Monteverdi a Vicenza con Iván Fischer / L’“Incoronazione” trash di Poppea

4 Novembre 2021

L’incoronazione di Poppea è la prima e la più celebre delle opere che non si basano su soggetti mitologici o letterari. I personaggi principali sono realmente esistiti e gli eventi della trama sono effettivamente accaduti. “Da una storia vera”, come si dice oggi: in questo caso quella – più o meno attendibile – raccontata da Tacito e Svetonio sull’imperatore Nerone. Dopodiché, è noto che il vero ha ben poco a che fare con il melodramma. E così si spiega perché questo particolare “sottogenere” sia in realtà infrequente nei quattro secoli abbondanti trascorsi da quando è stato inventato il teatro per musica. Ma ciò non fa che sottolineare l’eccezionalità, nel senso stretto del termine, del capolavoro ultimo di Claudio Monteverdi.

La Poppea è infatti un’eccezione da tutti i punti di vista. Lo era per il soggetto, quando andò in scena durante il Carnevale del 1643 al teatro Grimani di Venezia, una delle sale in prima fila nel “sistema” dei teatri pubblici, nato appena sei anni prima e già assurto a vasta popolarità. Lo era nella storia creativa del suo autore, giunto alla veneranda età di 75 anni (sarebbe morto nel mese di novembre di quello stesso 1643) senza essere mai uscito prima, per quanto riguarda il teatro musicale, dal recinto mitologico di Orfeo e Ulisse, Arianna e Andromeda, Enea e Lavinia, per citare alla rinfusa i due capolavori giunti fino a noi (oltre alla Poppea) e i titoli che sono andati perduti.

 

Colorfoto - Vicenza.


Lo era per la sua caratteristica di opera musicalmente non di una sola mano, anche se fra i collaboratori chiamati a raccolta – forse per le frenetiche esigenze produttive dell’epoca – il maestro di cappella di San Marco era naturalmente il “primus”. Storici e musicologi continuano a scavare nei documenti e a cercare prove sulla partecipazione all’intrapresa di musicisti attivi allora a Venezia come Francesco Sacrati e Francesco Cavalli, Benedetto Ferrari e Filiberto Laurenzi. Ed è per esempio convinzione ormai comune – per tacere delle complesse analisi attributive sui due manoscritti esistenti – che il brano più celebre dell’opera, il conclusivo duetto “Pur ti miro” fra Nerone e Poppea, non sia di Monteverdi, così come il testo non è del librettista Gian Francesco Busenello. Del resto, la prima attribuzione al musicista cremonese della Poppea risale a un quarantennio dopo le rappresentazioni veneziane del 1643. E il nome del librettista era diventato noto solo nel 1656, quando Busenello aveva pubblicato in un’edizione a stampa i propri libretti.

 

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Ma è un’eccezione formidabile anche il fatto che quest’opera scritta e rappresentata 378 anni fa, dopo essere rinata alle scene all’inizio del Novecento continui ad apparirci di affascinante attualità e si possa considerare in repertorio. È attuale non solo e non tanto per il tagliente realismo del discorso sulle degenerazioni del potere condotto da Busenello, in una storia nella quale il Male trionfa e la tesi del discorso (una condanna di ciò che Roma imperiale rappresentava rispetto all’ordinamento della Serenissima Repubblica), se esiste è così sotterranea da risultare comunque evanescente. Lo è soprattutto per la potenza drammaturgica con la quale il discorso si dipana attraverso la multiformità del “parlar cantando”, che solo raramente lascia lo spazio ad aperture melodiche propriamente dette. La Poppea costituisce infatti la realizzazione ultima e definitiva dell’estetica monteverdiana, lungamente affinata nell’ambito madrigalistico, secondo la quale alla musica spetta il compito di sottolineare e di esaltare la parola. E con essa il gesto scenico e la definizione psicologica ed espressiva dei personaggi. Solo due secoli dopo l’apparizione di quest’opera, conclusa la stagione dell’edonismo belcantistico settecentesco (non a caso imprigionato nell’estetica del lieto fine), il teatro per musica avrebbe trovato una comparabile forza drammatica.

 

Opera “immorale” come poche altre, nel suo esaltare l’erotismo come indispensabile elemento di una concezione assolutista e scandalosamente arbitraria del potere, L’incoronazione di Poppea può essere letta in chiave attualizzata, come ha fatto il direttore d’orchestra Iván Fischer, in veste di regista (a quattro mani con Marco Gandini), al teatro Olimpico di Vicenza. Ma assimilare Nerone e la corrotta Roma del I secolo, affollata di opportunisti e arrampicatori di ogni risma, a certi ambienti e certe situazioni di oggi è una lettura di prospettiva corta. Anche perché non basta a illuminare l’avvincente complessità di un capolavoro drammatico che assurge a vette estetiche assolute nel narrare in musica gli abusi e le miserie umane. In altre parole, l’analogia fra la decadenza della Roma imperiale e quella attuale può anche essere cavalcata in uno spettacolo, ma ha bisogno di altro, a partire da un minuzioso lavoro sui personaggi costruiti dalla musica di Monteverdi.

 

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La Poppea costituiva il clou della quarta edizione del Vicenza Opera festival, che la Iván Fischer Opera Company realizza nell’aulica cornice del teatro palladiano. Nel 2019 lo stesso musicista aveva realizzato qui un mirabile allestimento dell’Orfeo, sempre di Monteverdi. Uno spettacolo notevole per valori musicali e vocali come pure per sensibilità ed eleganza nelle scelte rappresentative, in suggestivo connubio con lo spazio palladiano.

