Mosca, 9 maggio 2015
Cominciamo da un simbolo, ancora una volta: il nastro di san Giorgio (georgevskaja lentočka), una decorazione militare che nell’era sovietica non godeva di particolare prestigio. Fungeva da supporto per una serie di medaglie, compresa quella concessa a chi aveva combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, ma non era stata caricata di peculiari significati allegorici. La sua valenza metaforica si arricchì, in forma di nastro senza accessori, nel 2005 in occasione del sessantesimo anniversario della vittoria e in conseguenza della fortuna di cui in occidente aveva goduto la cosiddetta “rivoluzione arancione” di Ucraina.
Da sinistra: la medaglia per la vittoria sulla Germania nazista retta dal nastro di San Giorgio; il nastro di San Giorgio del 2005.
Vista la coincidenza di colori, in Russia acquisì significati nazionalistici e fu adottato da chi voleva testimoniare il proprio sostegno al Cremlino e alla sua politica. In Ucraina e negli stati baltici è associato al nazionalismo filo-russo e, di conseguenza, detestato, addirittura messo al bando. L’antropologo russo Aleksej Jurčak, in forza alla University of California at Berkeley, ha proposto una lettura dell’uso-abuso che, in occasione del corrente anniversario, si è fatto in Russia di questo simbolo. Estrapolo dal suo contributo un concetto base e alcune immagini che lo avvalorano. Secondo Jurčak la retorica legata alla vittoria è strettamente connessa a quella aggressiva sviluppata nei confronti dell’occidente che ha caratterizzato le più recenti posizioni del governo Putin. Inoltre, le forme di trasporto emotivo raggiunte dalle celebrazioni e dal seguito entusiastico riscontrabile nella popolazione paiono avere ancora una volta dimenticato (o affrancato) l’altissimo numero di vittime e l’immane sacrificio perpetrato durante gli anni del conflitto.
Da sinistra: “Aroma di vittoria” (caffè con l’onorificenza di san Giorgio); infradito con i colori di san Giorgio
Adesivi per automobili: "1941-1945 Possiamo fare il bis"
Nei giorni scorsi a Mosca, e in parecchie altre città del Paese, si sono svolte ripetute prove generali della parata. Kiev, in conseguenza della guerra nel Donbass, quest’anno celebrerà la ricorrenza soltanto con un concerto. Di giorno e di notte dal 25 aprile in poi si sono succedute simulazioni e ripetizioni della sfilata che prevede 15.000 soldati (non soltanto russi) e circa 200 unità di tecnologia militare. Un carro armato della nuovissima generazione “Armata”, fiore all’occhiello dell’arsenale putiniano, si è bloccato, durante la prova generale, proprio di fronte al mausoleo di Lenin. Nonostante il pronto intervento dei meccanici l’avaria non si è risolta e il mezzo è rimasto immobile per tutta la parata. Il commentatore ufficiale al termine della sfilata ha dichiarato che la fermata era stata prevista come dimostrazione della capacità di evacuazione dei mezzi militari. Che ci abbiamo creduto o no, immancabili anche nella capitale russa, i cittadini presenti non si sono privati delle foto ricordo con il carro armato in panne.
Al fatidico e tradizionale scoccare delle 10.00 all’orologio del Cremlino (9.00 ora italiana) del 9 maggio 2015 la voce solenne e carica di pathos del commentatore ha dato ufficiale inizio alle celebrazioni. Un cielo terso e soleggiato avrà parzialmente consolato il Presidente Putin per la vistosa assenza dei leader occidentali, alcuni dei quali prenderanno parte a cerimonie parallele e successive ma che, significativamente, hanno voluto ribadire la posizione di dissenso nei confronti del Cremlino non sedendo tra le fila degli ospiti d’onore sulla tribuna. Come dire, siamo pronti a manifestare l’omaggio alle vittime che sono cadute e a coloro che hanno combattuto per compiere questa immensa impresa, ma a loro direttamente rendiamo il nostro atto di riverenza e non all’istituzione che oggi li vuole rappresentare. È stata percepibile fin dai primi momenti una sovrabbondanza di retorica, impostata non su estetizzanti rievocazioni o sfoggio di fronzoli nostalgici bensì su un più asciutto, quanto profuso, ricorso a registri, toni e lessico in cui termini (propri del discorso sovietico) quali patriottismo, coraggio, spirito di sacrificio e superiorità rispetto al resto del mondo, l’hanno fatta da padrone. Sulle note di Svjaščennaja vojna (Guerra sacra), la canzone tragica e solenne simbolo primario degli anni bellici, lo storico vessillo della vittoria e la bandiera della Federazione russa hanno fatto il loro ingresso sulla piazza Rossa, portate da un drappello degli otto migliori elementi del glorioso 154° reggimento Preobraženskij e scandite dalla dizione maestosa ed enfatica dello speaker. La tribuna d’onore era allestita ancora una volta ai piedi del Mausoleo di Lenin, punto inevitabilmente strategico nell’economia spaziale della piazza: una struttura a parallelepipedo trapezoidale decorata con manifesti e i colori della bandiera russa, la cui funzione altra non era che oscurare lo scomodo monumento costruttivista con il suo ancora più spinoso inquilino.
