Maestri / Paolo Fabbri: una guida dietro di noi
“Il maestro non è qualcuno che educa, o che informa, ma semmai uno con il quale, accanto al quale e grazie al quale poter proseguire nella ricerca: non tanto insegnare a farla ma percorrere insieme, se pure con ruoli differenziati, le medesime direzioni di lavoro. Da un lato, c’è il sapere imposto per autorità, frequentissimo e del tutto ininteressante. Dall’altro c’è l’idea del fidarsi dell’altro, del grado di affidabilità: che è reciproca: l’allievo deve innanzitutto fidarsi del maestro, ma anche il contrario, il maestro deve saper scegliere di chi fidarsi veramente, e sino a che punto”.
Mi sono risuonate in mente, queste sue parole, adesso che Paolo Fabbri non c’è più. Andato via ieri mattina, nella sua casa di Rimini, dopo una malattia che ha fatto di tutto, sino alla fine, per ignorare. Inutilmente. Queste parole stavano in un’intervista sul ruolo attuale dei maestri, che è apparsa proprio qui su doppiozero esattamente quattro anni fa e che val la pena di rileggere per intero. Paolo non era solo un maestro. Così come non era solo un amico. Era molto di più. Era una guida dietro di noi, come amava ribadire, qualcuno che ci precede per perderci. Da lui in molti abbiamo imparato innanzitutto un’etica intellettuale rigorosa, tanto fedele a un progetto di ricerca (la semiotica strutturale come studio della significazione umana e sociale) quanto curiosa verso tutto ciò che le succede intorno (il vasto campo delle scienze umane novecentesche) e che può aiutarla a crescere meglio, a diffondersi in modo non pedissequo.
Per Paolo la semiotica non era una disciplina come tante altre, non era un lavoro qualunque, poiché si trattava di un progetto di vita. Un progetto che lo ha accompagnato per la sua intera esistenza. Che lo ha formato interamente e intensamente. E che ha provveduto in mille modi a consolidare e a diffondere. La semiotica, si affannava a ripetere, non studia il linguaggio, entità immaginaria parlata da nessuno, ma il senso, le forme del senso, i modi in cui, cioè, le società umane danno ordine al mondo riflettendocisi dentro: le lingue certo, ma con esse innumerevoli altri sistemi, dalle immagini ai miti, dall’abito alla cucina, dall’architettura ai rituali, dai gesti agli oggetti, dai discorsi dei media ai rumors d’ogni giorno. Il senso sta dappertutto, si insinua nei più minimi dettagli della nostra esperienza, appare dove meno ce lo aspettiamo, si trasforma di continuo, ci indica strade da percorrere e passioni da vivere. È la ragione per cui il semiologo è sempre al lavoro, con curiosità ed entusiasmo, pronto a sorprendersi di ritrovare nei più casuali meandri della vita quotidiana sofisticatissimi dispositivi come, poniamo, l’apparato formale dell’enunciazione o la differenza fra linguaggio figurativo e linguaggio plastico.
Per non dire della narratività, chiave di volta dell’intero edificio semiotico. Così, essere sempre al lavoro è tutt’altro che una dannazione: è piuttosto un’opportunità, una condizione di perenne sollecitazione intellettuale, una straordinaria motivazione esistenziale. A chi usava tenere distinto il lavoro del semiologo dai passatempi della vita privata, Paolo amava domandare: perché falciare il prato? è anche questo un sistema di segni?