In questo caso, lo spettacolo è parso più che altro un rutilante collage, una sorta di puzzle di soluzioni visive più o meno “provocatorie” ma comunque fini a sé stesse, dentro a una cornice visiva volutamente pacchiana, in qualche caso francamente trash. Poppea ha le movenze e il (ridotto) abbigliamento di una ragazza disinvolta dalla sfrenata ambizione; o al più di una diva del pop esageratamente glamour. Nerone è vestito di bianco come un discotecaro “tarocco” anni Novanta e a un certo punto indossa – non è ben chiaro per quale motivo – scarpe con i tacchi a spillo; Seneca è abbigliato (i costumi sono di Anna Biagiotti) come un pittore en plein air di fine Ottocento, mentre soldati e militari indossano i cappottoni e gli occhiali neri di prammatica banalità.

 

Tutti si muovono su alcuni praticabili bianchi e rosa, “arredati” con grandi cuscini dorati, con uno specchio ovale dietro al quale c’è una riproduzione della Venere di Botticelli, con un paio di troni pure di color dell’oro (scene di Andrea Tocchio). La stessa tinta ha la vasca da bagno dentro alla quale Seneca si taglia le vene per ordine del suo ex allievo, l’imperatore Nerone. Fra queste cianfrusaglie kitsch trovano posto anche i musicisti della Budapest Festival Orchestra, molto mobili nel passare da una parte all’altra della scena e quindi parte dello spettacolo, alla fine pronti anche a suonare marciando con un accenno di passo dell’oca.

Il rapporto con lo spazio monumentale dell’Olimpico – che pure poteva offrire suggestioni e perfino analogie “romane” intriganti – è nullo. Ed è sorprendente per un musicista come Fischer, che negli anni scorsi aveva dimostrato di voler cercare e trovare, in quanto regista, una sintonia istintiva ed efficace con lo spazio scenico del più antico teatro coperto del mondo.

 

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Oltre la dimensione passionale ed erotica, risolta come si è provato a descrivere, manca del tutto qualsiasi discorso sulla Storia, sul potere e le sue degenerazioni, ovvero sulla tragedia che costituisce il filo rosso implicito di tutta l’opera e che diviene conclamata nel finale in cui sensualmente trionfano i “cattivi”. Manca la politica: Nerone è un bellimbusto infoiato vestito di bianco depositario del diritto di vita e di morte su tutti non si sa per quale aberrazione della storia. Ma se deve duettare eroticamente con Poppea, lo fa per telefono.

Così disarticolata la drammaturgia coerente e intrigante di Busenello e Monteverdi, neanche sul piano musicale lo spettacolo è parso del tutto convincente. Il versante vocale ha visto i risultati più persuasivi nelle parti femminili. Seducente sia vocalmente che scenicamente la Poppea dell’elegante soprano caraibico Jeanine De Bique; coinvolgente per taglio drammatico e rigore stilistico l’Ottavia di Luciana Mancini; precisa Silvia Frigato nei ruoli della Fortuna e di Venere; efficace Núria Rial che ha dato accenti appassionati e sinceri a Drusilla.

 

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Trionfatore della serata – due applausi a scena aperta – è stato però il tenore Stuart Patterson, impegnato nelle parti “en travesti” delle nutrici di Poppea (Arnalta) e di Ottavia. Sono due personaggi molto diversi: il primo realizza il carattere caricaturale tipico delle opere drammatiche del Seicento, il secondo tratteggia di fatto una figura servile e cortigiana. Entrambi sono stati resi con vocalità di straordinaria duttilità espressiva e sensibile capacità di scavare nella parola in chiave teatrale.

Se il sopranista Reginald Mobley è stato un Ottone di voce elegante e ben condotta ma flebile, e il basso Gianluca Buratto ha dato a Seneca la dolorosa e vocalmente corposa consapevolezza che la musica di Monteverdi dipinge sul suo personaggio, il controtenore Valer Sabadus è stato un Nerone sbiadito: colore aspro, poco controllo sull’acuto, fraseggio stilisticamente generico, presenza in scena appena accennata. Fra gli altri componenti del numeroso cast, il giovanissimo Jakob Geppert della ChorAkademie di Dortmund si è proposto come un Amore di buona presenza in scena, ma vocalmente frenato, mentre i soldati Thomas Walker e Francisco Fernández-Rueda, insieme a Peter Harvey, hanno restituito efficacemente anche le rare parti a tre dell’opera.

 

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Strumenti storici per la Budapest Festival Orchestra in organico ridotto, con pochissimi fiati e archi tuttavia “montati” secondo le consuetudini attuali: corde metalliche, archetti moderni, per un suono “storicamente informato” solo in senso lato. Basso continuo essenziale, fra violoncello, tiorba e tastiere (due cembali, organo portativo). Fischer ha diretto con misura e stile sicuro, trovando buone sottolineature all’interno del declamato che costituisce la spina dorsale della partitura e qualche buona sfumatura di colore e di fraseggio. Tutto sommato ben scelti i non pochi tagli sulla partitura, sempre operati all’interno delle scene.

Per la prima volta l’Olimpico tornava alla capienza piena, senza distanziamenti. E tutte tre le repliche hanno fatto registrare l’esaurito e un successo completo. 

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