La tribuna d’onore allestita davanti al mausoleo di Lenin
Anche la facciata dei grandi magazzini ex GUM, che fiancheggiano la piazza in tutta la sua lunghezza sul lato opposto al Cremlino, era tappezzata di tabelloni e immagini. In questo caso non tanto per dissimulare la politicamente innoqua gigantesca struttura del centro commerciale, storicamente testimone di decenni di manifestazioni, quanto per creare una parete retorica che delimitasse e racchiudesse il percorso di parata, pur senza togliere grandiosità allo smisurato territorio, parafrasando con le sue citazioni quanto si sarebbe svolto sulla piazza.
La “parete” di cartelloni sulla facciata del centro commerciale
A dominare, il manifesto inneggiante all’anniversario e ponderatamente ispirato alla pace con la colomba bianca su fondo azzurro e la “firma” istituzionale del nastro di san Giorgio.
"Vittoria! 70 anni"
Il commento sonoro procede con l’evocazione degli anni di guerra e con il riferimento al nazismo definito con pathos sempre crescente koričnevaja čuma (peste marrone). Dal fondo della piazza si manifestano le due decapottabili tradizionali che portano i militari di alto grado, rispettivamente, a passare in rassegna (prinimat’) e comandare (komandovat’) la parata. Il Ministro della difesa Šojgu, su una delle due, esordisce con un inedito e oltre modo eloquente segno di croce, ripreso da un primo piano della camera che sale a inquadrare un’icona sull’arco sopra di lui, e dà inizio al classico ob”ezd (giro d’onore). Sempre spettacolare e di forte impatto strategico ed emozionale è il rito del saluto ai compatti e straordinariamente scenografici drappelli di soldati schierati che rispondono all’augurio del Comandante con il tonante triplice urrà, capace ancora oggi di scatenare brividi emotivi di diversa natura.
I drappelli schierati ricevono il saluto dei comandanti
La scenografia è impressionante per potenza, coordinamento, simmetrie, coinvolgimento empatico, ma allo stesso tempo disturbante per la rigidità e l’enfasi retorica che la caratterizza. Al termine della rassegna il Ministro si avvia in auto verso la tribuna dove rivolgerà le sue formule augurali al verchovnyj glavnokomandajuščij (comandante in capo supremo) delle forze armate russe, il Presidente Putin, dandogli la parola per il discorso ufficiale. Putin risponderà con un sobrio “grazie” e si accosterà ai microfoni. Dal suo breve intervento estrapolo alcuni momenti-concetti che mi sono parsi significativi. Immancabili evocazioni della grandiosità della vittoria, dell’orgoglio di avere vinto la “forza oscura” e il rimando alla necessità contemporanea di doversi risintonizzare su problemi causati da politiche razziste e razziali, chiamati a farlo dalla storia. Il testo su cui legge è stampato sotto i suoi occhi in chiare e grandi lettere e prevede espliciti riferimenti alla eroica responsabilità dell’Unione Sovietica e al glorioso contributo dell’Armata Rossa nella fine del conflitto. “Cari amici”, prosegue Putin, ricordando con una elencazione che tradisce i disagi del momento, i più recenti dissensi e conflitti politici, alcuni (e solo alcuni) dei popoli che hanno contribuito a fianco del russo a raggiungere la “vetta più eroica della storia”. Alleati, partigiani (anche tedeschi) che dopo l’incontro sull’Elba hanno continuato a difendere la liberazione dei popoli d’Europa dal nazismo. I valori post-bellici sono stati raccolti dall’ONU (presente il segretario), da associazioni e potenze internazionali ma, purtroppo, aggiunge Putin senza che la voce cambi registro o tradisca emozione di sorta, negli ultimi dieci anni gli accordi di collaborazione internazionale sono stati ripetutamente violati. Non è possibile pensare alla sicurezza dei paesi facendo conto su coalizioni che ostacolano lo sviluppo mondiale. Il Presidente procede con saluti agli stranieri che hanno contribuito alla vittoria finale, francesi, inglesi e americani (in absentia) e poi cinesi, indiani, serbi, mongoli. Invita successivamente a un minuto di silenzio, scandito dal metronomo, per onorare la memoria di tutti quelli che non sono tornati. Le telecamere inquadrano la fiamma del fuoco eterno sulla tomba del milite ignoto, indugiano su qualche viso di veterano, ma non includono le centinaia di persone convenute con ritratti e fotografie dei moltissimi caduti. Vero è che si astengono con intelligenza dal cavalcare tigri di troppo facili emozioni che potrebbero scadere nel folcloristico, ma altrettanto vero è che la folla viene totalmente ignorata, a eccezione di qualche primo piano su bambini festanti vestiti in divise militari. Il triplice urrà dei soldati saluta l’omaggio ai veterani e la citazione che pone fine al discorso presidenziale: “Gloria al popolo vincitore!” Inno nazionale suonato dalle bande, salve di cannoni. Inquadratura della bandiera russa sullo sfondo delle cupole d’oro delle cattedrali del Cremlino. Stato e chiesa di nuovo uniti nel giubilo.
