Non siamo nati per nuotare

1 Agosto 2024

Noi umani non siamo nati per nuotare. Per quanto nel nostro albero genealogico – “l’albero della cuginanza”, come lo chiamano alcuni studiosi – vi sia probabilmente un pesce, il Tiktaalik, che centinaia di milioni di anni fa abbandonò per ragioni sconosciute l’acqua, noi non siamo dei nuotatori. Dobbiamo imparare per immergerci in oceani, mari, laghi, fiumi, ruscelli e stagni. Sebbene sentiamo un’attrazione per l’acqua – non tutti, perché c’è chi anche la teme –, il nuoto è una tecnica che siamo costretti ad acquisire. Secondo una definizione si tratta di “uno stato perenne di non-annegamento”, mentre per l’Oxford English Dictionary il nuoto è “una propulsione del corpo attraverso l’acqua, grazie all’uso degli arti e alla posizione di galleggiamento in superficie”.

Annegare significa morire per immersione, o inabissamento, in acqua, per inalazione del liquido, cosa che può avvenire con facilità, se è vero che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno muoiono annegate 372.000 persone. Del resto solo nel 1878 la Royal Navy rese obbligatorio per i marinai saper nuotare. L’eroe del nuoto, cui Charles Sprawson dedica pagine affascinanti nel suo classico, L’ombra del massaggiatore nero, libro capitale sul nuoto, è George Gordon, conosciuto come Lord Byron, così come il più commuovente dei nuotatori è senza dubbio Percy Bysshe Shelley; in qualche punto del golfo della Spezia, dove Shelley è annegato, c’è un cippo dedicato invece a Byron: “il famoso nuotatore e poeta inglese”. Prima di Georg Gordon nessuno aveva descritto “l’elettrizzante sensazione del nuoto”.

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Claudicante trovò nel nuoto la risposta al suo piede infermo, che teneva occultato dentro i calzoni per nasconderne il difetto. L’Ellesponto, che noi conosciamo oggi come lo stretto dei Dardanelli, fu il luogo dove costruì il suo mito rinverdendo quello di Leandro, il giovane innamorato di Ero, sacerdotessa di Afrodite, destinata a restare vergine per la dea, ma che il giovane raggiungeva ogni notte in segreto per congiungersi a lei, nuotando per lo stretto e tornando indietro all’alba, fino a che una notte annegò nel mare in tempesta non riuscendo ad arrivare a riva dove Ero teneva accesa la lanterna del suo segnale. Byron attraversò a nuoto l’Ellesponto il 3 maggio 1810 al secondo tentativo accompagnato dall’amico Ekenhead, che arrivò per primo sull’altra sponda. Fu il culmine delle sue traversate del Tamigi, del Canal Grande a Venezia, del lago di Ginevra e altro ancora. Per tutto l’Ottocento gli inglesi furono considerati i migliori nuotatori del mondo, nell’epoca in cui lo sport s’impose come uno dei tratti distintivi di quel paese.

Tutti i campioni provenivano dal Nord dell’Inghilterra e mantennero a lungo il loro primato. Fu quella l’epoca in cui la rana divenne il modello imitato del nuoto sostituendo il cane. Nel 1879 il “Boys Own Paper” consigliava agli aspiranti nuotatori di disporre sul pavimento di casa un catino d’acqua con dentro una rana viva e di coricarsi su uno sgabello con la pancia e imitare i movimenti dell’animale, pratica che era già stata proposta nel 1676. Per quanto poi sia stato superato dallo stile libero, lo stile a rana resta il più “naturale”, lento e silenzioso. Del resto il crawl è il più difficile da nuotare bene per via del grande coordinamento richiesto di braccia e gambe. A battezzarlo con questo termine nel 1867 è stato un australiano, Charles Steedman, in un libro: chi lo praticava dava infatti l’impressione di procedere carponi nell’acqua. Un artista, George Catlin, nel corso dei suoi viaggi nel West, nel 1844 l’aveva visto utilizzare dagli indiani e descritto così: eseguono la bracciata verso l’esterno, in direzione orizzontale sforzando seriamente il torace, inclinando il capo alternativamente sul fianco sinistro e su quello destro, sollevano un braccio completamente al di sopra dell’acqua e lo spingono il più avanti possibile.

