Anamorfosi / Ornamento, Juan Cardenas

19 Novembre 2018

Anamorfosi è “l’arte di rendere quasi irriconoscibile un’immagine attraverso una distorsione calcolata della prospettiva”. 

Nonostante la moglie del protagonista affermi che bisogna “rinunciare all’interpretazione”, la parola chiave del romanzo di Juan Cárdenas, seminata tra le pagine a più riprese, suggerisce il contrario. 

Ornamento – questo il titolo del primo libro pubblicato in Italia da SUR di un autore colombiano innegabilmente interessante – è esso stesso un’anamorfosi. Si tratta, leggendolo, di cogliere gli indizi per scoprire la prospettiva (o le prospettive) giuste. Si tratta, lasciandosi portare dalla strana e scomposta trama, di mantenere un leggero distacco per poter cogliere il dietro le quinte delle parole, o per dirla con Manganelli, l’ombra delle parole, pur correndo il rischio che, “come succede con l’anamorfosi, una volta rese comprensibili, le parole dicano molto meno di quello che suggeriscono nel loro stato deforme. L’aspetto rilevante dell’anamorfosi è la distorsione stessa, non la forma occulta”.

 

Cárdenas costruisce un mondo distorto eppure di poco lontano dal nostro, più vicino a una qualche piega del reale che al fantastico o alla distopia. 

Non c’è ambientazione precisa, si intuisce la Colombia in quanto riferimento topologico dell’autore ma potrebbe in fondo essere ovunque, una città fatta di laboratori tremendamente puliti e asettici e di quartieri degradati e affascinanti perché più vivi, ma lo stesso vissuti come fossero un sogno, come i vicoli misteriosi in cui scompare Laide in Un amore di Buzzati. Potrebbe essere un Occidente qualsiasi. 

 

In questa città qualsiasi di un Occidente qualsiasi, un medico riporta in un diario – in tono inizialmente scientifico, poi in parte più disorientato e umano – aspetti e momenti del suo lavoro e della vita privata. Veniamo a sapere della moglie artista – insieme frustrata e di successo; di un laboratorio asettico dove tutto è automatizzato e il personale umano è ridotto ai minimi termini; di scimmie ragno come personale di vigilanza; della sintetizzazione di un nuovo tipo di droga che riequilibra gli stati d’animo e provoca eccitazione sessuale ma che ha effetto solamente sulle donne; di quattro volontarie a cui viene per qualche tempo somministrata la sostanza, tre delle quali inizialmente non fanno che dormire; della paziente numero 4 che invece si lascia andare a racconti assurdi, forse un misto tra ricordi e sogni, fatti di frasi a volte apparentemente sconnesse, altre più fluide, ma che costruiscono sempre immagini improbabili. Così la prosa pulita e razionale del medico si alterna con i misteriosi e ovattati monologhi della paziente, che riesce infatti a costruire un rapporto particolare con il protagonista – il cui lavoro è appunto monitorare le reazioni delle quattro volontarie –, fino a scivolare all’interno del suo rapporto di coppia, rianimandolo per qualche tempo, poi dissestandolo, prima di sparire senza quasi lasciare traccia.

 

La sensazione dominante è di essere in balia di un’intenzione precisa ma insondabile dell’autore. Ma allo spaesamento si affianca l’intuizione di una sfida: è sottesa alla trama la necessità di una lettura attiva, di una caccia al tesoro che permetta di capire da che angolazione leggere e interpretare, lasciando quasi l’impressione di quelle lettere criptate da gioco di bambini, in cui solo alcune parole hanno un senso e tutto sta nel capire quale sia il criterio per riconoscerle.

 

Più volte nei monologhi della paziente appare il riferimento a “quella vecchia canzone che parla del famoso conflitto tra l’istinto e la ragione”. Questa è forse una delle angolature: un irrazionale femminile che si va a posare sull’universo asettico e pienamente organizzato ed efficiente maschile, talmente saldo nel mondo dipinto da Cárdenas da potersi nutrire dell’irrazionale come di uno snack, senza farsi penetrare troppo, o addirittura lasciandosene fagocitare per un tempo circoscritto e uscirne quasi indenne. È un razionale che ha bisogno dell’irrazionale e che necessita di una droga che susciti desiderio e appagamento sessuale (perché la realtà ormai non soddisfa più) in maniera però pulita ed eterea – senza nemmeno provocare un mal di testa –, che curi almeno i sintomi dell’isteria nascosta nella ricerca della perfezione – e lo faccia senza sporcare. 