Così, andando a memoria (dunque tralasciando chissà quanto), Paolo si è occupato di: comunicazioni di massa, linguaggi abbreviati, discorso politico, comunicazione pubblicitaria, testi scientifici, persuasione retorica, informazione ambientale, segreto, strategie, dissimulazione, spionaggio, guerra, cinema (Fellini soprattutto, ma anche Antonioni, Hitchcock e molti altri), arte contemporanea, poesia d’avanguardia, specchi, pittura olandese, ombre, passioni (ira, vendetta, gelosia…), città e frontiere, simboli clinici, atti linguistici, assemblee desideranti, oggetti criptici, blasoni e araldica, procedure di scoperta scientifica, poemi cavallereschi, ragionamenti figurativi, tarocchi, parabole evangeliche, bugie, profezie, labirinti, video, ecologia, lingue dei segni, pragmatica delle cure mediche, traduzione, camouflage, processi percettivi e produzione artistica, anacronie, immagini scientifiche, fotografia digitale, terrorismo… Andate a curiosare nel suo sito (www.paolofabbri.it), troverete molto altro. Ultimamente s’era fissato coi tatuaggi (“con tanto parlare che si fa di post-umano e virtualità, mai visto tanto corpo”), aveva fatto un’analisi straordinaria della bandiera dell’Unione Europea, stava lavorando sull’Ultima Cena e sulla serialità vecchia e nuova. E chissà quant’altro.
Se pure autore di alcuni libri importanti (Tacticas de los signos, La svolta semiotica, Elogio di Babele, Segni del tempo, Elogio del conflicto) e di moltissimi saggi, curatore di volumi collettivi (Affettività e sistemi semiotici, Semiotica in nuce, Nel nome del senso, Le avventure di Pinocchio, Voci e rumori, Lo schermo manifesto, La competenza semiotica…) o di saggi altrui (Greimas-Courtés, Thom, Jullien, Coquet, Benveniste, Goodman), traduttore di un certo numero di volumi (Barthes, Dumézil, Greimas), direttore di diverse collane editoriali (Segnature, Teoria della cultura, Insegne, La figura nel tappeto), è noto che la maggior parte del suo pensiero, della sua ricerca, del suo insegnamento, è passata per la comunicazione orale: conferenze, interventi, seminari, lezioni, dibattiti, conversazioni e, molto spesso, interviste. Le principali delle quali sono state raccolte nel volume L’efficacia semiotica (Mimesis 2017), che costituisce un punto di riferimento necessario per comprendere a fondo il personaggio e la sua opera immensa e labirintica.
Leggendole di seguito emerge il disegno di un preciso orizzonte di ricerca – quello della teoria critica dei linguaggi –, con alcuni punti fermi della teoria (strutturalismo, testualità, racconto, enunciazione, passioni, semiosfera), ben precise discipline di riferimento (antropologia, linguistica, teoria della comunicazione, storia dell’arte, critica letteraria, epistemologia), alcuni autori di riferimento (Saussure, Hjelmslev, Lévi-Strauss, Jakobson, Barthes, Greimas, Foucault, Deleuze, Benveniste, Lotman, Goodman, Thom), molti compagni di strada (Calvino, Lyotard, Baudrillard, Stengers, Latour, Jullien, Marin, Coquet, Calabrese), un certo numero di ossessioni (il futuro della semiotica, il confronto con Eco). Fabbri, come è noto, ha lavorato a lungo fra Italia e Francia e, come dire, si vede: per lui dirigere l’Istituto italiano di cultura di Parigi, alla fine degli anni 80, non è stato lavoro diplomatico ma costruzione di un ponte intellettuale fra due Paesi troppo spesso impermeabili fra loro.
Alla fine dello scorso anno l’editore Sossella aveva raccolto in volume i suoi scritti su Fellini, riminese come lui, dove spicca una straordinaria analisi della celebre scena in cui Casanova balla con l’automa (per Barthes era l’epifania del punctum). Si intitola Sotto il segno di Fellini, ed è imperdibile. Come lo è il recentissimo Vedere ad arte. Iconico e icastico (a cura di Tiziana Migliore, Mimesis), raccolta dei suoi scritti (sono una cinquantina) su artisti contemporanei come Adami, Baruchello, Boltanski, Kosuth, Pistoletto, Pomodoro, Viola. Dovevamo presentarlo nelle prossime settimane.
L’ho sentito l’ultima volta una decina di giorni fa: stavamo progettando un seminario a Urbino sul prefisso “post”, ossessione degli intellettuali di mezzo mondo. Oggi tutto è “post”. Dunque nulla lo è. Quel che serve è il “post-post”, mi diceva scherzando. Oggi però quella battuta mi raggela. L’ironia della vita ne ha cambiato il significato.