architettura. Navigare tra i mondi
“Qualsiasi ottimismo è realistico solo se noi, bianchi e neri, possiamo giustificare la nostra presenza qui a parlare come “apprendisti della libertà”. Solo in tale veste potremmo forse vedere arrivare, da oltre le Hex River Mountains o dai Monti dei Draghi, quell’ospite dal futuro, l’artista come profeta della risoluzione delle culture divise.” Queste le parole della scrittrice sudafricana Nadine Gordimer in un discorso sullo stato dell’arte pronunciato al culmine dell’apartheid, nel 1979.
Lesley Lokko, curatrice della 18° Biennale di Architettura di Venezia, la cita nelle prime pagine del catalogo della rassegna a mo’ di dichiarazione d’intenti; ponendo così le premesse di una mostra orientata, fortemente ideale; soprattutto, tesa a una decisa espansione dei confini dell’architettura oltre i consueti limiti disciplinari sia in termini di ruolo che in termini di storia.
Fare architettura, per Lokko significa affrontare il rapporto di questa disciplina con la società e con le sue continue trasformazioni, e prendere in considerazione le grandi questioni che oggi attanagliano il mondo a partire da quelle, profondamente intrecciate, della decolonizzazione e delle nuove forme di colonialismo, e della decarbonizzazione così urgente a fronte dell’orgia di materie fossili che ha caratterizzato sinora il comportamento dell’essere umano nelle sue relazioni con il pianeta terra.
Inoltre, se la narrazione dell’architettura è stata sinora quasi esclusivamente occidentale, dunque incompleta, per Lokko, che è ghanese di origine, essa richiede ora di essere integrata. Così, racconta nel catalogo “abbiamo perlustrato il continente africano e la sua diaspora alla ricerca di architetti e professionisti operanti con lo spazio […]. Si tratta di individui emergenti o già affermati che rappresentano gli architetti del futuro: individui rivolti al futuro, rivoluzionari, impavidi e fantasiosi, in grado di navigare tra i mondi – nord/sud, nero/bianco; di genere/non binario – e attraverso i classici compartimenti stagni disciplinari perché glielo impone il loro stesso contesto.”
Questa, dunque, la cornice teorica di una mostra che interpreta l’architettura come un ambito in cui il mondo materiale e quello immateriale si devono poter incontrare nel nome di una possibilità di futuro, con architetti intesi non solo come progettisti, ma come varietà di persone operanti con lo spazio; Lokko li chiama “practitioners” e fra di essi annovera teorici, ricercatori, artisti.
Che tale impostazione non debba restare astratta, ma si debba anzi poter trasferire in ogni aspetto della pratica, anche curatoriale, Lokko lo evidenzia dichiarando, sin dai pannelli introduttivi della mostra, che una concreta attenzione alla sostenibilità l’ha spinta a riutilizzare nell’allestimento, per quanto possibile, i materiali della Biennale precedente. La struttura della mostra, del resto, è leggera, e valorizza le qualità dello spazio con un esito felice soprattutto per quanto riguarda l’Arsenale.
I partecipanti sono ottantanove, più di metà dei quali rappresentano l’Africa e la Diaspora Africana. L’età media è bassa, e tante sono le realtà di piccole dimensioni. Moltissimi i contributi riguardanti i modi in cui le comunità si organizzano, le diverse relazioni che si possono intavolare con i contesti, naturali o costruiti che siano, il sapere e le abilità dei costruttori tradizionali, a partire dai contadini e dai pastori.
Nella scelta di valorizzare queste forme di sapienza volte a costruire utilizzando le risorse disponibili, consumando il minimo e traendone il massimo, si può leggere un modo per rispondere all’internazionalismo e alla tendenza universalistica dell’architettura occidentale del XX secolo.
È il caso del lavoro Counteract di Diébedo Francis Kéré, fondatore di Kéré Architecture e già assegnatario del Pritzker Prize 2022, che per la Biennale ha creato uno spazio interno di proporzioni abitabili, segnato da piccole aperture, realizzato con materiali facilmente accessibili e rigorosamente circolare; con l'idea del cerchio contrapposta a quella di linearità e metaforicamente associata ai concetti di continuità, equità, partecipazione e, per estensione, cura.
Coerentemente con l’idea che la conoscenza non sia solo un necessario preludio a ogni realizzazione, ma conti tanto quanto i manufatti, la mostra nel suo complesso si presenta come un laboratorio. Percorrerla con attenzione significa, per un pubblico occidentale, saggiare una geografia alternativa, essere sottoposti a numerosissimi stimoli e confrontarsi con continue scoperte riguardanti territori diversi.
