Nam June Paik in Italia
Avete mai guardato la tv? Certo che sì. No, ma intendo, l’avete mai guardata negli occhi?
E l’avete mai ascoltata? Certo che sì. No, ma intendo, ascoltata quando non ha niente da dirvi. Quando non è costretta a mandare in onda la vostra serie preferita, la partita del mercoledì sera, il talk show che vi dà di cosa parlare con i vostri amici il sabato pomeriggio.
Le avete mai sorriso? Avete mai chiuso gli occhi e percepito la sua presenza?
Insomma, l’avete mai contemplata, ci avete mai giocato assieme...? L’avete mai considerata e amata per quello che è, un apparecchio elettronico da cui escono suoni e immagini?
Non credo. Per molti di noi la televisione è una vera compagna di vita, è lei a scandire le giornate, a fornire le risposte di cui più ci fidiamo.
Sì, oggi forse è in parte sostituita dal computer, dal web, ma l’uso che se ne fa è simile. Si accende e voilà, la nostra vita è piena di contenuti, di informazioni, di storie, persino di emozioni, il nostro tempo è speso, la verità acquisita.
La rivoluzione digitale opera quotidianamente per noi. Ogni giorno costruisce e garantisce le nostre necessità di certezza, rapidità e precisione. E mette tutto in ordine, per data, orario, tipo di fruitore, desiderio. Tutto prontamente al riparo dalla vita.
Ma cosa succede se noi a quello schermo togliamo i contenuti e restituiamo il caos che, in realtà, gli appartiene?
Ogni certezza viene meno. Aiuto. Un flusso disordinato di dati audio e visivi, così com’è la vita stessa, rumorosa, fastidiosa, ma anche colorata, imprevedibile, fisica...
Images of John Cage’s 26’1.1499 for a String Player Performance at the Café Go-Go, New York,1990. Fotografia e pittura, collezione privata.
Nam June Paik è un artista che l’ha sperimentato, proprio quando il mezzo televisivo ha iniziato ad essere l’amico fedele delle famiglie benestanti americane (ma non solo) del secondo dopoguerra.
Della televisione e più in generale, dell’avanzamento tecnologico, Paik ha tenuto la magia, per portarla al limite, varcando la soglia di ogni possibile contenuto. L’ha svuotata, immolata, moltiplicata...
Siamo all’inizio degli anni Sessanta e in Germania nasce Fluxus, quella corrente espressiva che lasciava spazio al flusso incondizionato di azioni, visioni, ascolti, seguendo una forma artistica totalizzante, oltre ogni confine formale e disciplinare. L’artista coreano, che inizia a studiare musica a Tokyo, ne entra a far parte fin da quando prosegue i suoi studi tra Monaco, Friburgo e Colonia, dove, tra gli altri, compone musica elettronica assieme a Stockhausen. Nel 1962 Paik fa interpretare a diversi musicisti One for Violin Solo, una partitura per “gesti” che si conclude con lo schianto del violino da parte del musicista. Sì, esatto, quel gesto dissacratorio che poi il mondo del rock ha perpetrato, scandalizzando o esaltando le folle. Il mezzo artistico, lo strumento pregiato, la fonte d’eccellenza della composizione classica, viene sacrificato dal creatore stesso, colui che decide, che rompe, che irrompe, colui che è capace di estrarre dallo strumento sempre qualcosa di diverso.
Dal ‘67 il gesto diventa ancora più estremo quando Paik fa suonare la violoncellista Charlotte Moorman, sua musa e compagna creativa da quando si trasferisce a New York nel ‘64, con due piccoli televisori sui seni nudi, quindi in topless, poi cosparsa di cioccolato, con una maschera antigas, sospesa in aria, dentro l’acqua e in molte altre condizioni in occasione di vari festival newyorkesi. La musica diventa un tutt’uno con chi la suona e non può fare a meno del musicista e del suo corpo. Il musicista è carne e fisicità e la sua presenza deve portare a superare quella che Paik, nel manifesto dello storico concerto del ‘67, chiama “ipocrisia pre-freudiana”: la musica deve liberarsi dall’essere “seria” e “classica”, così come hanno fatto letteratura e pittura.
Luciano Pavarotti,1995. Radio, monitor e oggetti vari, collezione privata.
