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No, non è finita / Pandemia e riaperture negli Stati Uniti
No, non è finita. Mentre gli Stati Uniti corrono alla riapertura, è facile convincersi del contrario. Ma l’onda d’urto della pandemia non si è esaurita – soprattutto non al Sud. Due mesi e quasi duemila morti dopo, qui in Louisiana il virus accenna però ad allentare la morsa. Balzati alla ribalta nazionale come uno degli hotspot più preoccupanti del paese, con un bizzarro colpo di scena ci siamo dunque tornati da primi della classe.
In un incontro alla Casa Bianca, uno dei tanti che scandiscono queste settimane, il presidente Trump ci ha additato ad esempio all’intero paese. Siamo “un grande successo” nella gestione dell’epidemia – gente con cui è un “onore” lavorare.
Non siamo più lo stato dove il virus cresce con maggiore rapidità – un primato di cui ci siamo liberati con sollievo. Mentre scrivo, ai primi di maggio, la fiammata di contagi che ha massacrato New Orleans si è assestata a livelli più contenuti. A Shreveport, dove abito, i casi iniziano a imboccare la china discendente. L’epidemia ora imperversa a nordest, nella desolazione rurale che da Ruston e Monroe lambisce il confine con il Mississippi.
La poverissima Louisiana che rallenta la corsa del Nemico Invisibile, come lo chiama il presidente, è la storia di Davide contro Golia. Il genere di notizia che rassicura. Come dire, se ce l’abbiamo fatta noi c’è speranza per tutti. Soprattutto se, nella stessa giornata, il medico più amato d’America Anthony Fauci annuncia una promettente terapia in sperimentazione. Da qui all’illusione il passo è breve.
Il peggio però non è passato. A livello nazionale, i casi superano ormai il milione e nel resto del Sud il picco è in arrivo. Texas, Oklahoma, Arkansas, Georgia e Florida potrebbero allentare con sicurezza le regole appena a giugno. Il Mississippi a fine maggio e l’Alabama qualche settimana più tardi. A farlo prima, mandano a dire gli scienziati, rischia di esplodere la catena dei contagi.
Piacciano o meno, i modelli matematici sono l’unico strumento che abbiamo per orientarci in quest’epidemia – ha ribadito di recente Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. E basta guardare alla traiettoria della Louisiana per capire che, soprattutto in questa parte del paese, la pandemia richiede il passo testardo del maratoneta.
L’intrico di povertà, malattie croniche e pregiudizi si è dimostrata il terreno perfetto per il virus. Non per caso la comunità afroamericana è colpita in modo atroce. In Louisiana è il 33 per cento della popolazione ma conta il 70 per cento dei decessi. Non per caso la mortalità resta fra le più alte del paese. È una tragedia davanti a cui perfino l’uragano Katrina impallidisce.
Eppure un mix micidiale di politica, interessi e disperazione spinge agli scatti in avanti.
Succede così che gli ultimi stati a chiudere sono stati i primi a riaprire, anche senza rispettare i criteri minimi per la riapertura fissati a livello federale (almeno due settimane di decremento dei nuovi casi).
Il più rapido è stato il governatore della Georgia Brian Kemp, che dopo due settimane di lockdown, a fine aprile ha riaperto tutto – inclusi parrucchieri, tatuaggi e bowling. A seguire Tennessee, Texas, Oklahoma, Alabama con una geometria variabile di regolamenti.
In controtendenza, il governatore della Louisiana – il democratico John Bel Edwards – ha prorogato lo stay-at-home order fino a metà maggio. Le nuove disposizioni allentano quelle in vigore finora. Gli ambulatori medici riaprono, gli ospedali accolgono i pazienti non urgenti, i negozi possono ammettere un numero limitato di persone.
Il caso più spinoso, quello di bar, ristoranti e fast food, è stato risolto con un compromesso. I locali vendono solo per asporto. Se all’esterno ci sono tavoli, ci si può però accomodare. I camerieri sono comunque banditi e il social distancing di rigore come le mascherine.
La polemica è stata subito servita. I repubblicani protestano perché le restrizioni sono di fatto prorogate, alcune regioni minacciano aperture anticipate e la parola “libertà” non è mai stata usata così a sproposito. Ognuno ha la sua idea su come riaprire il paese. E non può che essere così. Qui come nel resto d’America la politica è diventata una questione di vita o di morte.
Per questo ridurla alla solita contrapposizione fra democratici e repubblicani è fuorviante. Un poll del Washington Post mostra che in Florida, Tennessee e Georgia – dove gli stati hanno accelerato sulle riaperture – la gente è in ansia. La maggior parte (57-60 per cento) ha paura di tornare al lavoro. Teme condizioni poco sicure e preferirebbe un ritorno graduale alla normalità.
Il dato contrasta con le manifestazioni che in tutt’America chiedono la riapertura immediata – la più inquietante quella che in Michigan ha visto irrompere un gruppo di dimostranti armati nel parlamento locale. Sono proteste in cui confluisce un fronte che dai repubblicani arriva all’estrema destra – con tanto di bandiere confederate e simboli neonazisti. Ed è lecito domandarsi fino a che punto sono pilotate. Trump, per dire, ha senz’altro contribuito a soffiare sul fuoco, soprattutto nel caso del Michigan.
