Omocausto: l’oblio della vergogna

27 Gennaio 2012

Ne I sommersi e i salvati Primo Levi racconta che quasi tutti i sopravvissuti allo sterminio nazista avevano un incubo ricorrente: di tornare a casa, di provare a raccontare quello che era accaduto e di non essere ascoltati o creduti. Levi conclude: “Fortunatamente le cose non sono andate come le vittime temevano e come i nazisti speravano”.

Il sogno di Levi e dei sopravvissuti viene raccontato quasi con gli stessi termini da Heinz F., uno dei sopravvissuti intervistati nel documentario Paragraph 175 (2000) di Rob Epstein, Jeffrey Friedman e Klaus Müller. Non si tratta però di un sogno, ma della realtà quotidiana che segnò il destino di Heinz e di tutti coloro che nell’universo concentrazionario portavano, in quanto omosessuali, il triangolo rosa.

 

 

Per quasi trent’anni i gay sopravvissuti allo sterminio nazista tacquero. Ciò avvenne per due motivi: non esisteva, come nel caso ebraico, un soggetto collettivo che accogliesse e trasformasse i ricordi individuali delle testimonianze nella memoria di un gruppo sociale riconosciuto; e soprattutto il paragrafo 175 – che prevedeva pesanti condanne penali per gli uomini che compivano atti omosessuali – fu parzialmente abolito nella Germania Ovest solo alla fine degli anni sessanta. Fino a quel momento raccontare la propria storia voleva dire per i sopravvissuti esporsi al rischio di essere arrestati.

Fu quindi solo dopo il 1969 – anno della depenalizzazione degli atti omosessuali e della nascita della comunità GLBT nelle rivolte newyorchesi dello Stonewall – che alcuni dei sopravvissuti decisero di parlare.

Tuttavia negli oltre due decenni di silenzio molte delle prove dello sterminio andarono perse o furono cancellate e molti dei testimoni morirono senza lasciare traccia della loro storia.

Si era prodotto proprio ciò che, per dirla con Levi, “i nazisti speravano”: oblio.

I vuoti dell’oblio accompagnano lo spettatore di Paragraph 175 dall’inizio alla fine. Nei primi minuti del documentario, Karl Gorath, uno dei sopravvissuti contattati da Klaus Müller, sfoglia un album da cui sono state strappate delle foto: restano i segni del nastro adesivo su una pagina nera. Gorath ha deciso di eliminare le tracce di alcuni ricordi e ha anche deciso di non parlare più: “sono ricordi molto spiacevoli, ne ho parlato una volta anche a Brema. Ma ora non voglio più parlarne”. La prima testimonianza è data nella forma paradossale del rifiuto della testimonianza, dove l’evento rimane esclusivo ricordo privato e non condiviso e la memoria – quella pubblica – assume la forma di una voluta mancanza.

 

 

 

Heinz Dörmer racconta la storia del “bosco che canta”, il luogo dove venivano torturati ebrei e omosessuali e dove risuonavano le urla delle vittime: “non si può spiegare […] e molto di ciò che accadde è ancora segreto”.

 

 

Quella di Pierre Seel è invece la storia di un uomo che subito dopo la guerra decise di metter su famiglia per poi ritornare, con il fallimento del suo matrimonio, a quegli eventi. A lui, come a tutti i gay perseguitati, non fu concesso né il risarcimento né lo statuto di vittima: “che mi faccia bene parlarne? Per me è troppo, Klaus. Non ne voglio più parlare. Basta. Io provo vergogna per l’umanità. Una vergogna. Uno schifo”.

 

 

E Heinz F.: “Non ne ho mai parlato con mia madre… Avevo vergogna… Ognuno ha sopportato. In silenzio… non ne ho mai parlato con alcuno”.

Le parole dei sopravvissuti risprofondano nel silenzio: non più il non poter parlare imposto dalla legge, né quello provocato dalla mancanza di un interlocutore che possa raccogliere la testimonianza. Si tratta invece del silenzio della vergogna. Un silenzio che si ricongiunge a quello dei sommersi e a quello dei salvati che hanno dovuto tacere: lo spettatore viene informato alla fine del documentario che altri due sopravvissuti omosessuali sono stati interpellati, ma “non hanno accettato di raccontare la loro storia in questo film”.

Negli anni ottanta la memoria appena riemersa dello sterminio ha permesso alla comunità GLBT di far comprendere all’opinione pubblica la tragedia dell’epidemia di AIDS. Mentre epidemiologi, giornalisti e politici proponevano di fermare la malattia marchiando con un tatuaggio gli omosessuali (William Buckley sul New York Times) o mettendoli in quarantena in “campi di isolamento”, l’associazione ACT UP stampò dei manifesti con il triangolo rosa accompagnato dalla scritta Silence=Death (silenzio=morte).

L’uso del triangolo rosa aiutò gli stessi omosessuali a mobilitarsi, uscendo dal silenzio della vergogna cui l’epidemia li aveva nuovamente costretti: il “mai più” era sul punto di diventare, nelle politiche sanitarie proposte in quegli anni, un “ancora”.

 

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