Napoli super Modern

9 Luglio 2022

Napoli è una città stratificata, densa e difficile da decifrare. Giulio De Luca l'ha definita una volta, riferendosi al suo sviluppo urbano, impenetrabile.

Un orientamento, almeno per quanto riguarda l'architettura, ce lo dà una bella mostra adesso esposta al S AM (Museo Svizzero di Architettura) di Basilea che arriva a due anni dall'uscita del grande successo editoriale omonimo Napoli Super Modern, in Italia edito da Quodlibet e nella versione inglese dalla zurighese Park Books. 

Mostra e libro sono frutto del lavoro di ricerca dello studio parigino LAN, Umberto Napolitano e Benoit Jallon, che si avvalgono dell'accurato lavoro fotografico di Cyrille Weiner.

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Nel bell'allestimento del S AM la prima sala, sottratta alla sequenza delle successive, viene ad assumere il ruolo di una vera e propria introduzione. È qui che i curatori offrono un assaggio di quell'atlante cronotopico che Gianluigi Freda nel libro aveva suggerito come possibile forma ideale per un'esplorazione napoletana; ed è sempre qui che mettono in mostra Le mani sulla città di Francesco Rosi, film cardine sulle vicende dell'urbanistica partenopea del dopoguerra più volte citato nei saggi che arricchiscono il libro.

Il film è del 1963, anno che, con la realizzazione dell'edificio di Raffaello Salvatori in via Ponte di Tappia, chiude il trentennio (1930-1960) che fa da sfondo ai 18 edifici che compongono il racconto di Napoli Super Modern e sancisce la fine di un'ambiziosa serie di interventi sulla città consolidata aprendo la stagione del salto di scala verso la grande conurbazione metropolitana. 

Nelle immagini che scorrono sotto i titoli di testa – un cubitale e maiuscolo LE MANI SULLA CITTÀ – sfilano i nuovi palazzoni della ricostruzione del dopoguerra. Sono campi lunghi sulla congestione urbana ripresi dall'elicottero del ministro che ha appena avvallato l'ipotesi speculativa presentata nei due discorsi che introducono il film: quello di Edoardo Nottola – l'imprenditore senza scrupoli che ha bisogno della politica per far espandere la città sulle aree agricole di sua proprietà – e quello del Sindaco, che avvalora e ufficializza il piano di Nottola, in un'alleanza scellerata che inchioderà presto la città a un'espansione urbanistica sconsiderata. 

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Le stesse riprese in volo sulla Napoli in trasformazione chiudono il film e, insieme alla sovraimpressione finale "i personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce," sembrano spingere il destino della città in un gorgo asfittico, il cui riferimento è certamente la stagione politica napoletana appena trascorsa. Non è forse Achille Lauro l'imprenditore che è riuscito a tessere una rete di consenso solida e ramificata nella Napoli piegata dalla guerra, incrociando i desideri di affari degli imprenditori, di case della nuova borghesia impiegatizia, di lavoro della popolazione indigente, e facendo dell'edilizia il settore di investimenti più manovrabile e redditizio?

È sempre dall'alto che Rosi decide di inquadrare Napoli quando Nottola la guarda dalle finestre del suo ufficio in cima al grattacielo della Società Cattolica Assicurazioni di Stefania Filo Speziale, inchiodando suo malgrado al palo la carriera della talentuosa architetta napoletana. Il grattacielo, che doveva rappresentare la svolta in grande nella professione di Filo Speziale, finisce di fatto per seppellirne il futuro, a causa del clamore nato accidentalmente a causa del film.

Ed è cominciando da lei che proviamo a percorrere il moderno napoletano, come ci viene descritto da Napoli Super Modern.

Stefania Filo Speziale fu la prima architetta della città, laureata nel 1931 alla neo-nata Scuola Superiore di Architettura. Personalità fortissima, colta e profonda conoscitrice del moderno d'oltralpe, progettò alcuni degli edifici più simbolici del dopoguerra: suoi sono il cinema teatro Metropolitan, edificio ipogeo ricavato in una grande cava sotto il palazzo Cellammare in via Chiaia, che con i suoi 3000 posti, quando inaugurò nel 1948, era il più grande cinema d'Italia, e il già citato grattacielo della Società Cattolica (1956-58), per cinquant'anni l'edificio più alto di Napoli.