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Esistono naturalmente altri stili, tra cui i più riconoscibili sono il dorso, il primo che viene insegnato ai principianti, e anche quello che dispone alla maggior serenità, come scrive Carola Barbero, e il delfino, o farfalla, che manifesta la grazia e la potenza del nuoto insieme. Se i pesci nuotano per obbligo, noi umani quasi solo per scelta. Perché? Ester Williams, campionessa di nuoto, e soprattutto attrice in indimenticabili film musicali come Bellezze al bagno (1944), ha detto: “Quando si è in acqua si è senza peso e senza età”. Verissimo, ma c’è dell’altro. Si tratta del sea-dreaming, come spiega Oliver Saks in un capitolo del suo libro Ogni cosa al suo posto. Riguarda la magia dell’acqua, la sua capacità d’agire su di noi. Lo illustra molto bene uno psicologo ungherese dal nome impronunciabile: Mihaly Csìkszentmihàlyi. Si chiama flow come spiega in un suo libro: Flow. Psicologia dell’esperienza ottimale. Secondo Bonnie Tsui la parola deriva dall’inglese antico e significa: “allargare”, “fluire”; ma avrebbe anche altri significati: “piangere”, “nuotare”, “bagnarsi”. Ricapitola l’esperienza dell’immersione totalizzante nell’acqua, nel mare in particolare, dove l’io stesso sembra svanire, insieme a qualsiasi cognizione del tempo, dice lo psicologo: “Azione, movimento e pensiero si susseguono inevitabilmente, come quando si suona il jazz”.

Una forma di concentrazione che procura un senso profondo di gioia, la stessa che deve aver provato Lord Byron nell’Ellesponto. A detta di Csìkszentmihàlyi il nuoto è un’ossessione, come certificano tutti coloro che ne sono affetti; ma tra i suoi vantaggi c’è quello di sbloccare i pensieri fissi e liberare la mente sino a sviluppare pensieri creativi. “Mi rallegro in mare – scrive Byron – e ne riemergo con una leggerezza d’animo che non provo da nessuna altra parte”. Il poeta loda questo sentimento in una sua composizione intitolata Versi scritti dopo aver nuotato da Sesto a Abido, in cui rinnova il mito greco di Ero e Leandro intestandoselo. Gaston Bachelard lo spiega da filosofo della scienza e da psicologo del profondo in un altro saggio affascinante: L’Eau et les Rêves (1942). Quando nuotiamo in un lago, in un fiume o nel mare, ci accorgiamo che l’acqua alimenta un tipo particolare di fantasticheria.

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Mentre la mente si svuota, comincia a entrare nel ritmo costante e quasi automatico delle bracciate qualcosa che ci permette di attingere alle profondità della fantasia e della immaginazione, come se invece di galleggiare scendessimo in fondo all’acqua, in un regno altro, che si spalanca davanti a noi in modo simile a quanto accade nelle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, dove la bambina cade nel buco e incontra creature fantastiche prodotte dalla propria mente. Il nuoto ci apre le porte di uno spazio liminare che cambia la percezione di sé stessi e del tempo. Una metamorfosi. Forse i pesci pensano così? Per saperlo bisogna nuotare, nuotare, nuotare e ancora nuotare. 

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Da leggere:

C. Sprawson, L’ombra del nuotatore nero (Adelphi); L. Sherr, Nuotare (Ultra); C. Barbero, L’arte di nuotare (il Melangolo); B. Tsui, Perché nuotiamo (66TH); M. Csìkszentmihàlyi, Flow. Psicologia dell’esperienza ottimale (Roi Edizioni); O. Sacks, “Tipi acquatici”, in Ogni cosa al suo posto, Adelphi; G. Bachelard, Psicoanalisi delle acque (Red Edizoni).

Questo articolo è stato pubblicato su "la Repubblica", che ringraziamo

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