Dopo mezz’ora dal principio ha inizio la parata vera e propria che, come ha anticipato lo speaker, si svolgerà in tre parti: truppe di terra, mezzi e strutture di guerra e aviazione. Secondo la tradizione delle manifestazioni sulla piazza Rossa, ricorda il commentatore, ad aprire la sfilata saranno i tamburini della scuola di musica militare moscovita. Seguono i primi stendardi dei fronti che hanno segnato le tappe finali della guerra, anche in questo caso scelti tra i paesi che sono oggi alleati con la Russia putiniana. La musica di Proščanie Slavianki (L’addio della slava) fa da accompagnamento alla parte storica della parata: divise a armi d’epoca. Tutti i soldati che sfilano, e che sfileranno successivamente, esibiscono il nastrino di san Giorgio in bella mostra. Si susseguono rappresentanze dei vari corpi e delle varie armi, i Cosacchi del Kuban’, i paracadutisti dell’operazione Crimea (noti ironicamente tra la gente come vežlivye ljudi, persone gentili, essendo stati così definiti dallo stesso Putin), i militi di Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Tagikistan e poi dell’India, della Mongolia, della Serbia, della Cina.
I soldati indiani alla parata del 9 maggio 2015
Tutti gli altri assenti e ignorati. Mentre la colonna sonora passa da Podmoskovnye večera (nota in Italia come Mezzanotte a Mosca), canzone hit del festival della gioventù moscovita indetto da Chruščëv nel 1957, dunque estranea all’epopea bellica, a Katjuša (in Italia riproposta come Fischia il vento), dedicata al sostegno fornito dalle donne sovietiche durante il conflitto. Seguono le accademie militari, allievi e allieve (finalmente un frivolo contingente femminile nel machismo dominante) dell’Università militare di Mosca che fornisce una preparazione tattico-umanistica e le forze armate della Federazione russa al completo. L’orchestra attacca Moskva majskaja (Mosca di maggio), una popolare, allegra e ottimistica marcetta del famigerato 1937 staliniano (qui in una rappresentazione d’epoca), il cui testo recitava, tra l’altro: “Perché brillino più luminosi / i nostri slogan di vittoria, / perché Stalin sollevi in alto le mani / mandandoci il suo saluto”.
L’ingresso sulla piazza degli aviatori è segnalato da un’altra canzone d’epoca sovietica, Aviamarš (Marcia degli aviatori), il cui ritornello “vsë vyše, vsë vyše, vsë vyše” ("sempre più in alto, sempre più in alto, sempre più in alto") è in perfetta sintonia con lo spirito dell’odierna manifestazione. Un’inquadratura dall’alto ribadisce lo sfoggio di muscoli che costituisce la base della parata in forma di perfezione, grandiosità, esibizione di potenza. Quando tocca ai marinai di Sebastopoli, rappresentanti della gloriosa flotta del Mar Nero, la voce del diktor si fa ancora più roboante e scandita. Putin viene spesso inquadrato mentre scambia commenti con i due ospiti che ha vicini: il segretario delle Nazioni Unite e il leader cinese.
Putin e si suoi ospiti con il nastro di san Giorgio
Il procedere marziale dei marinai è reso con estrema efficacia da un’inquadratura dal basso che coglie e amplifica l’effetto a onde della loro camminata. Analogo effetto suggestivo era stato dalla camera posta sotto le zampe dei cavalli. Il passaggio dei militari responsabili della chimiche militare è sottolineato dal commento che esalta il loro contributo che “ha ridotto al minimo le conseguenze del disastro di Černobyl”. (!)
