Osare: l’utopia al tempo della distopia
Si può ragionare ancora di utopia quando da quarant’anni siamo ingabbiati in una distopia neoliberale e tecno-capitalista ormai totalitaria e non facciamo nulla per uscirne? Ha ancora un senso fare critica di questa distopia, se alle elezioni il demos vota sempre di più per populismi, nazionalismi/sovranismi, democrature, neofascismi che non sono altro che la continuazione della stessa distopia con altre forme e con altri mezzi? Perché perdere tempo a immaginare una utopia umana e umanistica, come quella di Thomas More, quando il tecno-capitalismo è così gentile da supplire a questa che era una nostra esigenza moderna (immaginare mondi diversi e migliori rispetto all’esistente), vendendoci in continuazione nuove utopie tecnologiche e capitalistiche, dall’uomo nuovo del neoliberalismo secondo von Hayek alla realtà artificiale e al Metaverso, a ChatGpt e all’intelligenza artificiale che sta in realtà accrescendo sempre più la nostra ignoranza democratica, morale e di conoscenza?
Ha ancora senso ragionare dunque di utopia se abbiamo perso il dovere/piacere morale e intellettuale della critica, senza la quale diventa impossibile, mancandone la premessa, immaginare mondi diversi e migliori rispetto alla pessima e cinica ed ecocida distopia tecno-capitalista, che pure ci chiede incessantemente di adattarci ad essa e alle sue esigenze di profitto (questo è il piano dell’ideologia neoliberale, secondo Walter Lippmann), facendoci credere che non vi siano alternative a sé come distopia (che però chiama se stessa utopia realizzata e perfetta perché fatta in nome della libertà, nel momento stesso in cui ce la toglie)? Possiamo pensare di fare critica e pensiero critico se i sistemi scolastici sono ingegnerizzati per insegnare solo competenze a fare, evitando ogni conoscenza che ci permetta invece di pensare – e pensare significa appunto pensare criticamente (altrimenti non è pensiero, ma ripetizione, conformismo, funzionalità nostra rispetto al sistema dato) e soprattutto di pensare non solo ai fatti come appaiono oggi, ma ai processi che li determinano?
Scriveva Zygmunt Bauman: “Per nascere, il sogno utopistico aveva bisogno di due condizioni. In primo luogo, una soverchiante (anche se generica e ancora non articolata) sensazione che il mondo non stesse funzionando come doveva e che difficilmente avrebbe potuto essere rimesso in sesto senza una revisione totale. In secondo luogo, la convinzione […] che noi esseri umani siamo in grado di farcela, armati come siamo della ragione, capace di individuare cos’è che non funziona nel mondo e scoprire cosa usare per sostituire le parti malate […]”. Ma oggi? Non è forse impossibile fare critica e pensare l’utopia quando deleghiamo sempre più la nostra vita e il suo governo alle macchine, all’IA e a imprese private – macchine/IA che imparano da sole, macchine autopoietiche e insieme autoreferenziali, macchine che pensano per noi e decidono per noi, portandoci a credere che pensare sia inutile se lo possono fare gli algoritmi, che hanno per di più il fascino dell’esattezza (e se è esatto crediamo che sia anche perfetto, vero e giusto)? Non stiamo forse realizzando ciò che temeva – una società automatizzata e amministrata – il francofortese Max Horkheimer (padre appunto della Teoria critica della ‘Scuola di Francoforte’), quando scriveva, più di mezzo secolo fa, che tutto sarà automatizzato, dal governo al consumo alla produzione, “tutto sarà regolamentato, veramente tutto! […] e alla fine […] sta una società completamente amministrata, automatizzata, perfettamente funzionante, dove il singolo può sì vivere senza preoccupazioni materiali, ma dove non conta più nulla. […] e tutto si ridurrà al fatto di imparare come si usano i meccanismi automatici che assicurano il funzionamento della società”? Come capire – se tutto è automatizzato – che il mondo non sta funzionando come dovrebbe e potrebbe? Come essere consapevoli che occorre invece una sua revisione totale – altrimenti perdiamo noi stessi e la biosfera?
Ha quindi ancora senso, oggi, scrivere di critica e di utopia? Certo che lo ha, semmai ancora più di ieri e quindi diciamo subito un grazie a Roberto Mordacci – filosofo e docente alla Università Vita-Salute San Raffaele – e a questo suo nuovo e importante saggio dal titolo: Critica e utopia. Da Kant a Francoforte, edito da Castelvecchi, che sviluppa il precedente e altrettanto importante Ritorno a Utopia (Laterza). Un saggio denso ma necessario per ripensare e rilanciare appunto il tema oggi dimenticato, se non rimosso, dell’utopia e della critica.
La critica dell’esistente, dunque. Da qui si deve partire e quindi dalla ‘Scuola di Francoforte’ e dalla sua Teoria critica, cioè da Horkheimer, Adorno e Marcuse, tornando ovviamente a Platone e poi a Thomas More per arrivare a oggi. E Mordacci si pone due obiettivi, subito dichiarati e poi sviluppati nelle due parti in cui è diviso il volume: il primo è “una diversa classificazione delle forme della critica francofortese, in stretto rapporto con i classici; il secondo è tracciare il profilo di una versione innovativa di critica, la critica utopica, che si offre come complemento alle altre”. Una critica utopica che nasce dalla percezione di Mordacci “di una certa incompletezza [della teoria critica] delle sue forme prevalenti, ossia una limitata capacità propositiva, che contrasta con l’ineludibile attitudine pratica del pensiero critico”. Come a dire, troppo concentrate sulla pars destruens, le altre forme di critica, senza una adeguata pars construens. A cui cerca appunto di porre rimedio la critica utopica di Mordacci, pur riconoscendo che ogni teoria critica contiene comunque in sé una carica di emancipazione.