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Nelle 18 opere analizzate in Napoli Super Modern, della Filo Speziale sono analizzati il grattacielo e il bellissimo Palazzo Della Morte (1954-1960), che prende il nome dalla famiglia che lo commissionò, e in parte ancora lo abita. Seguono altri 16 edifici, tutti emblematici, dal Mercato Ittico di Luigi Cosenza, ritenuta da molti la prima architettura moderna napoletana, alla Stazione Marittima di Cesare Bazzani, realizzata all'interno del ripensamento fascista dell'area portuale, dal celebre Palazzo delle Poste di Giuseppe Vaccaro, culmine della conversione del rione Carità da quartiere abitativo a centro direzionale, alle opere di Marcello Canino, da alcuni dei più rappresentativi edifici della Mostra d'Oltremare, come il Cubo d'Oro o il Padiglione dell'Albania ad alcuni architetture minori di straordinaria bellezza, come la Stazione Fuorigrotta della Ferrovia Cumana e Villa Oro di Luigi Cosenza e Bernard Rudofsky. È impossibile trovare un filo rosso tra queste opere, perché il contesto è di volta in volta diversissimo, e ad esso le architetture aderiscono. 

È la tesi stessa di Napoli Super Modern, ben delineata nel saggio di Andrea Maglio su una modernità conciliante: il moderno napoletano non ha modelli ideali da proporre, ma declina quella cultura alle circostanze del progetto, alla conformazione morfologica della città, con i suoi salti di quota, gli scorci inaspettati, le cavità del suolo, dando vita a un linguaggio spurio, mediato di volta in volta dalla sensibilità degli autori. 

È questa assenza di ideali e di modelli architettonici ad aver marginalizzato l'architettura napoletana di quegli anni come viene ipotizzato nel libro? È difficile crederlo. È interessante notare come certe tensioni tra linguaggio moderno e legame con il contesto si sono espresse anche altrove in Italia nel dopoguerra, tensioni che invece di marginalizzare hanno dato vita a controversie concitate sugli esiti del moderno italiano. 

Si pensi al dibattito che si consumò sul Casabella diretto da Rogers e che polarizzò per tutti gli anni Cinquanta gli esponenti dell'architettura italiana. Dilemma? Come tradurre nel dopoguerra in Italia i principî introdotti dal Movimento Moderno. Il riferimento è la milanesissima torre Velasca dei BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers), assurta a simbolo della continuità rogersiana. 

 

Sarebbe interessante approfondire le corrispondenze tra l'accoglienza spietata riservata al grattacielo della Società Cattolica Assicurazioni di Stefania Filo Speziale, che le costò la carriera e la polemica sulla torre Velasca, che varcò persino i confini nazionali ai CIAM di Otterlo nel 1959, quando Jaap Bakema e Peter Smithson accusarono l'architettura della torre milanese di opporre resistenza alla modernità, intesa anche come modello morale. Eppure Rogers ne uscì indenne.

Questione di immaginario popolare? La torre Velasca sbarca al cinema con Il vedovo di Dino Risi, come alter-ego tutto moderno della villa in campagna. Ma il film, con i prodigiosi Franca Valeri e Alberto Sordi, è una commedia e la torre non incute paura. Il grattacielo di Filo Speziale, al di là dei meriti e demeriti architettonici, viene ingiustamente fatto coincidere con la speculazione edilizia che Rosi denuncia. 

Ma come non notare che il grattacielo si staglia nel paesaggio napoletano come elemento di discontinuità, mentre la torre dei BBPR, nelle stesse intenzioni dei suoi autori, persegue un'ideale di continuità. Continuità è un concetto insistito nel saggio di Umberto Napolitano. 

"Fare città" richiede di inserirsi in un continuum di forme e veneti che definiscono la specificità di un luogo. O più avanti, Le opere costruite a Napoli tra il 1930 e il 1960 e analizzate in questo libro mostrano la volontà di porsi in continuità con un luogo. Difficile non pensare a Rogers quando più avanti scrive, Alla domanda: "Qual è la città di domani?", vogliamo rispondere che è soprattutto la città di ieri.

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Rimane un certo grado di ambiguità in queste righe, ambiguità su cui gioca anche il bel titolo del libro, solo fintamente muscolare. Quel super che accompagna il moderno napoletano nel titolo, non vuole rafforzare, ma esprimere un'idea di eccellenza (qualitativa), di straordinarietà (contestuale) e pluralità complessiva. Un moderno che supera i suoi stessi canoni nella tensione urbana di cui ci parla Gianluigi Freda nel saggio Perché Moderna. La modernità napolitana ha saputo decifrare questa tensione, e, attingendo a un repertorio formale che ha assimilato la lezione del moderno, lo ha reinterpretato alla luce della complessità del territorio.

Napoli campeggia in giallo con un carattere ellenico (corsi e ricorsi) sulla splendida copertina azzurra del libro. Napoli Super Modern, anche nella mostra svizzera, ha il pregio di rimettere questa straordinaria città al centro della scena.

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