Le parole dello speaker parlano di “coraggio, eroismo e spirito di sacrificio, come tratti fondamentali nella gestione della guerra” e arrivano dalla banda le note di una famosa canzone sovietica del 1958, Pesnja o trevožnoj molodosti (Canzone della gioventù irrequieta): “Questa è la nostra preoccupazione, / facile è la nostra incombenza: / che viva il paese natio, / e non esistano altre inquietudini!".
Alle 11.00 precise le orchestre bandistiche lasciano la piazza per fare luogo al pezzo forte della mattinata: la sfilata dei mezzi e delle attrezzature militari. Anche i carri armati sfilano in ordine cronologico, da quelli storici-sovietici ai più recenti prototipi modello “Armata”, che presto costituiranno, a detta del commentatore, la base più affidabile delle forze armate russe. Lo sferragliare dei cingoli lungo le tracce che segnano il percorso da seguire sul selciato della piazza è al contempo suggestivo e allarmante. I cannoni contraerei portano a una nuova sparata retorica fatta di “grandiosità, affidabilità, esclusività, potenza”. In fine tocca ad aerei ed elicotteri sorvolare la piazza in formazioni più che spettacolari. Di nuovo parte la Marcia degli aviatori e la telecamera inquadra elicotteri e cupole d’oro, “i migliori del mondo!”.
Elicotteri e cupole delle cattedrali del Cremlino
I bombardieri strategici hanno le ali geometricamente modificabili, e dimostrano la possibilità di fare rifornimento di carburante in volo. L’aviazione da caccia forma in cielo la cifra 70 fra le aquile poste sulla sommità di due torri del Cremlino e segna, lasciando la classica scia con i colori della bandiera, la chiusura della manifestazione.
Aerei scrivono la cifra 70 in cielo
Un coro a cappella intona di fronte alla tribuna d’onore una canzone sovietica del 1975, My armija naroda (Siamo l’esercito del popolo). Ennesimo segnale di Putin urbi et orbi: “Facciamo il nostro dovere, / a plotoni, a compagnie. / Siamo immortali come il fuoco. Siamo l’esercito del popolo. / La storia preserva la nostra grande gloriosa impresa”. L’orchestra saluta con l’immancabile melodia di Den’ Pobedy (Il giorno della vittoria), canzone che negli anni Sessanta aveva segnato il ritorno del discorso bellico nella storia sovietica. Lo speaker si congeda con un roboante: “Gloria ai veterani”!
Come valutare la telecronaca di questa manifestazione? Direi sottolineando prima di tutto il “basso profilo” scelto da Putin per il proprio ruolo. Al proprio posto fin dall’inizio, consapevole dei clamorosi buchi nella sua tribuna d’onore, ha rinunciato a red carpet esibizionistici. Ha ostentato in cambio la sicurezza che gli veniva della potenza marziale che aveva messo in scena, consapevole dell’innegabile effetto di magnificenza e imponenza bellica, ma ha anche tenuto un atteggiamento quasi corrucciato e distaccato. Caratteristico del suo stile dell’image che si è costruito negli anni ma, questa volta, a mio parere, più manifesta del solito. Come un bambino che partecipa a un anniversario ma non rinuncia a far capire che è contrariato perché molti suoi amichetti non sono venuti e, per questa stessa ragione, gonfia i suoi muscoli metaforici più che mai. Ribadendo, nel fare di necessità virtù, la volontà di isolarsi dal famigerato occidente e, al contempo, di umiliarlo nell’esclusione con la ridondanza delle torte (missili e soldati) che sfilano per la sua festa. Rinunciando però, come era stato nel 2005, a inscenare pagine di storia con dettagli appariscenti, operettistici, di facile riscontro emotivo (sgargianti veterani bardati a festa, saluti e abbracci commossi, bandiere rosse, simboli sovietici), preferendo affidare a minacciosi mezzi corazzati e complessi missilistici la responsabilità di lanciare segnali. Altro discorso, con ogni probabilità, è quello legato alla festa “popolare”, quella che la gente ha celebrato fuori dal territorio sacrale della piazza e lontano dallo sguardo delle telecamere. Non saranno mancati i ritratti di Stalin, più espliciti simboli sovietici, lacrime di sincera commozione, immancabili bottiglie di vodka nelle varie occasioni, più o meno ufficiali, di celebrazioni pomeridiane e serali. Le dimensioni umane, autentiche, in sintonia o meno con il discorso del Cremlino, condivisibili oppure no ma, fortunatamente, sempre presenti. Purtroppo la televisione non li ha ripresi e chi, come me, si è dovuto accontentare della ripresa televisiva, seppure in diretta, li può soltanto immaginare. Allo scendere delle tenebre, immancabile e atteso da tutti si scatena il saljut, lo spettacolo di fuochi d’artificio che evoca quello mitico del 1945 e illumina a giorno la vecchia capitale.
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