Muholi: fotografa attivista visiva
Di recente, parlando con alcuni amici dell’attivista visiva sudafricana Zanele Muholi, (in mostra al MUDEC di Milano fino al 30 luglio 2023 sessanta suoi autoritratti fotografici in bianco e nero), ho avvertito una perplessità, forse una diffidenza, nei confronti di quell’autodefinizione. Attivista o artista? Può l’arte accompagnarsi all’attivismo, senza esserne mero strumento?
Capovolgiamo dunque la domanda: può un artista non essere un attivista visivo? Non lo sono stati Giotto, Simone Martini, Michelangelo, Caravaggio, Artemisia Gentileschi, Tintoretto, Courbet, Géricault, Picasso, Bourgeois…? Non ha, ognun* di loro, interrogato a fondo la tradizione, la propria biografia e il proprio tempo storico nel suo divenire sociale, politico, tecnico, ma anche nelle sue inerzie, nelle sue aporie, nei suoi interessi truccati? Non è funzione stessa dell’artista attivare il proprio e l’altrui sguardo là dove regna l’opacità della consuetudine e della convenienza? Interrompere, perché si possa andare avanti?
Nel caso della fotografa Muholi la domanda si complica ulteriormente: come può, un’artista queer, nera, ultimogenita di una famiglia di cinque figli, primo mestiere parrucchiera, non attivare il suo e l’altrui sguardo semplicemente ponendo il tema della propria esistenza e dunque della propria visibilità e, di conseguenza, della propria soggettività?
Il punto di vista di ZM è esplicito e i suoi intenti politici nitidi: negli archivi visivi del suo paese d’origine, il Sudafrica (ma non è così in tante altre nazioni del mondo?), il non conforme non è rappresentato se non ‘dopo morto’ oppure per inchiodarlo alla sua difformità, sfigurato da quella crudele architettura sociale che vorrebbe imbrigliare tutte e tutti in uno schema binario sempre più esangue e poco corrispondente alla realtà. Il corpo queer, in particolare il corpo queer femminile nero, è letteralmente assente dagli archivi figurativi. La questione è come rivendicare e imporre una visione diversa o, per dirla in altro modo, come frastagliare lo sguardo, assumendo il principio della reciproca interrogazione. Si tratta infatti di evitare le secche di un’ennesima appropriazione, di una pur involontaria riproduzione della prospettiva coloniale o di un nuovo e speculare irrigidimento. Il s/oggetto finora ‘invisibile’ non va esposto, ma riconosciuto. Chi osserva non può essere indotto a compiere un atto voyeuristico.
Lo strumento della fotografia si muove costantemente sul crinale di questa duplicità: mostrare/esibire, soggettivare/oggettivare, rivelare/ mascherare. Proprio qui entra in campo l’attivismo caro a Muholi, che non è agitazione e propaganda, ma una postura affettiva, un identificarsi amoroso e dolente, un gesto di ri-guardo.
In un progetto fotografico cui ha lavorato per quasi un decennio, Faces and Phases 2006-2014 (Prestel Publishing, Munich and London 2010), l’artista dà vita a una teoria di sontuosi, monumentali ritratti in bianco e nero. Il ‘popolo’ (non la minoranza) che ne emerge – lesbiche e trans nere, da principio solo sudafricane, poi di altre parti del mondo – ci interpella con determinazione: noi esistiamo e siamo così, diverse tra noi come voi lo siete tra voi e al contempo unite e soppresse dalla vostra paura, dalla vostra mancanza di immaginazione, dalla vostra soffocante idea di normalità. Guardateci, come noi guardiamo voi. Noi ci siamo e siamo stanche di essere cancellate, di doverci mimetizzare, di essere la muta ombra della vostra oscura luminosità.
Muholi tuttavia non si accontenta dell’utilità sociale della propria opera; compone e teatralizza, sovverte lo sguardo, ridisegna i canoni estetici. Crea teoria.