Moltissime delle esperienze proposte consistono infatti in osservazioni di realtà quotidiane precisamente situate, corroborate da ricerche e riflessioni volte a far emergere il valore e le potenzialità di luoghi apparentemente marginali, che si rivelano invece essere centri propulsori di idee, di modelli di coabitazione, di vitali alternative all’attuale modello di sviluppo.
Così per esempio Cave_Bureau, con Oral Archive, presenta un archivio di film e audio legati a una serie di azioni collettive con le quali si trasmette la memoria immateriale della cultura africana. Le azioni si svolgono in luoghi naturali quali grotte e foreste.
Se in questo caso si tratta di preservare la memoria di pratiche ancora recenti, sebbene relegate ai margini dalla cultura maggioritaria, David Wengrow e Eyal Weizman con Forensic Architecture dissotterrano segni relativi a un insediamento urbano risalente a 6000 anni fa, Nebelivka. Situato sotto i terreni coltivati dell’Ucraina, il centro abitato pare assomigliare alle prime città della Mesopotamia. Le approfondite indagini realizzate sull’ambiente circostante rivelano un’impronta ecologica sorprendentemente leggera. Inoltre sul luogo non esistono tracce di templi, palazzi, edifici pubblici, costruzioni legate a una classe dirigente. Il lavoro dei due ricercatori, che procedono secondo metodi investigativi di assoluto rigore, lascia intendere che, data la prassi costruttiva, si potrebbe trattare di ciò che resta di un’antica città in cui la vita era basata su concetti diversi da quelli di gerarchia, estrazione e predazione. Nebelivka Hypothesis equivale dunque all’idea che modelli sociali alternativi a quelli attualmente dominanti siano esistiti, e che sia possibile tornare a sperimentarne.
Se al cuore della mostra ci sono la gestione delle risorse naturali e dell’energia e, più in generale, la relazione tra essere umano, natura e vita urbana è perché urge assolutamente individuare nuove forme di sostenibilità ambientale; ma anche perché la condizione attuale del globo è basata sulle massicce attività estrattive di stampo coloniale messe in atto per secoli dall’Occidente tramite l’appropriazione non solo di ogni risorsa disponibile, ma del lavoro collettivo di intere popolazioni e addirittura della soggettività degli individui considerati “altri”. Il rischio di estrattivismo, con le sue conseguenze in termini di ingiustizia e squilibrio sociale, non si limita al passato. Estremamente generativo, per esempio, l’approccio di Ursula Biemann con Devenir Universidad: nel video si vedono alcuni membri della comunità Inga della Colombia Sud-Occidentale che raccontano la loro storia territoriale e propongono diversi tipi di apprendimento per le generazioni future. L’artista sintetizza così anni di cooperazione con il popolo Inga; anni finalizzati a co-creare un’università indigena nell’Amazzonia andina.
Quanto concreta la ricerca si possa fare lo dimostra, poco più avanti, anche Investigating Xinjiang’s Network of Detention Camps di Killing Architects: un progetto d’indagine investigativa sulla rete di campi di detenzione costruiti dal governo cinese nello Xinjiang per la reclusione di massa dei musulmani. La metodica ricerca, condotta con metodi visivi e spaziali quali immagini satellitari, modellazione 3D, e comprendente l’analisi dei regolamenti edilizi carcerari cinesi, è riportata in un video e in un grande disegno murale con chiarezza e rigore straordinari. Non stupisce che la presenza dell’opera, che aveva già ricevuto il Pulitzer Prize nella categoria International Reporting, abbia causato reazioni ufficiali da parte della Cina.
Altrettanto critico, ma completamente calato nel presente, è l’intervento che si incontra qualche passo più avanti, Wellcome in Nomadland di Le Laboratoire d’Architecture: la ricerca riguarda le possibilità di sussistenza che si offrono alle popolazioni di origine nomade in Africa e in Europa. Il lavoro, che comprende un doppio video e serie di disegni e di fotografie, denuncia le umilianti condizioni di vita a cui le popolazioni nomadi, a partire dai Rom, sono forzati, e l’assoluta distanza tra le reali condizioni di vita a cui sono ridotti e le loro aspirazioni, e l’invivibilità degli spazi abitativi che vengono loro offerti, anche in paesi in cui il benessere è diffuso. In particolare il video esposto testimonia di una situazione che ha luogo in Svizzera. In questo caso si tratta di affermare le possibilità di un’architettura di ospitalità ancora tutta a venire e, prima ancora, la necessità di tenere gli occhi aperti sulle criticità del contesto quotidiano in cui si vive.