 

 

A questo serve la nuova “droga intelligente che soddisfa le necessità e i desideri”, capace di controllare quel bisogno umano di rompere le simmetrie, provocando piacere ma riportando l’equilibrio dove manca (“se sei triste, ti tira su. Se sei troppo euforica ti calma e se hai bisogno di energia, te la dà”). Quando, poco dopo l’entrata in commercio della droga, un’orda di donne insorge reclamando più pasticche, l’autore sceglie un’angolatura precisa da cui raccontarlo: dall’alto, da lontano, come se si trattasse di un semplice effetto collaterale, che al massimo costerà qualche morto laggiù nel sottosuolo, tra le classi inferiori sporche e fameliche, ma che non intacca in nessun modo questo mondo dove ormai non si sente più niente, è tutto normalizzato e la droga, il piacere, l’irrazionalità sono solo ornamenti alla noia di una vita che è già morta.

 

Questa versione plastificata dell’esistenza è raccontata anche tramite la perfezione del corpo della madre della paziente numero 4, protagonista di molti suoi monologhi: una donna ancora bellissima, la cui pelle tirata e ritirata ha però bisogno di essere continuamente incremata altrimenti si disferebbe completamente. Non c’è qui la magia di un Dorian Gray ma l’ansia assillante di spazzar via l’odore di decomposizione della carne morente. Come gli stati d’animo devono essere sempre appianati, così il corpo è sottoposto al controllo e dominio della tecnica affinché non sia più ciò attraverso cui si vive e percepisce ma una piattaforma da modificare a piacimento per essere nel mondo ciò che aggrada esteticamente e istericamente di più. 

Droga e chirurgia estetica si propongono quindi come colonne portanti del capitalismo.

 

Continuando a cercare segnali e parole ricorrenti, risaltano il campo semantico del vuoto (“questo posto è troppo grande”, “così tanto tempo libero”, “togliere e riempire il vuoto con un’immagine svuotata”, “il vuoto vertiginoso dell’edificio” etc) e del disfacimento (“rovina”, “crepe nei muri”, “creature fisse”, “un museo che si sgretola è il ricordo della vita”…). L’horror vacui è l’effetto collaterale di una vita senza orpelli, senza niente di più del necessario a dar significato – e per questo ci si riempie di “esperienze”, d’intrattenimento che distragga dall’assenza dell’ornamento.

Sotto, lo squallore della marcescenza.

Anche il concetto di doppio, l’idea di coppia, torna spesso, come una “perversa simmetria” che deve essere rotta da un terzo elemento, il quale tuttavia finisce sempre per scomparire e lasciare che la perversa simmetria si ricomponga. 

 

Ornamento, per il dizionario Treccani, è “tutto ciò che, non richiesto da fini pratici ed esigenze funzionali, si aggiunge per conferire bellezza, eleganza, e quindi in genere ogni elemento decorativo”. In esergo, attraverso una citazione di Adolf Loos, Cárdenas annuncia la nostra epoca come la prima incapace di produrre un nuovo ornamento: “Presto le vie della città risplenderanno come bianche muraglie!”, come i muri spogli di un laboratorio, come le pareti esangui di vite disadorne e la pelle senza rughe di corpi senza vita.

 

La linfa di questo mondo, di questa possibilità del reale, è una violenza silenziosa e sotterranea, che scorre in ogni cosa, tra le mascherine, l’odore di disinfettante e i veli di plastica dietro cui “si intravedono i movimenti dei corpi”. Penetra nella vita con grazia, economia e geometria, proprietà che caratterizzano anche la prosa sapiente dall’autore, che aderisce con grande duttilità ai temi e ai personaggi – che va sondato e interpretato, come la realtà.

“Le opere d’arte non si portano a termine, si compiono, come una profezia, non precedono i fatti, sono azioni pure, non hanno altra finalità che non sia l’azione stessa, e una volta compiuta l’opera, una volta compiuta l’azione, ecco comparire il tempo della cosa. La cosa è ciò che muore, la cosa è ciò che si consuma, ciò che si sgretola, e da qui viene l’inutile sensazione della bellezza, l’effetto ornamentale, ciò che dura, è il fossile vivente dell’azione”.

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