Diplomatosi su Arnold Schönberg, Paik studia e pensa la musica come una totalità che comprende tutto, tutti i sensi, tutte le possibilità dell’esperienza. Ed è con questo pensiero che approda all’opera italiana, in cui, dice, “c’è tutto: la musica, il movimento, lo spazio”. “Il primo personaggio italiano che ho incontrato nel mio percorso è stato il tenore Beniamino Gigli... Poi ho visto La Traviata in Corea. Ricordo che dopo averla vista non riuscii a dormire, l’impressione fu enorme.”
Sì, l’opera! Quella italiana, quella che andiamo a vedere in abito da sera, dove è concesso addormentarsi, che dura atti interminabili. Sì, quella! Paik la usa per creare musica “elettronica”, distorta, fisica, ed è un grande momento quello in cui dà vita, a Venezia, nel ‘66, in occasione della biennale, al Gondola Happening, sempre assieme alla Moorman, con cui suona Cage e Saint-Saens su una gondola viaggiante tra i canali.
Da allora l’Italia è per Nam June Paik un paese dove tornare e sperimentare, grazie anche a Rosanna Chiessi, personaggio ancora poco noto per la portata delle sue imprese, ma determinante nel portare nel nostro paese (in particolare a Reggio Emilia, che recentemente le ha dedicato, a Palazzo Magnani, la mostra Women in Fluxus & Other Experimental Tales ) gli artisti “fluxus”, e nel conservare, grazie all’attività di Pari&Dispari con cui ha prodotto edizioni ed eventi unici dagli anni Settanta in avanti, documentazioni inestimabili.
È a partire da questo patrimonio, oltre a quello di altri importanti collezionisti del territorio emiliano e non (come Antonina Zaru e Carlo Cattelani) che aoltre dieci anni dall’ultima mostra museale italiana dedicata all’artista, la Galleria Civica di Modena ha scelto di presentarci il lavoro di Nam June Paik proprio da questo punto di vista, aprendo la pubblico fino al 2 giugno la mostra Nam June Paik in Italia, oltre cento lavori, documenti editoriali e fotografici provenienti dal territorio emiliano che raccontano lo scambio tra l’artista e l’Italia soprattutto nel periodo della sua massima frequentazione, tra gli anni Settanta e Novanta.
Sacro e profano, 1993. 2 monitor con video e scultura, collezione privata.
In Italia Paik realizza diverse opere “scultoree” e dedica alle nostre città, all’inizio degli anni Novanta, un’intera serie di “quadri composti”. A questo periodo appartengono anche i famosi “robot”, con i loro corpi fatti di grammofoni, valvole, manopole e bottoni, radio e ferri da stiro, tra cui spiccano personaggi italiani come Pavarotti e Giuseppe Verdi (Oriental Painting, Direttore d’Orchestra, Luciano Pavarotti,Maria Callas, Giuseppe Verdi, tutte del 1995); così come Sacro e Profano (1993), dove un buddha disteso strizza l’occhio a una donna seducente ingabbiata dietro al monitor; o, ancora, il Young Buddha on Duratrans Bed (1989-92), composto da strani apparecchi radio-televisivi disteso su un letto a baldacchino cinese.
Sessualità e meditazione, tecnologia e lirica, semplice gesto ed esuberante euforia, sintesi e iterazione: cultura orientale e cultura occidentale si mescolano, senza imbarazzo, in uno sguardo che valica ogni confine, geografico e culturale, simbolico e spirituale.
L’esperienza di Paik è quella della vita, senza alcuna necessità, un flusso senza regole, che continua, chissà, anche dopo la morte, in tutti quei luoghi dove l’artista ha chiesto di esser disperso dopo la cremazione. 3 febbraio 2006.
Young Buddha on Duratrans Bed,1989-1992. Letto a baldacchino cinese con tela in seta, piano base composto da 2 lastre in plexiglas con foto e 2 neon all’interno, 4 monitor incassati in una radio d’epoca, 2 video laser disc, 2 video reader disc, collezione privata.
Peter Moore, Jim Mc Williams The Intravenous Feeding of Charlotte Moorman, IX Annual Avant Garde Festival of New York, stampa 1972. Dall’album Charlotte Moorman and Nam June Paik, 1964-74, Edizioni Pari & Dispari, 1975. Serie n. 12/15.
Peter Moore, Jim Mc Williams The Intravenous Feeding of Charlotte Moorman, IX Annual Avant Garde Festival of New York, stampa 1972. Dall’album Charlotte Moorman and Nam June Paik, 1964-74, Edizioni Pari & Dispari, 1975. Serie n. 12/15.