Straordinariamente sfaccettata l’opera dell’artista belga di origine congolese Sammy Baloji, al quale è anche andata una menzione speciale della Giuria della biennale. Di lui si trova, già nella prima parte del percorso dell’Arsenale, un ampio nucleo di installazioni.
L’intero lavoro di Baloji, basato tanto su un’approfondita conoscenza diretta quanto su ricerche d’archivio, ruota intorno alla tematica coloniale e postcoloniale. Tutte le sue opere interrogano l'eredità coloniale nella Repubblica Democratica del Congo, e per estensione il fenomeno del colonialismo e delle dinamiche postcoloniali. In mostra un’installazione realizzata con Gloria Cabral consistente in una grande superficie verticale: una sorta di parete dotata di un pattern decorativo che evoca le antiche stuoie congolesi e nello stesso tempo si rifà a modalità costruttive tradizionali brasiliane. È fatta con detriti di costruzione e mattoni realizzati con rifiuti minerari dell'ex metropoli del Congo, e incorpora materiali diversi tra i quali dei frammenti di vetro veneziano; dà quindi forma alla storia dei legami tra Brumadinho, in Brasile, e Katanga nella Repubblica Democratica del Congo: legami nati con le migrazioni forzate dovute alla tratta degli schiavi, e ancora vivi, sotto altra forma, nell’attuale epoca del capitalismo globale.
Una seconda opera di Baloji consiste in un film realizzato all'interno e nei dintorni del centro agricolo di Yangambi. La pellicola combina filmati d'archivio con immagini realizzate dall'artista come parte della sua recente ricerca sul campo. Nelle immagini d’epoca, intese a celebrare l’azione civilizzatrice della colonizzazione belga, oggi si legge in tutta la sua drammaticità l'impatto a lungo termine sul paesaggio e sui metodi agricoli tradizionali di una modalità di intervento del tutto incurante delle conoscenze della popolazione locale, e tesa invece a un esito lucrativo da ottenersi, con modalità “moderne”, tramite il controllo dell’ambiente, della produzione e del clima.
La sezione dedicata a Baloji comprende inoltre un intervento che si configura come raccolta di documenti d'archivio e appunti di viaggio relativi ai sopralluoghi di osservazione in Indonesia degli agronomi e architetti del governo belga interessati ad apprendere tecniche architettoniche e agricole da applicare poi nel Congo belga.
Infine, in mostra si trova una sua maquette relativa al padiglione del Belgio disegnato dall'architetto Henry Lacoste per l’Esposizione Universale del 1935. Il padiglione, sperimentale dal punto di vista architettonico, mai realizzato in quanto complessissimo dal punto di vista tecnico, avrebbe dovuto non solo ospitare elementi della cultura materiale del paese, ma restituire il suo paesaggio, il suo clima, la sua fauna, consentendo al pubblico di saggiarli. L’edificio si sarebbe quindi presentato come una sorta di opera d’arte totale, come un saggio di progresso scientifico e, in conclusione, come un trionfo della rappresentazione coloniale che, come lascia intendere Baloji, ha sotteso l’intero sviluppo culturale dell’occidente, e continua a influenzarlo.
Ciò che più chiaramente emerge nella mostra è una miriade di situazioni specifiche da scoprire. Esperienze che avvengono in centri di dimensioni ridottissime o nel cuore delle città, che possono riguardare aspetti infrastrutturali, economici, educativi, il rapporto con l’ambiente naturale, e che spesso vedono una ridefinizione grazie a dinamiche community-led. Ad accomunarle il fatto che mettono in discussione le basi accreditate della modernità, considerando che per poter costruire occorre partire da una revisione di quel paradigma.
Da qui l’importanza di sondare il portato di memoria sommersa dei luoghi e delle genti. Non è un caso che il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale sia andato al padiglione brasiliano curato da Gabriella de Matos e Paulo Tavares per un lavoro che invita a ritrovare il Brasile come territorio ancestrale e diasporico e ad attivare dinamiche di ricostruzione, riparazione e restituzione nei confronti delle diverse popolazioni che lo abitano.
Analogamente, tra le opere presentate c’è il video Root City che recupera la storia del Brasile nero, sempre cancellata dalle narrazioni ufficiali o descritto solo attraverso la lente della schiavitù. In questo lavoro, con grande poesia, Cartografia Negra porta alla luce le storie degli africani, dei popoli della diaspora e dei brasiliani che hanno costruito San Paolo, e lascia intravedere le numerose implicazioni di questa storia. Tra l’altro il racconto accenna al progetto di sbiancamento della città avvenuto sostituendo ai lavoratori di colore gli immigrati italiani, numerosissimi nel paese soprattutto nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento.