«L’immagine», scrive Georges Didi-Huberman in Quando le immagini prendono posizione (2018), «brucia a causa del ricordo, cioè brucia anche quando non è altro che cenere: un modo di dichiarare la sua sostanziale volontà di esistere, malgrado tutto. Ma, per saperlo, per sentirlo, bisogna osare, bisogna avvicinare alla cenere il proprio volto. E soffiare delicatamente, di modo che le braci, al di sotto, diano nuovamente il loro calore, la loro lucentezza, il loro pericolo. Come se, dall’immagine grigia, si levasse una voce: “Non vedi che sto bruciando?”»
Ecco, Muholi osa.
Di lì a poco, infatti, avvia un progetto ancora più radicale. Se la materia della sua attività di artista visiva resta «la resistenza nera: l’esistenza, nonché l’insistenza dei neri», nella serie Sonnyama Ngonyama, Ave Leonessa Nera (24 Ore Cultura, 2021) oggetto e soggetto si piegano l’uno sull’altro, diffrangendosi in una moltitudine di personaggi. Il ritratto si converte in autoritratto per esplodere in ritratto di gruppo all’interno di uno spazio e di un’epoca definiti, ma non conclusi.
Muholi prende a mettere in scena il proprio corpo e una gamma di oggetti d’uso quotidiano che il regime di apartheid ha trasformato in oggetti dal forte carattere simbolico. Ne scaturiscono trecentosessantacinque autoscatti fotografici privi della benché minima traccia di intimismo, esibizionismo o narcisismo. Il suo è un esercizio degli occhi – una pratica del guardare e del guardarsi sapendosi guardata – fermo, risoluto, insostenibile. Che si cinga la testa con una corona di pagliette per pulire i tegami (lo strumento di lavoro e di oppressione delle madri nere al servizio nelle case dei bianchi) o che si avvolga attorno al collo e alle spalle dei copertoni per bicicletta (rimando non troppo velato alla cosiddetta “collana”, una forma di feroce esecuzione extragiudiziale praticata in Sudafrica sotto l’apartheid), il suo volto diventa un campo di forze.
In uno scritto del 1997, “Uno sguardo oppositivo: la spettatrice nera” (in Elogio del margine/Scrivere al buio, Tamu 2020), la teorica e attivista femminista africana-americana bell hooks scrive: «ricordo che da bambina venivo punita perché guardavo, per quegli sguardi sfrontati, intensi, diretti che i bambini rivolgono agli adulti, sguardi percepiti come aggressivi, come gesti di resistenza, sfide all’autorità. Nella mia vita, lo “sguardo” è sempre stato politico. Immaginate il terrore della bambina che, attraverso ripetute punizioni, è arrivata a capire che lo sguardo può essere pericoloso. La bambina che ha imparato così bene a guardare dall’altra parte quando è necessario. Eppure, quando la puniscono, i genitori le dicono: “Guardami, quando ti parlo”. Solo che la bambina ha paura di guardare. Ha paura di guardare, ma è affascinata dallo sguardo. C’è potere nel guardare».
Già, continua hooks anticipando Muholi, «perché tutti i tentativi di reprimere il diritto allo sguardo di noi bambini e dei neri avevano prodotto in noi uno straordinario desiderio di guardare, un desiderio ribelle, uno sguardo oppositivo. Dimostrando il coraggio di guardare, dichiaravamo con spavalderia: “Non mi limiterò a guardare, voglio che il mio sguardo cambi la realtà”».
E, per cambiare la realtà, non basta proclamarsi vittime e oggetto del dominio altrui, fantasmatiche proiezioni di un onnipotente occhio cieco. Si tratta di guardarsi e di vedersi da sé e in altro modo, sottraendosi al dispotismo di una narrazione figurale univoca e di una temporalità lineare. La preziosa contronarrazione fotografica in bianco e nero di Muholi nasce dal progressivo scortecciarsi di tutto ciò che è andato incollandosi o sovrapponendosi al suo corpo per renderlo invisibile. «Il potere», come afferma Frantz Fanon, «è insieme dentro e fuori di noi». L’opera dell’artista sudafricana si pone tra quel dentro e quel fuori come un’epifania: tumultuosa, ironica, raffinata, imprescindibile.
Foto in copertina: © Zanele Muholi | Sebenzile, Parktown 2016