Non si può però ignorare che la fretta è congenita alla struttura di quest’economia così avara di tutele e reti di salvataggio. In tempi normali, dicono le statistiche, la maggioranza degli americani non ha 400 dollari per fare fronte a un’emergenza. I più vivono di stipendio in stipendio – l’esercito di baristi e camerieri in prevalenza di mance. Quando il sistema collassa, si precipita. E per molti la fame è dietro l’angolo.
Il cibo si sta rivelando uno snodo centrale di questa crisi. I supermercati sono stipati di gente ma frigoriferi e scaffali denunciano ampi vuoti. Non è solo questione di disinfettanti, alcol o mascherine. Quelli mancano da mesi. È l’intera catena dei rifornimenti che ormai procede a singhiozzo. Gli impianti di lavorazione delle carni sono ovunque diventati focolai di contagio e l’approvvigionamento si annuncia difficoltoso – un incubo per un paese di carnivori.
Negli allevamenti, si abbattono polli e vitelli. Nei campi, frutta e verdura vanno al macero. Il raccolto e la semina sono a rischio. Le uova scarseggiano. Il sistema, che già si sapeva insostenibile, rivela fragilità immense e inaspettate. E mentre il cibo finisce nella spazzatura le charity moltiplicano gli sforzi per dare da mangiare a chi non ha. È un paradosso a cui siamo abituati. Non per questo è meno osceno.
All’inizio della crisi, si erano messi in coda in diecimila davanti alla Food bank di San Antonio, Texas. Un’immagine che aveva fatto il giro del mondo. A Shreveport, tenere il conto è impossibile. I punti dove ricevere aiuto ormai costellano l’intera città. Il virus vieta la socialità minima della mensa e i banchetti fioriscono in strada – davanti alle chiese, le associazioni, gli edifici pubblici. È il takeout dei poveri: prendi il tuo e te ne vai. Quanto ai bambini, le scuole – chiuse a metà marzo – ogni lunedì distribuiscono i pasti per il resto della settimana. Viene da chiedersi cosa succederà alla fine dell’anno scolastico.
Il virus mette alla prova le nostre capacità di capire. Stentiamo ad afferrare la rapidità della sua crescita esponenziale e tendiamo a sottovalutarla, spiega su The Atlantic Baruch Fischhoff, docente di human judgment e decision making alla Carnegie Mellon University. Tanto più stentiamo a orientarci nello scollamento fra casi noti, test e casi non diagnosticati.
Allo stesso modo, fatichiamo a concepire l’andamento della pandemia – che è fulminea nell’esplodere ma si dipana in slow motion. È il genere di situazione, ammonisce il professore, in cui a fidarsi delle proprie intuizioni si rischia di finire male. Vale per il politico, l’uomo d’affari e ciascuno di noi. Anche per questo il ritorno alla normalità si annuncia travagliato. La mossa sbagliata è sempre in agguato – per il singolo e per la collettività.
Intanto il mondo inizia a spaccarsi in due – chi può limitare l’esposizione al virus e chi no. C’è chi lavora da casa, compra online o dipende da un’istituzione attenta al rischio sanitario, come scrive David Frum su The Atlantic. E chi si ritrova sulla prima linea del contagio, nelle fabbriche, nelle imprese di pulizie, nei supermercati, nei fast food o nei negozi – tutti settori in cui le minoranze sono ampiamente rappresentate.
Per un assaggio di futuro, basta mettere piede in qualsiasi negozio. La mascherina è diventata obbligatoria per chi lavora con il pubblico e gli addetti obbediscono. La maggioranza dei clienti è però a volto scoperto.
“Mettere la mascherina è comportarsi da buoni vicini e in Louisiana siamo orgogliosi di essere buoni vicini”, ha ripetuto fino alla nausea il governatore. Ma l’individualismo qui è un codice radicato e non sarà la retorica dei buoni sentimenti a sconfiggerlo.
Quanto ai dipendenti del Centro medico dell’università, la temperatura sarà misurata all’ingresso. Test per tutti ogni due settimane e senza mascherine non si entra. La differenza fra salute e malattia segue linee fino a poco fa inimmaginabili.
La Louisiana è una zona sub tropicale. La primavera è magnifica e brucia in fretta. Non c’era stagione peggiore per una pandemia. Se si vuole stare all’aperto, questo è il momento. Fra poche settimane, il caldo micidiale ci ricaccerà dentro all’aria condizionata e lì resteremo fino a settembre.
Mentre scrivo, sotto casa sfila un fiume di ciclisti, bambini, cani, jogger. Nessuno tiene le distanze, nessuno ha il volto coperto. È lo spettacolo che mi accompagna dall’inizio di questa quarantena. Un’allegria da vacanza. L’ostinazione della normalità. Il rifiuto di prendere atto che il mondo non è più lo stesso.
A sera, il ristorante sotto casa si affolla di clienti. È il sabato della riapertura. Si compra alla finestra, ci si siede nel patio illuminato a festa. Dai tavoli si levano voci, brindisi e risate. Non è finita, ma è facile crederci. Vista da qui la pandemia sembra soltanto una brutta favola.