In questo senso si è mosso anche il collettivo DAAR – Sandy Hilal e Alessandro Petti – con il progetto Ente di Colonizzazione Borgo, al quale è andato il premio per la migliore partecipazione alla mostra: un’esplorazione sull’idea di decolonizzazione che prende la forma di un esperimento di riappropriazione critica dell'architettura coloniale fascista. Il progetto è consistito nel creare una serie di quindici elementi plastici assemblando i quali si otteneva una copia in scala della facciata dell'edificio principale di un insediamento rurale, Borgo Rizza, Carlentini, edificato nel 1940 vicino a Siracusa nell’ambito dell’attività dell'Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS), la cui funzione era di bonificare, modernizzare e ripopolare la Sicilia, considerata dal regime fascista arretrata, sottosviluppata e 'vuota'. Nello stesso periodo logica e linguaggio architettonico analoghi venivano adottati nella pianificazione urbana coloniale in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia. A partire da maggio 2022 gli elementi frutto della scomposizione della facciata, di un rosso pompeiano sbiadito, sono stati utilizzati come moduli polifunzionali, in modi e in situazioni diversi, ma sempre in dialogo con il contesto urbano, sia nel paese stesso sia altrove, in Italia e fuori: dalla Mostra d'Oltremare a Napoli, al quartiere Hansaviertel a Berlino, al museo La Loge di Bruxelles. Trasportati poi all’Arsenale, oggi possono essere usati come sedute dalle quali guardare un video che restituisce momenti di condivisione del progetto.
Questa mostra ambiziosa, innervata da una spinta ideale, costituisce un concentrato di conoscenze da acquisire e un arricchente laboratorio di idee; mentre i progetti architettonici veri e propri sono pochi. Fra le eccezioni c’è l’ampio spazio dedicato a David Adjaye, protagonista maggiore dell’architettura nel continente africano, di cui viene presentata una serie di modelli che vanno dal progetto per la cattedrale nazionale del Ghana a quello per un museo legato a un memoriale in forma di cimitero dedicato agli schiavi, nelle Barbados. Adjaye Associates ha anche creato all’aperto, vicino all’acqua, il Kwaeε: un padiglione di legno di forma scultorea e di dimensione abitabile, che prende il nome dal termine ghanese twi, ossia ‘foresta’.
Ma per il resto l’idea dominante di questa Biennale è che nei secoli si è costruito fin troppo senza fermarsi a riflettere, e che l’architettura si è piegata troppo spesso ad assecondare la tendenza all’iniquità, traducendola in sperequazione spaziale; il suo impatto sugli ecosistemi e sulla vita degli esseri viventi, umani e non umani, non è stato necessariamente positivo. Pensare in termini di singoli progetti, come normalmente viene fatto, non è più sufficiente. Occorre invece andare ai fondamentali: alle cause profonde delle crisi e dei malesseri correnti, alle necessità e ai desideri che possono orientare i nuovi processi e, ancora più importante, alle soluzioni che già si offrono, ma che occorre sapere riconoscere ovunque si celino. Lokko stessa, del resto, non si riconosce tanto nella disciplina architettonica come convenzionalmente intesa, quanto nell’attività teorica, essendo anzitutto scrittrice e docente, oltre che fondatrice ad Accra, in Ghana, dell'African Future Institute che promuove la cultura, l'arte e l'architettura della comunità black diffusa nel mondo.
Nel frattempo però si sa che in tutto il mondo, Africa compresa, l’architettura procede a costruire massicciamente, sottesa molto spesso da grandi connivenze, frutto di avidità economica e con pochi scrupoli in termini di sostenibilità ambientale e sociale. Questo aspetto nella mostra resta curiosamente non detto. Un’omissione flagrante, che non può non corrispondere a una scelta decisa, ma che in alcuni momenti si fa sentire come una mancanza.
Ciò detto questa mostra radicale e appassionata, che ha irritato molti architetti, non solo costituisce una fonte straordinaria di stimoli e pone domande ambiziose e necessarie sulla possibilità di futuro di cui disponiamo; indica anche con grande convinzione una direzione di sviluppo possibile: quella di un rinnovamento profondo del concetto di conoscenza, che deve tendere a una visione complessa basata su un’esplorazione del presente a trecentosessanta gradi. Rispetto a quanto fatto sinora occorre, insomma, una pausa di approfondimento.
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In copertina, MDM Kéré-Architecture. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future, Photo by Matteo de Mayda Courtesy La Biennale di Venezia.