E Mordacci indica allora questa classificazione e distinzione (mai però separazione: tutte le forme di critica hanno infatti una loro complementarietà necessaria e nella loro pluralità un particolare punto di forza e di fascino intellettuale): critica trascendentale (che ha il suo antecedente in Kant e nel principio di non contraddizione pratica); critica dialettica (che “si àncora integralmente alla dinamica storica”); critica genealogica (che si rifà in gran parte a Nietzsche e “dove critica del moderno e critica dell’Occidente vanno di pari passo e si uniscono a una critica della razionalità strumentale” francofortese, “che prevale nettamente nelle forme della società capitalista […] ma che sarebbe inscritta nelle radici stesse del pensiero antico”); e critica messianica (in opposizione “all’ideologia del progresso come sviluppo necessario dell’idea, secondo la tradizione storicista”). Su tutto, le teorie critiche sono “fondamentalmente critica dell’ideologia, ossia come smascheramento delle strutture culturali e sociali che generano e giustificano l’oppressione come effetto di presunte leggi di natura dell’economia e della politica”; ideologia chiusa (e che chiude) per sua essenza “a ogni possibilità alternativa”.
Lasciando queste parti alla curiosità e agli approfondimenti del lettore, veniamo alla critica utopica proposta da Mordacci – “un tentativo di rimediare al carattere prevalentemente negativo della teoria critica”. Perché “guidare la trasformazione è possibile solo se si prospetta un insieme di obiettivi radicali ma plausibili, anche per frammenti, in modo da colpire i nodi nevralgici delle strutture di oppressione senza attendere un rivolgimento complessivo e improvviso che potrebbe non darsi mai”. Chiarissimo. Ma prima di entrare nel merito, anticipiamo due nostre perplessità. La prima, già evidenziata in parte: siamo capaci, oggi, di fare una diagnosi critica del tempo attuale? O siamo talmente strafatti di mercato e feticismo tecnologico da esserne ormai antropologicamente/esistenzialmente impediti (siamo cioè ingegnerizzati a non pensare criticamente)? E se e quando reagiamo e ci opponiamo alle forme peggiori di oppressione (pensiamo ai francesi contro la riforma pensionistica di Macron), non produciamo comunque una opposizione per frammenti (sulle pensioni sì, sul neoliberalismo come ideologia no), incapace di utopia e di trasformazione? E quindi, davanti a un sistema neoliberale/tecno-capitalista ormai totalitario e globale (in questo accogliamo la tesi della Teoria critica della prima ‘Scuola di Francoforte’), è realistica una trasformazione per frammenti – cioè “a partire dal rovesciamento di alcune (o delle principali) contraddizioni rilevate nell’esistente”? Oppure, opponendoci per frammenti, si fa solo il gioco del tecno–capitalismo e quindi confermiamo la sua perfetta distopia, fatta – applichiamo i criteri suggeriti da Mordacci per definire la distopia – di disuguaglianze crescenti, di leggi ingiuste, di controllo capillare (oggi si chiama capitalismo della sorveglianza) e di relazioni interpersonali totalmente distorte (come nei social) e “incasellate in schemi meramente funzionali” all’accrescimento della distopia? E ancora: “Non può esservi una sola utopia per la vita sociale” continua Mordacci; ma davanti a un sistema appunto totale e globale (e totalitario – per noi uguale ovunque nella sua struttura e sovrastruttura, al di là delle apparenti differenze), non ci serve soprattutto un’utopia intera – pur senza disegnare una sempre impossibile città perfetta?
Critica utopica, scrive dunque Mordacci, come parte propositiva della critica sociale. Sempre ricordando che il concetto di utopia è stato oggetto di molti fraintendimenti (è solo un’illusione astratta? Si è sempre rovesciata in distopia?) e che quindi ne va ripensato appunto anche il concetto, riportato al suo valore positivo/propositivo. Mordacci elenca allora una serie di principi necessari per accentuare la pars construens del pensiero utopico (e della teoria critica) – “ossia ciò che motiva la sua tendenza a immaginare una realtà alternativa”: il senso di giustizia; la tensione verso l’uguaglianza; il desiderio di libertà; l’impulso alla solidarietà; e l’aspirazione alla felicità. Da qui, una serie di passaggi – un metodo – che deve compiere il pensiero utopico come critica: l’analisi critica della realtà sociale; l’identificazione delle contraddizioni fondamentali esistenti (ad esempio nell’agire economico); l’immaginare assetti alternativi “rovesciando le contraddizioni rilevate”; la progettazione di pratiche di trasformazione.
Una critica utopica, quindi. Non facile, ma non impossibile. Perché l’utopia – conclude Mordacci – “è il contrario di una fuga nella fantasia: è il tentativo di pensare il più concretamente possibile ciò che le ingiustizie attuali tengono bloccato e che chiede a gran voce di essere reso reale”. Perché “osare è la natura specifica del pensiero utopico, così come lo è della critica”. E non possiamo che essere d’accordo.